MARCO SCATAGLINI
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FOTOBLOG KELIDON

In questo blog fotografico non troverai tante parole, ma tante foto, la narrazione fotografica, con qualche considerazione tecnica e magari qualche consiglio, delle mie uscite sul campo e delle mie esplorazioni. Diciamo che vuole essere una sorta di diario sul campo!

Il sottile piacere dell'inutile

23/3/2023

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Chi stabilisce cosa sia utile - diciamo prezioso, importante, da celebrare - e cosa invece inutile, e dunque da eliminare o non prendere in considerazione?

Nel corso della mia carriera fotografica, mi sono reso sempre più conto di quanto, al crescere dell'importanza del soggetto, diminuisse la carica creativa necessaria a fotografarlo. Potremmo dire che il bel soggetto (un paesaggio, un dettaglio, un essere umano) si "fotografa" da solo, o quasi, Insomma, dobbiamo evitare di ostacolarlo e se così facciamo, qualcosa di buono ne viene fuori, il più delle volte. Non che la creatività ne resti esclusa, ma in fondo si annoia un po', dài.

Con i soggetti inutili, invece, quelli che tutti ignorano o trovano poco piacevoli, insignificanti, triviali, se non ci metti del tuo - ma davvero (a cominciare dalla decisione di fotografarli) - non se ne cava nulla che valga la pena guardare.
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Molti riterranno comunque che non valga la pena guardare un telo steso su un cancellaccio di campagna, e non so dargli torto. Ma c'è qualcosa di magico, addirittura glorioso in queste forme, quasi che la loro mollezza riscatti l'inutilità stessa della loro presenza. Non so perché, mi fermo a guardare queste forme a lungo, e poi scatto. Non sapevo cosa fosse in loro ad attirarmi, sinché non ho letto "Verso la foce" di Celati.
​Ecco, anche lui (a parole) descrive cose brutte, inutili, triviali. E ne rimane incantato. Siamo gente strana, lo so.
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Sia ben chiaro: a me non "piacciono" le cose brutte (e inutili), i vasetti di plastica che il contadino abbandona ai lati di un campo dopo averli usati e che l'erba rigenera suo modo. E che non riesco a odiarli: hanno un che di animista, quasi fossero abitati da uno spirito birichino che fa le boccacce e alla fine non puoi fare a meno di guardarlo. Ti arrabbi, eppure fotografi. Sarà anche da stronzi abbandonare la plastica in un campo, ma la natura trasforma ogni cosa, e mi sembra sempre un miracolo.
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Io poi ho 'sta fissa dell'arte spontanea. Insomma, artisti di fama accroccano roba strana in installazioni che vanno nei musei e si vendono a milioni di euro, e quella sopra non dovrebbe avere la stessa rilevanza? A mio parere è un'installazione bellissima.

Ed è anche utile, visto che al riparo dei bandoni in metallo ci sono cisterne d'acqua per irrigare un orto, che poi darà frutti. Quante installazioni danno frutti? Magari fanno mangiare in ristoranti di lusso i loro autori, ma mica è la stessa cosa.

Insomma, questo è quanto. Forse è il caldo (odio il caldo) di queste prime giornate di primavera, ma ieri passeggiando su strade di campagna son questi pensieri qui ad aver invaso la mia testa. Sarà grave?
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Alberi e ruderi

