Scommetto che sei davvero convinto che un luogo famoso non possa essere fotografato in modo diverso e originale. "In fondo", potresti dire, "è stato oramai ripreso in tutti i modi possibili, cos'altro potremmo mai inventarci?". Questa considerazione, invero piuttosto comune, nasce dall'idea che la fotografia sia meramente un fatto tecnico e non creativo. Nessuno sosterrebbe che 100 pittori non possano realizzare 100 dipinti tra loro molto diversi dello stesso luogo, variando tecnica e approccio. Ma la stessa possibilità viene spesso negata ai fotografi che - stando alla convinzione comune - sono vincolati alla riproduzione "fedele" del soggetto e dunque non possono variare molto la ripresa. I progetti portati avanti dal duo di fotografi Mark Klett e Byron Wolfe dimostra che non è affatto così. Anzi: è praticamente impossibile rifare le foto di altri Autori, come ad esempio Muybridge, Adams o Weston che ripresero tutti un luogo famosissimo - Yosemite, negli USA - ma con approcci profondamente diversi. Klett e Wolfe hanno collocato il proprio treppiedi negli stessi punti in cui aprirono i propri quei grandi fotografi del passato e hanno fotografato gli stessi luoghi,creando poi dei fotomontaggi con le foto moderne e quelle antiche, modificate digitalmente per "aderire" perfettamente ai panorami contemporanei. Il risultato è "Yosemite in Time", un progetto (e un libro) di "fotomontaggi" che può essere letto su più livelli: da un lato racconta l'evoluzione nel tempo di un determinato paesaggio, sebbene il più delle volte si scopra che non è cambiato poi granché trattandosi di luoghi davvero "selvaggi", dall'altro è anche una ricerca sullo "sguardo" del fotografo, sull'approccio che ha rispetto a un insieme amplissimo di elementi - qual è appunto un paesaggio - scegliendo l'inquadratura e cosa inserire o lasciare fuori dalla foto. In fondo proprio Adams sosteneva che il segreto per una buona foto consista nello scegliere dove collocarsi (il "punto di vista" diciamo)! La foto sopra, del 2003, "View from the handrail at Glacier Point overlook, connecting views from Ansel Adams to Carleton Watkins" ci mostra, sullo sfondo del paesaggio moderno, una foto di Adams del 1935 (a sinistra) e una di Carleton E. Watkins del 1861 (a destra). I due fotografi del passato scelsero elementi diversi del paesaggio che avevano di fronte, e anche uno sguardo diverso: più ampio quello di Watkins, più selettivo quello di Adams. Per certi versi più significativa ancora la foto sopra, del 2002, "Four views from four times and one shoreline, Lake Tenaya". Il lago Tenaya è uno dei punto più noti e fotografati di Yosemite e qui vediamo come - stando esattamente su quella spiaggetta in cui si trovano gli autori contemporanei - lo ripresero Edweard Muybridge (noto per le sue foto sul movimento, ma anche grande fotografo di paesaggio) nel 1872, Ansel Adams nel 1942 e Edward Weston nel 1937. Interessante notare come le due foto di Adams e Weston riprendano lo stesso dettaglio, più ampio nella foto di Weston, ancora una volta più stretto in quello di Adams: verrebbe da dire che i due, essendo amici e condividendo la stessa filosofia di ripresa, abbiano in fondo uno sguardo assai simile, avendo scelto lo stesso "scorcio". Insomma, quello che apparentemente potrebbe sembrare un "gioco" è in realtà un'operazione "semantica" in cui linguaggi differenti vengono messi a confronto direttamente sul campo, offrendoci la possibilità di effettuare un viaggio nel tempo e anche nelle capacità "narrative" di fotografi tanto diversi. Mark Klett e Byron Wolfe non hanno esplorato solo Yosemite in questo modo, con uno sguardo all'indietro e uno sul presente,ma anche il paesaggio solitario e sassoso - e fotografatissimo - del Grand Canyon, per il loro progetto "Reconstructing the View". Immagino cosa stai pensando: se fotografo un luogo conosciuto, comunque la