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La guerra dei fotografi

5/3/2022

4 Commenti

 
In questi tristi giorni di guerra in Europa (sottolineo "in Europa", perché nel resto del mondo le guerre non sono mai cessate), viene spesso evocato lo spettro delle colpe di noi Occidentali. Insomma: gli "americani" e i loro alleati (spesso noi italiani compresi) hanno invaso l'Afghanistan, l'Iraq, bombardato la Serbia. E non parliamo della guerra di Corea o di quella del Vietnam! In fondo che differenza c'è? Non è ogni guerra ingiusta e ogni potenza per sua natura imperialista?

​Riconosco che in questo ragionamento c'è del vero, ma come fotografo credo che la differenza la facciano proprio i fotografi. Di guerra, s'intende.
Foto
Quando si parla di questo genere di reporter, il primo nome che viene in mente, giustamente, è quello del più bravo di tutti (nemmeno a provarci a discutere di questo), cioè Don McCullin. Nella foto sopra, scattata in Vietnam, vediamo due soldati americani che soccorrono un commilitone ferito: la foto è "sporca" eppure di rara efficacia. Non c'è nulla di eroico, solo la sofferenza, perché questo è la guerra: morte e dolore, nient'altro.

McCullin non è "avventuroso" e spaccone come Robert "Bob" Capa (cioè Endre Ernő Friedmann), eppure è sempre in prima linea nelle guerre che si succedono nel mondo. Dichiarerà sempre di odiare la guerra e di fotografarla proprio per questo. Certo non è stato l'unico, anzi sono parecchi ad aver accettato di mettere a rischio la propria vita per mostrare agli altri cosa davvero sia la guerra, spesso combattendo la censura e la propaganda.
Foto
La foto qui sopra, ad esempio, è di David Douglas Duncan ("DDD" per gli amici) e ci fa entrare nel vivo dell'azione: notare le divise dei due soldati, bagnate sino all'altezza delle ascelle: si scivola nel fango e nell'acqua, la guerra è sangue e merda anche per questo. E fa vittime innocenti - sempre - come, per venire a tempi più recenti, in Afghanistan dove l'invasione americana voleva essere "pulita" e con meno vittime possibili: un ossimoro, sbugiardato da fotografi come Giles Duley.
Foto
Duley reca sul suo corpo gli effetti della guerra, avendo perso un braccio e una gamba saltando su una mina durante un reportage in Afghanistan, quasi come il bambino ferito che ha fotografato. Eppure continua a raccontare l'orrore di cui lui stesso è oramai immagine vivente.

Tutto questo ha impedito che nuove guerre scoppiassero? No. Ma ha permesso a chi voleva farsi un'idea realistica di quanto accadeva di avere delle testimonianze professionali, ben fatte, nei limiti libere e oggettive. Ma delle guerre russe, della Cecenia e ora dell'Ucraina (come a suo tempo dell'invasione russa dell'Afghanistan o peggio dell'intervento in Yemen del 1967) cosa sappiamo davvero? Non ci sono reporter liberi che possano fare una seria documentazione, nemmeno "embedded" nelle truppe di invasione. Al più ci sono foto di propaganda realizzate ad hoc.