2/3/2023

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Il titolo fa riferimento a due dei miei soggetti preferiti. Se analizzo il mio lavoro creativo degli ultimi anni, sono questi due elementi ad aver caratterizzato la mia "storia fotografica". In effetti, spesso i ruderi e gli alberi (almeno quelli solitari) si trovano insieme.
​Sono la rappresentazione di un possibile, diverso rapporto tra l'uomo e il territorio, tra l'uomo e la natura.
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Come sosteneva il filosofo Georg Simmel, l'uomo tende sempre verso l'alto - edificando palazzi e monumenti sempre più alti - mentre la natura tende inesorabilmente verso il basso, smantellando montagne, addirittura interi continenti, sebbene poi sappia anche crearne di nuovi. Ma sempre cercando poi di livellarli. Il rudere rappresenta un punto di equilibrio tra queste due istanze e, in definitiva, è anche un punto di equilibrio filosofico tra l'uomo e la natura.
Ovviamente, il rudere permette di fare esperienza del tempo, per dirla con Marc Augé, e di riflettere sulla caducità della nostra esistenza. Non a caso tra il XVI e il XVIII secolo (ma anche dopo) si edificavano giardini con delle finte rovine, che dovevano avere la funzione ammonitrice di un "memento mori" perenne.
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Se vogliamo - sempre a proposito di "memento" - anche l'albero solitario, risparmiato dalle attività agricole sempre più invasive, agisce come ammonimento, o come elemento di memoria. Ci ricorda quanto può essere bella la natura, se lasciata libera di esprimersi. E nel contempo, anche questi alberi sono a loro modo delle testimonianze, dei "ruderi": sono stati salvati per fornire ombra alle greggi (il cosiddetto "mereo"), o perché un tempo costituivano segni di confine tra diverse proprietà (i latini li chiamavano "arbores finales" e abbatterli portava a condanne severe, anche alla morte) o semplicemente perché a qualche contadino piacevano, chissà.
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​Ma oggi sono spesso abbattuti, insieme alle siepi, perché ostacolano le coltivazioni meccanizzate. Chissà cosa ne avrebbero pensato i Romani!
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Queste sono state le mie riflessioni durante una lunga passeggiata di qualche giorno fa. Davvero, come osservava Henry David Thoureau, l'uomo trova la saggezza solo camminando. Per questo in una società che cammina poco e utilizza troppo l'automobile come la nostra, la saggezza sembra essere diventata merce rara...
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Mutamenti

18/1/2023

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Per il mio progetto "Somewhere is Everywhere" (da qualche parte è ovunque), di cui sto complteando il secondo volume (il primo lo trovate qui) sto analizzando il territorio alla ricerca delle tracce che l'uomo ha lasciato nel tempo, ma anche dei mutamenti che negli ultimi anni sono avvenuti a causa dei cambiamenti climatici, oltre che di quelli economici.

Buona parte dei casali di campagna, ad esempio, sono stati abbandonati, in quanto oramai con l'automobile è possibile abitare in città e raggiungere le aree coltivate in poco tempo. E le colture  sono diventate di tipo industriale, oppure vengono portate avanti - come nella foto sotto - quasi solo "per hobby", spesso come secondo lavoro, oppure da anziani in pensione...
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Lo stesso, in fondo, è avvenuto anche per alcune strutture "a servizio" della vita in campagna, quali le pievi e le chiese campestri. Alcune sono state restaurate, e oggi appaiono un po' come "cattedrali nel deserto", altre semplicemente giacciono in stato di totale abbandono, in attesa del crollo fatale.
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Naturalmente parliamo di un cambiamento epocale, probabilmente irreversibile, anche se esistono esperienze di rivitalizzazione di realtà tradizionali. Un cambiamento che pone molte questioni, sia ambientali che, se vogliamo, etiche.

Per millenni l'uomo ha avuto un rapporto quasi simbiotico con la terra - intesa come suolo - che era fonte di vita, e vi si radicava quasi come facevano le piante. Spesso era una vita grama e dura, ma per cambiare una realtà insostenibile si è gettato via, insieme all'acqua sporca, anche il bambino.
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Parlavo con un agricoltore, qualche tempo fa, e mi raccontava di come - a causa degli inverni sempre più caldi e miti - le tecniche colturali stiano cambiando. Ad esempio si fanno più trattamenti con antiparassitari, perché il freddo intenso è un antiparassitario naturale ma se non agisce... allora si ricorre alla chimica.

