e c'è una cosa che la fotografia sembrerebbe non poter raccontare (e ancor più la fotografia di paesaggio) è il Sacro, il concetto di divinità, di una presenza spirituale. Quello, insomma, che invece per secoli ha fatto - o cercato di fare - la pittura (e in parte la scultura), detta appunto "sacra". Pensiamo solo alle pale d'altare medievale, ai cicli di affreschi delle chiese o della Cappella Sistina, pensiamo alle icone russe che sono acheropitiche, "non dipinte da mano dell'uomo", ma direttamente da Dio attraverso la mano dell'artista. nsomma, sembrerebbe davvero che il pittore possa dialogare col sacro e lo spirituale, mentre il fotografo - vincolato dalla natura indicale del mezzo, che lo obbliga a riprendere qualcosa che sia visibile, lì davanti a lui - sia privato di questa possibilità. Eppure nel corso di questi quasi due secoli di storia, la fotografia ha provato a connettersi ai mondi invisibili, alle realtà fuori dalla portata dei nostri sensi, al divino in primis. Con successi alterni, bisogna dire. Si inizia con la "Spirit Photography" di Mumler e epigoni vari e si arriva alle ricerche sulle religioni e la spiritualità di fotografi come Abbas, Monica Bulaj, o Kazuyoshi Nomachi, anche lui giapponese come il fotografo di cui vorrei parlare in questo post: Kenro Izu, che col suo progetto "Sacred Places" ha portato la fotografia di paesaggio a incontrare la spiritualità nella sua espressione più pura, forte e per certi versi evidente. Infatti da sempre l'uomo, quando cerca Dio, lo fa nei luoghi, e quando lo incontra, rende quei luoghi sacri edificando un'edicola, incidendo un simbolo, anche solo sistemandolo in modo tale che sia riconoscibile. Gli antichi Romani ad esempio creavano i "lucus", i boschetti sacri, nei luoghi in cui il divino si manifestava, altri popoli scolpivano piccoli altari, scavavano le rocce per trasformarle in sacelli. L'importante era fare in modo che, chi si trovava a passare di là, riconoscesse la sacralità del luogo: ed è questa sacralità, a volte monumentale, a volte intima e quasi nascosta, che Kenro Izu ha ripreso col suo banco ottico e riportato - con cura maniacale e lentezza - sulle stampe al platino palladio di cui è un maestro indiscusso. D'altra parte solo un supporto per sua natura prezioso poteva essere adatto ad ospitare immagini così "pregnanti", intrise di una luminosità davvero d'altro tempo e altro spazio; e solo una modalità di ripresa lenta e faticosa si prestava a mettere il fotografo in grado di cogliere il noumeno dei luoghi in cui la divinità si era rivelata, o in cui una moltitudine di uomini riteneva che tale presenza fosse avvertibile. In tal modo, Izu ci permette di verificare non solo che la fotografia può essere uno strumento di ricerca spirituale, ma anche che il paesaggio può parlare, ed è di farlo in modo potente e convincente. Molti altri fotografi hanno indagato la sacralità e la fede attraverso i volti e i gesti degli uomini, attraverso gli eventi e le ricorrenze (basti pensare a Scianna e alle sue foto delle processioni in Sicilia), ma pochi hanno saputo raccontare un tema così sfuggente attraverso il paesaggio. “Spesso mi domandano perché fotografo monumenti. È ciò che più si avvicina a qualcosa capace di durare in eterno. Ma se si guarda bene c’è una sottile linea di confine tra la pietra e la sabbia circostante. Nemmeno la pietra è eterna, come ci insegna il buddismo tutto è transitorio. La nostra vita, quella di un fiore, perfino quella di un albero o di una pietra non sono altro che un momento nell’eternità”, afferma il fotografo. Il monumento - inteso anche come luogo, contesto - diventa l'iconema (come sosteneva Eugenio Turri) di un luogo, ma anche di un destino del luogo stesso, che sembra staccarsi dal contesto circostante ed elevarsi a simbolo.
La fede degli uomini fa questo e a volte molto altro (anche di terribile), ma di certo offre a Izu la possibilità di creare un progetto potente, anche commovente, di certo in grado di non farsi dimenticare...
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