Alla maggior parte delle persone - e dei fotografi - il nome di Simon Marsden dirà poco. In effetti, il fotografo britannico è noto soprattutto in patria e in alcune realtà diciamo "collaterali" alla fotografia, ma più legate al mondo dell'esoterico. Perché Marsden è stato il fotografo dei fantasmi, delle "presenze", del mistero. Non riprendeva i luoghi come essi appaiono alla vista, ma li trasformava in qualcos'altro, attraverso un uso accorto dell'Infrarosso e delle tecniche di stampa. La gran parte dei fotografi che abbiamo esaminato sin qui sul blog, ha sfruttato i luoghi e i paesaggi per creare narrazioni legate alla realtà, in una sorta di "giornalismo paesaggistico" che è davvero lontano dall'ispirazione di Marsden. O forse no? A pensarci bene, anche nelle foto di Marsden c'è la narrazione dei luoghi, di determinati luoghi, visti attraverso la propria personale sensibilità e il fatto che la "narrazione" non sia legata fortemente al contingente, al quotidiano o addirittura alla cronaca, non significa che non sia comunque in qualche modo "vera". Secondo la scuola di estetica filosofica denominata "atmosferica", i luoghi (e i paesaggi) possiedono appunto un'atmosfera, un qualcosa che spinge l'animo umano a reagire in modi che travalicano la cultura del singolo ma diventano "universali". Insomma, se ci sono nuvole grigie e piove, troviamo che questa situazione esprima "tristezza" o "malinconia", a prescindere dal fatto che in quel momento siamo felici e contenti, o che apprezziamo o meno la situazione. Il concetto di tristezza "appartiene" a quella condizione atmosferica (ovviamente sto banalizzando). Ecco, i luoghi che Marsden fotografa sono, per loro natura, misteriosi e affascinanti, esprimono l'idea dell'abbandono, della presenza di entità misteriose, della magia. Sono luoghi che sollecitano la nostra immaginazione, che attivano la nostra fantasia: castelli solitari e diruti, chiese abbandonate, abitazioni nobili in decadenza, ruderi sommersi di vegetazione. Romanticismo a piene mani. Marsden non fa altro che lasciarsi coinvolgere pienamente, esaltando nelle proprie foto queste caratteristiche, grazie all'utilizzo di una pellicola mitica, e purtroppo non più prodotta dal 2007, la Kodak HIE (High Speed Infrared). Non essendo dotata di uno strato anti-halo, la HIE produce un evidente diffusione delle alte luci, oltre ai tradizionali effetti dell'Infrarosso, come l'effetto Wood (il biancore della vegetazione). Marsden utilizzava non un normale filtro IR, ma un filtro rosso scuro (Wratten #25) in modo da mantenere una certa dose di luce visibile e aumentare la profondità delle sue foto. Inoltre era un maestro della stampa analogica e con accorte mascherature otteneva le stampe per cui divenne famoso. Viaggiava in giro per il mondo, scattando fotografie che rivelavano il lato nascosto di realtà tra loro molto diverse: la Francia, l'Irlanda, l'Italia (con foto intriganti di Venezia o nei Giardini rinascimentali), la Russia, gli USA... Anche luoghi ben noti e fotografati apparivano trasmutati dalla fotocamera magica (una Nikon F2) di Marsden. Attraverso numerosi libri e un ben nutrito archivio, il fotografo britannico ha nutrito la nostra fantasia, lasciandoci sognare di mondi alternativi, paralleli e misteriosi. Esattamente come a tanti scrittori di Fantascienza o Mistero, anche a lui non venne mai perdonato questo allontanarsi dalla realtà e dal quotidiano: considerato da molti solo un manipolatore, un fotografo "kitsch", commerciale e barocco, non privo di una certa "puzza sotto al naso" per il suo essere di origini nobili, è stato spesso ignorato. Per fortuna, però, ha avuto anche tanti ammiratori, tra cui il sottoscritto. Personalmente ho scoperto Marsden leggendo un articolo su una rivista britannica a cui ero abbonato, era il 2006 o giù di lì. Feci immediatamente delle ricerche, perché il suo modo di riprendere i luoghi mi affascinava e stimolava la mia fantasia. Da allora son sempre stato un avido praticante della fotografia all'Infrarosso che per me rappresenta un altro modo di guardare alla realtà, e non già un suo "tradimento"...