​E' un cane che si morde la coda: più il clima muta, più l'uomo inasprisce la propria azione impattante sugli ecosistemi, il che peggiora ulteriormente la situazione, in una spirale che sembra senza fine. E che ben pochi mettono in cima alle proprie preoccupazioni, nonostante il problema del prezzo del gas - ad esempio - sia una quisquilia rispetto a ciò che ci attende se non faremo nulla per arrestare questo "avvitamento".
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Queste sono alcune delle riflessioni che mi ingombrano la mente durante le mie esplorazioni campestri. E allora dinanzi al rudere di un casale mi viene spontaneo pensare anche che proprio l'abbandono sia una possibilità di uscita: intorno alle aree abbandonate la natura può trovare rifugio, sviluppare anticorpi, prepararsi alla resistenza.

​Insomma, l'abbandono non è sempre un male o qualcosa di negativo: può far male al cuore, ma - come sostiene Gilles Clément nella sua teoria del "Terzo Paesaggio" - alla fine potrebbe salvarci...
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Una buona fine, un buon inizio

31/12/2022

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Ieri, col mio amico Andrea, appassionato "esploratore", come me, di luoghi più o meno dimenticati, abbiamo realizzato l'ultima passeggiata del 2022. L'idea era di raggiungere una strana radura rocciosa persa - ahimé - in mezzo a una folta e spinosissima macchia. Non sapevamo esattamente cosa aspettarci, ma a noi piace così: faticare per "andare a vedere", poi magari si trova qualcosa, magari no.
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Beh, sanguinanti e doloranti per gli spini, abbiamo raggiunto questo luogo misterioso, scoprendo che si tratta probabilmente di un'antica cava - forse etrusca - che comunque comprende uno strano monumento rotondo, che pare tanto un cumulo sepolcrale. In mancanza di dati specifici e archeologici il mistero resta. L'emozione, comunque, è stata tanta.
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In questo modo ho concluso il mio "vecchio" anno. Per il nuovo ho tanti progetti, uscirà un nuovo corso di fotografia, dedicato al Paesaggio, per Reflex-Mania, con allegato un nuovo libro davvero particolare e a cui tengo molto e verso l'autunno pubblicherò il secondo volume del progetto "Somewhere is Everywhere". Insomma, un anno intenso.
Ti auguro che anche il tuo sia pieno di soddisfazioni, sentimenti, emozioni e cose belle!
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La vendetta del mare

27/11/2022

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Si è detto molto sui "disastri naturali" che avvengono nel nostro paese. A parte quelli drammatici (come a Ischia o nelle Marche) si tratta spesso di eventi che provocano comunque danni seri.

Pochi giorni fa, sul litorale romano si è abbattuta una forte tempesta, con onde altissime. Nessun danno grave ma un territorio già devastato dal cemento e dall'incuria, appare ora ricoperto da uno strato incredibile di "monnezza", soprattutto plastica. 
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A me piace pensare che sia la vendetta del mare, che ci restituisce quel che stupidamente vi gettiamo.

E' singolare osservare anche come la "matrice" di quel che il mare deposita sulla riva sia costituita da frammenti di canne comuni (Arundo donax). Un prodotto "naturale" ed ecologico, certo, ma la  canna che vediamo crescere rigogliosa quasi ovunque ci sia un minimo di umidità è in verità quel che si definisce una "archeofita", cioè una specie vegetale introdotta (forse dall'Asia o dalle coste africane del Mediterraneo) già in epoca antica, probabilmente dai Greci o dai Romani.

Insomma, alla fine anche qui c'è lo zampino dell'uomo!
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Tra i "materiali" che finiscono in mare in gran quantità, ci sono poi dei "tessuti" che sono probabilmente parte di pannolini per l'infanzia e assorbenti femminili. Invisibili nelle foto, ci sono poi i "cotton fioc" per pulire le orecchie  e chilometri di filo interdentale, tutti materiali plastici che sono gettati direttamente nello scarico del bagno: "tanto sono piccoli". Eh, ma quando sono milioni...
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​Sono convinto che il prezzo da pagare per la nostra stupidità sarà sempre più alto, almeno fino a quando non riusciremo a farci entrare nelle zucche vuote che non ci siamo Noi e la Natura: c'è SOLO la Natura, di cui facciamo parte. Quel che facciamo a lei, lo facciamo a noi stessi...
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Festeggiamo gli alberi, non facciamogli la festa!