mia foto sembrerà simile a quella di mille altri, visto oltretutto che non uso pellicole e banchi ottici e obiettivi di cento anni fa. Ma se il tuo desiderio è fare in modo che non sia così, di sicuro non lo sarà, purché tu scelga di concentrare l'attenzione sulle tue emozioni, sulle tue idee, sul modo in cui reagisci al luogo che stai ammirando e desideri fotografare. Nessuno è come te, dunque fotografare un luogo in modo personale significa giocoforza realizzare qualcosa di originale: non necessariamente qualcosa di valido, sia chiaro, ma questo è un altro discorso! Il lavoro di Klett e Wolfe, indiscutibilmente concettuale, ha però il merito di essere anche molto coinvolgente e sfido chiunque a non appassionarsi a fare i confronti tra le foto di quasi due secoli fa e quelle di oggi. La faccenda diventa ancora più intrigante quando il "gioco" viene applicato agli ambiti urbani, come fa Mark Klett per il suo progetto "After the Ruins 1906-2006" in cui ci mostra i luoghi di San Francisco dopo il sisma del 1906 e il conseguente incendio che distrusse la città (e che coinvolse anche un giovanissimo Ansel Adams che proprio per questo evento si guadagnò il suo noto "naso terremotato" come lo definiva sempre) mettendoli a confronto con gli stessi luoghi come sono oggi. L'approccio che questi fotografi hanno rispetto al paesaggio è analitico, non si limitano a guardare cos'hanno di fronte ma moltiplicano i punti di vista - e sfruttano quelli di altri autori - nel tentativo di comprendere in modo sempre più profondo e coinvolgente quelle realtà che molti, troppi fotografi (e non solo) osservano con sguardo distratto o superficiale, oppure solo attraverso il filtro della tecnica. Indubbiamente una lezione da considerare e su cui meditare, per questo ti invito a navigare a lungo nel loro sito comune e nei siti personali.
Personalmente, da appassionato del passato, e delle modalità con cui si possa "renderlo" in fotografia, sono rimasto "impigliato" a lungo nelle loro immagini. Il mio progetto "Una Momentanea Eternità", di fatto, si muove in una direzione parallela sfruttando non già le foto di fotografi del passato, quanto gli strumenti fotografici del passato stesso, oltre a tecniche "antiche". La mia è stata un'operazione di "reenactment" fotografico, la loro un'esplorazione multilivello, ma in fondo quel che conta è appunto avere un approccio, una visione, un'idea. Ti ricordo che se sei interessato a questi temi, potrebbe essere una buona idea iscriverti alla mia newsletter per non perdere mai nemmeno un post!
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Nato nel 1967 in Islanda e cresciuto tra il paese natale e la Danimarca, Olafur Eliasson è un artista poliedrico, generalmente dedito a installazioni (a volte davvero monumentali come "Riverbed") che hanno quasi sempre un riferimento preciso alla realtà in cui è cresciuto e che certamente sente come "propria": l'Islanda selvaggia ed estrema, fatta di roccia, vulcani e licheni. In effetti, sono questi i colori e le forme (aspre) che si vedono sovente nelle sue opere. Se parlo qui di un artista che non è - a rigore - un fotografo, è perché ricorre spesso alla fotografia per creare delle serie molto interessanti che ci mostrano un "utilizzo" della fotografia non solo consapevole, ma anche estremamente coinvolgente e significativo. Quando mi è capitato di vedere la serie "The Fault" del 2001(foto sopra) sono rimasto profondamente colpito. Come vedi, non è un composit di varie foto, ma una installazione di piccole stampe che vanno a creare un "photowall" più ampio: ognuna delle foto riproduce un profondo solco, una frattura della terra, creatasi a causa dell'erosione e a volte percorsa dall'acqua. Sono tutte sostanzialmente simili eppure assai diverse. C'è un elemento quasi di sacralità, in questa serie, una componente femminile e atavica della Terra, ma