Per tutte le foto: Copyright Simon Marsden
2 Commenti
e c'è una cosa che la fotografia sembrerebbe non poter raccontare (e ancor più la fotografia di paesaggio) è il Sacro, il concetto di divinità, di una presenza spirituale. Quello, insomma, che invece per secoli ha fatto - o cercato di fare - la pittura (e in parte la scultura), detta appunto "sacra". Pensiamo solo alle pale d'altare medievale, ai cicli di affreschi delle chiese o della Cappella Sistina, pensiamo alle icone russe che sono acheropitiche, "non dipinte da mano dell'uomo", ma direttamente da Dio attraverso la mano dell'artista. nsomma, sembrerebbe davvero che il pittore possa dialogare col sacro e lo spirituale, mentre il fotografo - vincolato dalla natura indicale del mezzo, che lo obbliga a riprendere qualcosa che sia visibile, lì davanti a lui - sia privato di questa possibilità. Eppure nel corso di questi quasi due secoli di storia, la fotografia ha provato a connettersi ai mondi invisibili, alle realtà fuori dalla portata dei nostri sensi, al divino in primis. Con successi alterni, bisogna dire. Si inizia con la "Spirit Photography" di Mumler e epigoni vari e si arriva alle ricerche sulle religioni e la spiritualità di fotografi come Abbas, Monica Bulaj, o Kazuyoshi Nomachi, anche lui giapponese come il fotografo di cui vorrei parlare in questo post: Kenro Izu, che col suo progetto "Sacred Places" ha portato la fotografia di paesaggio a incontrare la spiritualità nella sua espressione più pura, forte e per certi versi evidente. Infatti da sempre l'uomo, quando cerca Dio, lo fa nei luoghi, e quando lo incontra, rende quei luoghi sacri edificando un'edicola, incidendo un simbolo, anche solo sistemandolo in modo tale che sia riconoscibile. Gli antichi Romani ad esempio creavano i "lucus", i boschetti sacri, nei luoghi in cui il divino si manifestava, altri popoli scolpivano piccoli altari, scavavano le rocce per trasformarle in sacelli. L'importante era fare in modo che, chi si trovava a passare di là, riconoscesse la sacralità del luogo: ed è questa sacralità, a volte monumentale, a volte intima e quasi nascosta, che Kenro Izu ha ripreso col suo banco ottico e riportato - con cura maniacale e lentezza - sulle stampe al platino palladio di cui è un maestro indiscusso. D'altra parte solo un supporto per sua natura prezioso poteva essere adatto ad ospitare immagini così "pregnanti", intrise di una luminosità davvero d'altro tempo e altro spazio; e solo una modalità di ripresa lenta e faticosa si prestava a mettere il fotografo in grado di cogliere il noumeno dei luoghi in cui la divinità si era rivelata, o in cui una moltitudine di uomini riteneva che tale presenza fosse avvertibile. In tal modo, Izu ci permette di verificare non solo che la fotografia può essere uno strumento di ricerca spirituale, ma anche che il paesaggio può parlare, ed è di farlo in modo potente e convincente. Molti altri fotografi hanno indagato la sacralità e la fede attraverso i volti e i gesti degli uomini, attraverso gli eventi e le ricorrenze (basti pensare a Scianna e alle sue foto delle processioni in Sicilia), ma pochi hanno saputo raccontare un tema così sfuggente attraverso il paesaggio. “Spesso mi domandano perché fotografo monumenti. È ciò che più si avvicina a qualcosa capace di durare in eterno. Ma se si guarda bene c’è una sottile linea di confine tra la pietra e la sabbia circostante. Nemmeno la pietra è eterna, come ci insegna il buddismo tutto è transitorio. La nostra vita, quella di un fiore, perfino quella di un albero o di una pietra non sono altro che un momento nell’eternità”, afferma il fotografo. Il monumento - inteso anche come luogo, contesto - diventa l'iconema (come sosteneva Eugenio Turri) di un luogo, ma anche di un destino del luogo stesso, che sembra staccarsi dal contesto circostante ed elevarsi a simbolo.
La fede degli uomini fa questo e a volte molto altro (anche di terribile), ma di certo offre a Izu la possibilità di creare un progetto potente, anche commovente, di certo in grado di non farsi dimenticare... |
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AutoreSono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). ArchiviCategorie
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