19/11/2022

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Il 21 novembre (dunque questo lunedì) si festeggia la giornata nazionale degli alberi. Bello. Nelle scuole si spiegherà ai bambini quanto sono importanti i boschi, quanto gli alberi fanno per noi fornendoci ossigeno, riparo, cibo, materia prima.
In epoca di mutamenti climatici - a cui non si sta mettendo alcun freno, stante il fallimento dell'ennesima inutile conferenza internazionale, ancora in corso - non c'è alcun dubbio che gli alberi siano visti come l'unica vera possibilità di salvare noi stessi (più che il pianeta, che se la caverà in qualche modo).

​Il problema vero è che per ridurre la quantità di CO2 nell'atmosfera in modo efficace, dovremmo piantarne mille miliardi. Michi fischi.
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Soprattutto, osservo, dovremmo smettere di tagliarli, altrimenti la faccenda, già complicata (basti pensare che i vivai non producono piantine a sufficienza, almeno al momento) diventerà impossibile. E invece si incrementano le stufe a pellet, si punta sulle biomasse forestali per produrre energia, in generale si taglia, si taglia, si taglia.

​Al punto che ci sono aree, anche in Italia, dove per trovare un bosco vero (non quelle distese di stuzzicadenti che qualcuno osa ancora definire bosco) devi faticare non poco. Ad esempio dove vivo io, nella Tuscia.
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Ora, è vero che il legno è un materiale ecologico e rinnovabile, ma visto che gli alberi ci servono vivi, e possibilmente organizzati in boschi vitali e ben strutturati, dovremmo non solo piantare alberi per ridurre gli effetti dei mutamenti climatici (e rendere il mondo un posto più bello e vivibile), ma anche come materia prima, alberi "ready to cut" come si usa dire. 

Dunque a quei mille miliardi aggiungiamone diciamo un altro mezzo miliardo.
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Si stima che solo in Italia per raggiungere questo obiettivo sarebbe necessario riforestare praticamente tutte le aree attualmente sfuggite alla speculazione edilizia o che non sono più coltivate. Sarebbe bellissimo, ma non mi sembra che si vada in quella direzione. Anzi, la nuova legge forestale quasi obbliga i proprietari di terreni boscati a provvedere al taglio. E c'è ancora chi sostiene che un bosco se non viene tagliato "muore" (ovviamente sono quelli che dal taglio ci guadagnano). Mi scuserai dunque se sono piuttosto pessimista in merito.
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Io adoro gli alberi, ho scritto un piccolo saggio sullo star bene grazie agli alberi ("Mettere Radici", è disponibile su Amazon) e ho anche realizzato un libro fotografico su di loro ("Lucus", esaurito da tempo), ma foto di alberi entrano in quasi tutti i miei progetti.

Detesto i luoghi in cui non ci siano alberi. Gli alberi mi danno un senso di sicurezza, di forza, di benessere appunto. Credo siano gli organismi più eleganti ed efficienti che siano mai apparsi sul pianeta Terra, e d'altra parte è solo grazie a loro che anche io e te siamo qui. Niente alberi, niente vita. Come minimo dovremmo guardarli con animo grato, e invece li maltrattiamo, specialmente in città, perché "sporcano" (loro!!!) e rialzano l'asfalto con le loro radici, o perché impicciano, danno fastidio, tolgono spazio alle auto. E poi se ci parcheggi sotto gli uccelli che si posano sui rami ti cagano sulla carrozzeria.