soprattutto non somiglia a niente di quello che normalmente i fotografi ci propongono sull'Islanda che - tra i paesaggisti soprattutto - è oramai una meta quasi "standard". Non si contano più i fotografi che hanno realizzato mostre o pubblicato libri sull'Islanda, con foto spettacolari e coloratissime (ma anche in un bel bianco e nero profondo). Spesso lavori pregevoli, sia chiaro, ma hanno il difetto di somigliarsi tutti, a volte in modo imbarazzante. Stesse "locations", stesse modalità di ripresa, stessi elementi caratteristici: aurore boreali, ghiaccio spiaggiato, cascate, cieli stellati, riprese aeree più o meno grafiche. Una ricerca online sui libri dedicati all'isola è molto istruttiva. Olafur Eliasson compie un'operazione del tutto diversa: prende un singolo elemento geologico, caratteristico e riconoscibile, e lo fotografa ovunque possa rinvenirlo. Poi organizza l'insieme in una serie dal forte sapore grafico in cui la somma è ben superiore ai singoli elementi, dimostrando che quando "hai visto tutto" la creatività può darti ancora spazio per delle ricerche che abbiano un senso. Anche la scelta del titolo non è casuale: "The Fault" in inglese vuol dire sia "la colpa" ma anche "l'errore", il "difetto", il "guasto", quasi che quelle spaccature fossero una manchevolezza della Natura, il segno che non tutto - in quel grandioso paesaggio - è perfetto, che compito dell'artista è individuare "quel che non va". Il "metodo" fotografico di Eliasson è proprio questo: identificare un elemento che sia caratterizzante e ricercarlo in modo ossessivo, quasi a indicare che la serialità con cui la natura crea i propri caratteri sia anche qualcosa di identificativo, di identitario. Lo vediamo in maniera tipica nel lavoro del 1996 intitolato "The Waterfall series" (foto sopra). Le singole foto delle cascate non hanno una caratteristica particolare, ma 50 stampe messe tutte assieme in questo modo diventano una sorta di mosaico, con tutti i colori dell'Islanda e tutte le forme che una cascata può prendere a quelle latitudini a rappresentare - se vogliamo - un "luogo comune", nel vero senso del termine. Molto più recente la serie dedicata alle sorgenti calde, del 2012, in cui vediamo replicata 48 volte un'altra caratteristica tipica dell'Islanda, le "hot springs", appunto. La cosa interessante è proprio che i singoli elementi perdono decisamente importanza rispetto all'insieme: noi percepiamo l'opera non già come un insieme di fotografie, ma come un unicum, come un gioco di cromatismi e forme potente proprio perché multiforme, com'è sempre la natura, d'altra parte. Dal 1999 al 2019 Olafur Eliasson ha poi curato un progetto intitolato "The Glacier Melt series" che, come dice il titolo, mostra i ghiacciai islandesi nel loro costante ritirarsi a causa dei mutamenti climatici. Stavolta le foto sono a coppie, il prima e il dopo, per far percepire in modo netto e chiaro l'impatto che l'uomo ha sull'ambiente e sul pianeta. Oltre che in un "photowall", le foto sono anche disposte in una lunga fila di coppie, che creano spaesamento e angoscia nello spettatore. Altri fotografi hanno ideato progetti simili, tuttavia la modalità dell'artista islandese si presta in modo particolare a narrare questa situazione, proprio perché i suoi progetti nascono come "installazioni" composte di fotografie e non come reportage che solo ex post vengono organizzati in una mostra. Credo che questa sia una lezione preziosa da apprendere: possiamo dire che in questi esempi la mostra nasca prima dell'opera, mentre in genere è il contrario. Le scelte fatte all'inizio permettono a Eliasson di creare un insieme non semplicemente armonico, ben composto ed efficace, come in genere si fa con un accorto editing, ma qualcosa di vivo, di autonomo, di forte, in cui percepiamo il senso del movimento, del tempo, del divenire e non soltanto l'aspetto esteriore delle cose.