​Ma è in generale tutta l'informazione bellica che è profondamente cambiata e la colpa è, almeno in parte, proprio dei fotografi.
Foto
Chi non ricorda la foto di Nick Ut scattata in Vietnam a una giovanissima Kim Phùk? La si vede correre e piangere dopo essere rimasta gravemente ustionata durante un bombardamento sudvietnamita con il napalm (aereo e napalm forniti dagli USA, s'intende). La foto fece vincere al fotografo il premio Pulitzer, ma soprattutto, insieme alle tante immagini che giungevano dal fronte, fece cambiare atteggiamento all'opinione pubblica americana, scatenando le proteste di massa e di fatto incidendo sul ritiro americano dalla guerra.
​
Un "errore" che i vertici militari cercarono di evitare per il futuro, riuscendoci solo in parte perché alla fine nei paesi occidentali - pur con tutte le loro ipocrisie - vige la libertà di stampa. E i fotografi anche se inseriti all'interno delle truppe del proprio paese, riuscirono (in parte riescono ancora) sempre a fare il proprio lavoro.
​
In Unione Sovietica prima e in Russia poi questo meccanismo non è mai esistito, mancando una stampa davvero libera. E non è l'unico paese al mondo con un simile problema lo sappiamo. Oramai, però, questo va detto, le notizie dal fronte non sono più affidate a seri professionisti, ma sempre più spesso a una masnada di "citizen reporters", di gente armata di smartphone che riprende più o meno casualmente quel che accade.
Foto
Ovviamente ci sono ancora fotografi con la scritta "press" sulle spalle che documentano la situazione (la foto sopra ad esempio è dell'agenzia EPA), ma è cambiato il loro ruolo,  spesso si limitano a scattare immagini "di quel che succede" non a realizzare dei reportage che in qualche modo cerchino di interpretare la realtà, di andare oltre quel che si vede.

Non dubito che nella prossima edizione del World Press Photo ci sarà qualche foto vincitrice scattata in Ucraina, ma ovviamente qui parlo del "mainstream" e soprattutto del ruolo che oramai ha l'informazione in Occidente: un flusso continuo, inarrestabile, traboccante di notizie e immagini, video professionali o amatoriali, testimonianze confuse e alla rinfusa. Un caos nient'affatto calmo.

A cui si aggiunge il problema di sempre, cioè il fatto che riceviamo tutto questo sempre e solo (o quasi) da una parte, quella ucraina, esattamente come un tempo non avevamo foto e reportage dai nordvietnamiti o dai Talebani. Però almeno, un tempo, avevamo fotografi in grado di allargare lo sguardo ed evitare la mera propaganda. Oggi non più, perché i canali di diffusione di un certo tipo di immagini sono oramai prosciugati. E Internet non potrà mai sostituire un giornale strutturato e "pensato" come, che so, "L'Espresso" di una volta.

E concludo, a proposito, esprimendo la mia solidarietà a Marco Damilano - che si è dimesso dalla direzione del magazine - e ovviamente a tutta la redazione de "L'Espresso". La motivazione della crisi è proprio il fatto che un giornale come questo, se non dotato di mezzi e giusto coraggio, non può svolgere la sua funzione. Perché un giornale non è solo un'impresa economica...
4 Commenti
Aldo Di Vita link
6/3/2022 13:55:05

In guerra ci sono solo sconfitti nessuno e vincitore. Il lavoro del foto reporter e di vitale importanza per risvegliare le coscienze di una umanità indifferente

Risposta
Marco Scataglini
6/3/2022 15:19:50

Indubbiamente! Grazie per il commento

Risposta
Mauro Toccaceli
8/3/2022 11:08:29

Ciao Marco, d'accordo su tutto. Fra i grandi (secondo me) fotografi di guerra aggiungerei il ritrattista John Florea (anche se è ricordato più come fotografo delle dive di Hollywood) e Eddie Adams, autore della famosissima foto che coglie l'attimo terribile dell'esecuzione del prigioniero Vietcong a Saigon nel 1968 e che gli valse il Pulitzer per la fotografia.

Risposta
Marco Scataglini
8/3/2022 17:51:20

Certo Mauro, ovviamente non era un excursus su tutta la fotografia di guerra, ho solo preso alcuni esempi. Di certo Florea è un grande, Eddie Adams - come in effetti lo stesso Nick Ut - magari ha più che altro avuto l'occasione giusta (anche se terribile), in fondo mi ricorda più Joe Rosenthal con la sua foto della bandiera a Iwo Jima (anche lui prese il pulitzer), insomma sicuramente grandi professionisti, ma meno "maestri", ecco. Grazie per il commento!

Risposta



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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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