​Come dicevo, non ce la possiamo fare.
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Tuttavia, visto che alla fine lunedì saremo inondati da messaggini elegiaci su "quanto bene ci fanno gli alberi", allora sarà meglio partecipare all'evento in modo meno ipocrita. Magari facendo una passeggiata ripetiamo l'antico gesto apotropaico di abbracciare un albero, uno qualsiasi, il primo che ci capita a tiro. A me capita di abbracciarli spesso, con gratitudine. Sarà una cosa scema, sicuramente lo è, ma chi se ne frega. E sempre viva gli alberi vivi!
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Il sentiero infrarosso

2/11/2022

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Il "Sentiero dei Bottini" a Tarquinia fa parte di una rete di tracciati tra macchia e campagna realizzato in buona parte da Ennio Soldini (detto Ennicus), un appassionato di natura e mountain bike che dedica molto del suo tempo alla cura di questi luoghi. Con i miei amici Roberto e Massimo abbiamo deciso, qualche giorno fa, di tornare a "dare un'occhiata" e, per l'occasione, ho optato per l'Infrarosso digitale.
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Il sole costante di questa infinita "ottobrata" lo rendeva ideale, e poi il senso di mistero che l'IR aggiunge alle fotografie mi sembrava perfetto per sottolineare lo spirito di questo territorio in cui le tracce del passato sono così ben presenti, eppure in buona parte nascoste. Inoltre, le zone di campagna sono popolate da venerande sughere secolari, che sono un soggetto a cui occorre necessariamente porre attenzione, e celebrare fotograficamente.
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Le foto le ho realizzate con una fotocamera modificata per i 720 nm e un obiettivo anomalo, un 10 mm f/8 cinese. Si tratta di uno di quelle ottiche "pancake" che costano pochissimo (una settantina di euro) e che i più snobbano.
Ma su un forum americano avevo letto che un appassionato di Infrarosso aveva testato il 10 mm e aveva rilevato che andava alla grande per questa tecnica.

Bisogna sapere, infatti, che nell'Infrarosso c'è una seria problematica legata agli obiettivi, che ovviamente sono progettati per la luce visibile e non per quella "invisibile". Inoltre il sensore modificato reagisce piuttosto male ai raggi di luce che arrivano molto angolati, come avviene tipicamente con i grandangoli. Risultato: con i grandangoli, specialmente spinti, ai bordi la qualità decade in maniera piuttosto visibile e fastidiosa.

​Non è un problema di obiettivi più o meno buoni: io ne ho provati parecchi, e sui citati forum potete leggere di prove simili fatte su obiettivi Leica o Zeiss e di altre marche prestigiose che pure vanno malissimo se utilizzati con l'IR.
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Incredibilmente, invece, ci sono obiettivi super economici o vintage che si comportano nettamente meglio. Per questo, ovunque nel mondo, ci sono appassionati che provano a utilizzare anche vecchi "fondi di bottiglia" alla ricerca dell'ottica grandangolare in grado di dare buoni risultati. Una sorta di cerca del Sacro Graal.

Insomma, data la cifra accessibile ho rischiato acquistando iil 10 mm pancake e, incredibilmente, non solo l'obiettivo - al netto della scomodità del diaframma fisso - va piuttosto bene, per il prezzo, anche su una fotocamera normale, ma sull'infrarosso ha una resa di gran lunga migliore di qualsiasi altro grandangolo abbia provato sinora. Inoltre è piccolissimo, non più di un paio di centimetri di spessore, il che lo rende straordinariamente comodo. Certo, occorre "lavorare" molto con la messa a fuoco, imprecisa come minimo (alcune delle foto sono venute "sfocate" su un lato, effetto di una certa aberrazione sferica parzialmente correggibile solo se si mette a fuoco con una certa cura), ma alla fine il risultato è più che ragionevole.