Per tutte le foto: Copyright Olafur Eliasson Joel Meyerowitz (New York, 1938) è forse uno dei fotografi più noti e amati della scena internazionale, nonostante sia attivo da almeno sessant'anni. Risalgono infatti agli anni '60 i suoi primi esperimenti col colore, che adottò definitivamente nel 1972, in un'epoca ancora dominata dal bianco e nero: sin da allora, l'approccio di Meyerowitz si caratterizza per un'attenzione profonda e sensibile alla luce, specialmente quella che invade le strade della sua città, e che crea ombre profonde e alteluci dorate, che riprende in numerose fotografie che lo hanno consacrato come un maestro della "street photography" sebbene questa definizione non renda giustizia al suo multiforme talento. E' vero che si inserisce nella "scuola" creata da Robert Frank, Garry Winogrand, Lee Friedlander e altri maestri americani della fotografia "colta al volo", ma è anche vero che ha anche utilizzato il banco ottico di grande formato per riprendere i luoghi e le persone, sfruttando dunque una tecnica lenta e meditata, ben distante dall'approccio che richiede la "street". Ad ogni modo quando si pensa a Joel Meyerowitz di rado di pensa a un fotografo "paesaggista" in senso classico, e dando un'occhiata alla pagina di Google "Immagini" che viene proposta cercando il nome del fotografo, di paesaggi se ne vedono davvero pochi, a parte qualche rara eccezione tratta da progetti come quello su Saint Louis e ovviamente quelli delle torri gemelle crollate a New York dopo l'attacco dell'11 settembre 2001. In fondo questa è la "condanna" che tocca a coloro che diventano famosi per determinate foto: si finisce per pensare che facciano solo quello. Un po' come certi attori che restano tutta la vita legati controvoglia a un personaggio interpretato in gioventù. Viene da dire che ci sono in giro appassionati che credono che Franco Fontana continui ancora oggi a fare i suoi colorati paesaggi tra Puglia e Basilicata, anche se da decenni si dedica ad altro. E di esempi del genere ce ne sono molti. Fatto sta che oltre a 16 libri, progetti commerciali, lavori per riviste, mostre e film, Meyerowitz ha anche realizzato un progetto di "paesaggio puro", un vero e proprio studio della luce, intitolato Bay/Sky che consiste in una serie di fotografie riprese sempre nello stesso posto (Cape Cod, in Massachussets, sull'Oceano Atlantico) in diverse stagioni e ore del giorno. Nel 1993 il lavoro è diventato anche un libro, ancora rinvenibile online sebbene a costi elevati. !Il progetto era stato anticipato da una serie di fotografie divenute un libro fondamentale per gli amanti della fotografia a colori, "Cape Light", pubblicato nel 1978 e ripubblicato nel 2002 e ufficialmente ancora in vendita, ad esempio su Amazon. Mentre in questo caso le fotografie, che si possono vedere sul sito del fotografo, comprendono anche scene di spiaggia, persone intente ad attività balneari, architetture e così via, il progetto Bay/Sky "asciuga" il soggetto e lo trasforma in pura luce e colore. La cosa interessante è che Cape Cod è un luogo per le vacanze, del tutto privo di quegli aspetti "spettacolari" che tanto fanno impazzire i fotografi di paesaggio di oggi. In realtà somiglia più alla Versilia che alla costa selvaggia della Sardegna, per rimanere in Italia. Eppure la capacità (e sensibilità) del fotografo ne traggono ben due libri! E se "Cape Light" è un classico apprezzato soprattutto per l'uso del colore in fotografie che ricordano molta "street" dell'epoca, sebbene "in trasferta", Bay/Sky stupisce e meraviglia per l'assoluta essenzialità e semplicità dell'approccio. Apparentemente in quelle foto "non c'è nulla", solo un pezzetto di mare, di spiaggia e tanto cielo. Ma che cielo, e che luce! Per Meyerowitz Cape Cod "è uno sputo di sabbia... di colore chiaro... dove c'è sempre un'umida foschia che risale dalla superficie dell'acqua", e rimanendo su questo lembo sabbioso il fotografo riprende il variare della luce: "oggi la luce è cristallina, ma un altro giorno sarà oscura e densa, un altro giorno ancora ricorderà il petalo di un fiore, un altro l'interno di una conchiglia. Alcuni giorni pare metallo: d'acciaio, di piombo, argento, oro. Strano come le idee della densità e della durezza siano utilizzate per descrivere qualcosa di così fluido e translucido".