Perciò mi sono divertito durante la piacevole passeggiata a scattare foto IR con il mio obiettivo "giocattolo" (anche se meccanicamente appare solido, essendo tutto di metallo), godendomi la bellezza dei luoghi e la piacevole compagnia. Niente lavoro, per una volta, solo fotografia per il puro piacere di inquadare e scattare e - in questo caso - vedere il mondo come i miei occhi non possono fare. E concludo con una foto di un fungo trovato sulla strada del ritorno.

La foto è fatta con lo smartphone, non è all'infrarosso. Grazie al rapporto di ingrandimento è venuto fuori uno sfocato niente male, se si pensa che l'ottica è di circa 4 mm di lunghezza focale...
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Finale di stagione

15/10/2022

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Appartenendo alla sparuta minoranza di chi odia l'estate (e il termine odia va inteso alla lettera), non posso che essere contento e sollevato quando il solleone pian piano abbandona il campo in favore di un po' di (ancora relativo) fresco. Però debbo dire che sin da piccolo gli ultimi scampoli dell'estate - forse perché in prospettiva appunto ultimi - mi son sempre piaciuti.

Fine settembre, primi di ottobre: le spiagge vuote, il caldo non opprimente, la sensazione di un cambiamento imminente, anche le prime piogge, si spera. Dunque se per tutta l'estate evito le spiagge come la peste, ai primi d'autunno mi piace andarci, anche solo per una passeggiata.

​Così l'altro giorno sono andato sulla costa tra Tarquinia e Civitavecchia, in una località detta Sant'Agostino, caratterizzata (oltre che dall'immancabile speculazione edilizia anni '70) anche dalla presenza di singolari rocce alveolate, molto interessanti, anche fotograficamente.
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In effetti si tratta dell'unico tratto di costa rocciosa in chilometri e chilometri di costa sabbiosa (anche discretamente conservata) che arriva in pratica sino alle propaggini dell'Argentario, in Toscana. Ma oltre a questo il colore caldo della roccia calcarea di quest'area e le erosioni caratteristiche - a "buccia d'arancio" - mi piacciono molto.
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Inoltre, questa zona si caratterizza anche per la presenza della foce del fiume Mignone, uno dei principali corsi d'acqua della Tuscia. Certo, considerando che il suo corso è abbastanza ampio e le portate spesso non così piccole, la foce è invece poca cosa, essendo del tipo detto "semplice", dunque senza un "delta" ma nemmeno particolari conformazioni. Semplicemente il fiume si butta in mare, concedendosi solo una piccola divagazione, cioè creando un'ansa subito dopo una sorta di laghetto costiero molto frequentato dai pescatori.
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L'ecosistema, relativamente intatto, è molto frequentato da limicoli e aironi, e qualche anatra (germani, per lo più), ma non dubito che in inverno possano capitarci specie più rare. Ad ogni modo si tratta di certo di un ambiente piacevole e, data la temperatura, alla fine c'è anche chi ne approfitta per un ultimo bagno...
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Nella foto sopra, a parte i due bagnanti, vediamo le case della frazione di Sant'Agostino e in primo piano la citata ansa del Mignone, che in effetti in questo periodo non ha molta acqua. A dominare tutto, purtroppo, la ciminiera della centrale termoelettrica di Civitavecchia, che ci ricorda i problemi energetici che dobbiamo affrontare. Ma per un po' meglio godersi (finalmente) il silenzio e la tranquillità e il freschetto piacevole di questa ottobrata laziale...
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Incontri e abbandoni

2/10/2022

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Il titolo di questo post, mi rendo conto, potrebbe ingannare. Infatti non intendo affatto parlare di storie d'amore strappalacrime, bensì del rapporto che abbiamo con i luoghi, specialmente se urbani o "periurbani". Il problema è infatti che non ne abbiamo affatto cura, e se ci pensi è strano visto che vi trascorriamo buona parte della nostra vita. In casa non ci comporteremmo mai come invece facciamo per le strade della città, che pure sono anch'esse, in qualche modo, "casa".
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Non scriveremmo sui muri con lo spray, non attaccheremmo mai quadri senza cornice (e senza dipinto), non lasceremmo rifiuti sparsi in giro e soprattutto avremmo cura dei vari guasti che possono accadere: muri che si spaccano, buche, infiltrazioni d'acqua. 

Invece in città trascuriamo queste accortezze che avremmo tra le quattro mura della nostra abitazione. Appena varcata la soglia di casa, tutto diventa "res nullius" e l'unico responsabile del degrado che si incontra è il Comune o comunque l'ente pubblico che non fa il suo dovere. Chissà perché ci si immagina di essere seguiti da un gruppo di operatori ecologici intenti a raccogliereman mano le schifezze che buttiamo in terra per non "perdere tempo" a raggiungere il più vicino cassonetto.
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In effetti pensiamo (o, almeno, molti pensano) che sia compito solo delle istituzioni pubbliche il prendersi cura degli spazi "comuni", mentre in realtà è responsabilità di ciascuno di noi rendere il mondo un luogo migliore. Ho sempre pensato - magari sbaglio - che la colpa sia anche del fatto che la gran parte delle persone oramai vive slegata dall'ambiente e spesso circondata da ambienti "rigidi", formali, squadrati, che solo vagamente possono ricordare quella che è l'armonia dell'ambiente naturale. Vivere tra cemento e asfalto, muri rigidamente geometrici, colori pastellati e artificiali, percepire l'erba sul bordo del marciapiede come "sporco" da eliminare col diserbante e non come un simbolo della resilienza naturale, è a mio parere alla base del rapporto errato che abbiamo con tutto ciò che che ci circonda.
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Le persone vivono nella perenne idea che la natura sia un pericolo, che le catastrofi siano "naturali" e non provocate dalla stupidità umana (pensiamo alle alluvioni di questi giorni), che gli animali siano sempre pericolosi, anche se né lupi né cinghiali hanno mai assalito gli esseri umani se non per difendersi quando attaccati, che la terra pulluli di insetti velenosi, serpenti intenti ad attaccarci, pipistrelli che desiderano solo attaccarsi ai nostri capelli, e così via. Una realtà distopica e irreale, ma che  - anche grazie ai Social - diventa sempre più popolare. 
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Forse potrebbe sembrare esagerato quel che sto scrivendo, ma riflettici un attimo. Siamo passati dalle preghiere e benedizioni per invocare la pioggia dopo mesi di siccità disastrosa, con il Po ai minimi termini e seri danni all'agricoltura, alle imprecazioni per "troppa grazia Sant'Antonio", con alluvioni e frane provocate dalle piogge finalmente arrivate.

In pochi hanno posto attenzione a due aspetti fondamentali della questione: da un lato che ci troviamo ad affrontare dei mutamenti climatici gravissimi, in grado di alterare per sempre i modi di vivere come li conosciamo, e che sono contrastati solo a parole mentre non si fa niente per ridurre davvero le emissioni di CO2, dall'altro che siccità e piogge intense ci sono comunque sempre stati e che con una normale cura del territorio e soprattutto evitando di sovrasfruttarlo e riempirlo di asfalto e cemento non succederebbe nulla di grave nella maggior parte dei casi.
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Ma invece, dopo aver tagliato o ceduato i boschi, aver sfruttato all'estremo i suoli, cementificato gli alvei dei fiumi, costruito sempre nuove case di cui nemmeno abbiamo bisogno, creato strade di ogni tipo con un consumo di suolo pazzesco, evitato di accumulare l'acqua in invasi creati appositamente o di ridurre gli sprechi assurdi del prezioso liquido, ad esempio con sistemi di irrigazione più efficienti, ci lamentiamo delle conseguenze, chiamando leopardianamente la Natura "matrigna". Siamo o non siamo strani?
________________________________________________________________________________
Se vuoi sostenere il mio progetto fotografico che cerca di raccontare questi temi, puoi acquistare il primo libro che ne ho tratto: "SEGNI/SIGNS". Grazie.
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Viaggio fotografico nella steppa