Credo sia la dimostrazione più efficace, forte e convincente di quanto sia davvero il fotografo - e la sua sensibilità e capacità di percepire pienamente le variazioni di quel che accade intorno - a fare la differenza, in qualsiasi genere fotografico, ma nel paesaggio in modo particolare. Ricercare ostinatamente un luogo "spettacolare" da riprendere sposta l'attenzione dalle sensazioni, emozioni e idee dell'operatore alla bellezza del luogo, che può certo avere un ruolo, ma resta il fatto indiscutibile che se la fotocamera è gestita da una mente sopraffina e da un occhio sensibile, non c'è davvero soggetto al mondo che non possa fornire fotografie straordinarie, come quelle che illustrano questo post. Nel progetto ci sono foto in cui la luce gloriosa di un'alba o quella potente e angosciante di un temporale in arrivo appare spettacolare, ma ci sono anche foto in cui la luce è piatta, priva di elementi che risaltino in modo particolare. Eppure, in ognuna, si coglie la meraviglia di quel fenomeno incredibile che ci tiene tutti in vita, quell'ambiente che inquiniamo e sfruttiamo senza renderci conto di quanto sia delicato: l'atmosfera del pianeta Terra. Copyright di tutte le foto Joel Meyerowitz e c'è una cosa che la fotografia sembrerebbe non poter raccontare (e ancor più la fotografia di paesaggio) è il Sacro, il concetto di divinità, di una presenza spirituale. Quello, insomma, che invece per secoli ha fatto - o cercato di fare - la pittura (e in parte la scultura), detta appunto "sacra". Pensiamo solo alle pale d'altare medievale, ai cicli di affreschi delle chiese o della Cappella Sistina, pensiamo alle icone russe che sono acheropitiche, "non dipinte da mano dell'uomo", ma direttamente da Dio attraverso la mano dell'artista. nsomma, sembrerebbe davvero che il pittore possa dialogare col sacro e lo spirituale, mentre il fotografo - vincolato dalla natura indicale del mezzo, che lo obbliga a riprendere qualcosa che sia visibile, lì davanti a lui - sia privato di questa possibilità. Eppure nel corso di questi quasi due secoli di storia, la fotografia ha provato a connettersi ai mondi invisibili, alle realtà fuori dalla portata dei nostri sensi, al divino in primis. Con successi alterni, bisogna dire. Si inizia con la "Spirit Photography" di Mumler e epigoni vari e si arriva alle ricerche sulle religioni e la spiritualità di fotografi come Abbas, Monica Bulaj, o Kazuyoshi Nomachi, anche lui giapponese come il fotografo di cui vorrei parlare in questo post: Kenro Izu, che col suo progetto "Sacred Places" ha portato la fotografia di paesaggio a incontrare la spiritualità nella sua espressione più pura, forte e per certi versi evidente. Infatti da sempre l'uomo, quando cerca Dio, lo fa nei luoghi, e quando lo incontra, rende quei luoghi sacri edificando un'edicola, incidendo un simbolo, anche solo sistemandolo in modo tale che sia riconoscibile. Gli antichi Romani ad esempio creavano i "lucus", i boschetti sacri, nei luoghi in cui il divino si manifestava, altri popoli scolpivano piccoli altari, scavavano le rocce per trasformarle in sacelli. L'importante era fare in modo che, chi si trovava a passare di là, riconoscesse la sacralità del luogo: ed è questa sacralità, a volte monumentale, a volte intima e quasi nascosta, che Kenro Izu ha ripreso col suo banco ottico e riportato - con cura maniacale e lentezza - sulle stampe al platino palladio di cui è un maestro indiscusso. D'altra parte solo un supporto per sua natura prezioso poteva essere adatto ad ospitare immagini così "pregnanti", intrise di una luminosità davvero d'altro tempo e altro spazio; e solo una modalità di ripresa lenta e faticosa si prestava a mettere il fotografo in grado di cogliere il noumeno dei luoghi in cui la divinità si era rivelata, o in cui una moltitudine di uomini riteneva che tale presenza fosse avvertibile. In tal modo, Izu ci permette di verificare non solo che la fotografia può essere uno strumento di ricerca spirituale, ma anche che il paesaggio può parlare, ed è di farlo in modo potente e convincente. Molti altri fotografi hanno indagato la sacralità e la fede attraverso i volti e i gesti degli uomini, attraverso gli eventi e le ricorrenze (basti pensare a Scianna e alle sue foto delle processioni in Sicilia), ma pochi hanno saputo raccontare un tema così sfuggente attraverso il paesaggio. “Spesso mi domandano perché fotografo monumenti. È ciò che più si avvicina a qualcosa capace di durare in eterno. Ma se si guarda bene c’è una sottile linea di confine tra la pietra e la sabbia circostante. Nemmeno la pietra è eterna, come ci insegna il buddismo tutto è transitorio. La nostra vita, quella di un fiore, perfino quella di un albero o di una pietra non sono altro che un momento nell’eternità”, afferma il fotografo. Il monumento - inteso anche come luogo, contesto - diventa l'iconema (come sosteneva Eugenio Turri) di un luogo, ma anche di un destino del luogo stesso, che sembra staccarsi dal contesto circostante ed elevarsi a simbolo.
La fede degli uomini fa questo e a volte molto altro (anche di terribile), ma di certo offre a Izu la possibilità di creare un progetto potente, anche commovente, di certo in grado di non farsi dimenticare... |
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AutoreSono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). ArchiviCategorie
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