24/9/2022

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Una parte importante del mio progetto "Segni/Signs" si basa sulla cosiddetta "steppa agraria", uno degli ambienti oramai più diffusi in Europa. Si tratta dunque del "segno" più forte che l'uomo ha lasciato sul pianeta e a sua volta contiene infiniti altri segni, rappresentati dai lavori che, con ciclo annuale, vi vengono compiuti.
La steppa agraria è spesso un ambiente oramai quasi morto, anche se potrebbe sembrare il contrario. In fondo vediamo colline all'infinito che diventano verdi in primavera, e che sono colme di prodotti che servono al nostro sostentamento.
Ma per ottenere tutto questo - a differenza di un tempo - si impiegano prodotti chimici, fertilizzanti, strumenti meccanici che alterano la struttura del suolo, inquinano le falde, non lasciano spazio alle piante e agli animali selvatici.
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Il termine "steppa", in effetti, va preso anche in senso ironico. La vera steppa, ad esempio quella artica, è infatti un ambiente naturale in cui vivono organismi adattati alle condizioni estreme che vi si incontrano, mentre nella steppa agraria lo scopo è quello di permettere la sopravvivenza a un solo tipo organismo: le piante scelte dall'uomo per la propria alimentazione.
Così spesso nel verde dei campi di grano è impossibile vedere anche solo un papavero, figuriamoci insetti come le farfalle. Le stesse api sono oramai in pericolo, nonostante la loro utilità per l'uomo.
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Dunque questo paesaggio così romantico, ordinato, affascinante spesso nascondo un'anima di morte, e risulta insostenibile nei tempi lunghi. Il terreno si impoverisce, ma nel mondo la produzione di fertilizzanti azotati è in crisi per il sovrasfruttamento. E la crisi idrica di quest'estate ci ricorda che l'acqua è un bene che può scarseggiare e in questa agricoltura industriale di acqua ce ne vuole molta, moltissima. Anche perché sono state introdotte coltivazioni - come il kiwi o il mais - che ne richiedono quantità importanti.
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L'agricoltura tradizionale, in Europa come nel resto del mondo, è concepita per adattarsi alle condizioni dei suoli e del clima. In tal modo è molto resiliente, e nei millenni è sopravvissuta a innumerevoli crisi, semplicemente adattandosi.
Ma l'agricoltura industriale si basa sul principio opposto: pretende che sia il territorio e l'ambiente ad adattarsi alle sue esigenze. Così si coltivano aree desertiche (come negli USA, dove il fiume Colorado non riesce a far arrivare in mare la sua acqua, tutta prelevata e portata altrove) o si eliminano boschi e siepi che intralciano i lavori meccanizzati e che invece costituiscono una preziosa riserva di biodiversità. 
L'agricoltura industriale non tiene conte delle stagioni, e nemmeno delle esigenze delle piante - già modificate nel corso del tempo, oggi sempre più spesso a livello genetico - ma vuole ottenere nel minor tempo possibile un prodotto abbondante, anche se a volte di scarsa qualità.
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In tal modo l'agricoltura - a cui dobbiamo la nostra sopravvivenza, non dimentichiamolo mai - da fondamentale risorsa si trasforma troppo spesso in serio problema ambientale. Nel mio progetto fotografico ho cercato di trovare tracce "simboliche" piuttosto che immagini in grado di mostrare i gravi disastri che può certo provocare.
Se aguzziamo gli occhi, basta una passeggiata in qualsiasi campagna per capire dove stia il problema. E magari immaginare la soluzione, che non deve ricadere sui singoli coltivatori - loro stessi vittime del "sistema" - ma essere affrontato a livello di sistema.
​Non sarà facile, dati gli interessi in gioco. Ma se la prospettiva deve allungarsi oltre il contingente, temo non avremo poi molta scelta...

Se vuoi sostenere il mio progetto preacquistando una copia del libro, puoi andare nell'apposita pagina di questo sito. Grazie!
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