La fotografia di paesaggio inganna, e anche tanto. Vediamo immagini in cui sembra di ammirare luoghi selvaggi, solitari, intatti - e a volte sono davvero luoghi del genere - per poi scoprire che la foto è fatta da un belvedere in ci si parcheggia comodamente e ci sono piattaforme predisposte appositamente per i fotografi. Penso a tanti luoghi dell'Islanda, ad esempio, o anche del Sud America. Oramai tutto è addomesticato, trasformato in fondale utile per gli scatti dei danarosi fotografi occidentali pronti a pagare profumatamente pur di riprendere "quella foto" nello stile di Ansel Adams. E disposti anche ad attendere ore che i cento fotografi arrivati prima finiscano di riprendere il "grandioso paesaggio" e mollare il posto in prima fila. Diciamocelo: l'errore è tutto nella prospettiva - chiamiamola così - con cui guardiamo ai luoghi, che poi dipende direttamente dalla nostra competenza e dalla nostra cultura. Ne abbiamo esempi anche vicino a noi, magari dietro casa. Infatti, il tipico paesaggio italiano quale potrebbe essere? E' vero, abbiamo alte montagne, scogliere, cascate, ma in effetti quando si pensa al "Bel Paese" il "quadro" che ci viene in mente è più o meno come quelli ripresi dai pittori Romantici: colline, campi coltivati, cipressi e pini, qualche rudere. Dunque è la campagna la nostra "frontiera" visiva. Già i Romani, in fondo, amavano il "locus amenus" (la campagna, bella e piacevole). Così abbiamo anche noi i nostri "cliché" e leggendo le riviste di fotografie pubblicate ad esempio negli USA o in Gran Bretagna, spesso si vedono le pubblicità di viaggi organizzati nel "Chiantishire", tra le colline del Senese. E sempre vi compare l'immagine di un colle emergente tra le nebbie con, in cima, un casolare circondato da cipressi. Il corrispettivo visivo di "pizza e mandolino". Ovviamente la realtà è invece che i campi coltivati in modo intensivo sono il più delle volte non già simili ai romantici luoghi idilliaci e sereni, ma dei veri e propri deserti biologici. "Steppa agricola" viene definita scientificamente, ma questo quando - oramai è raro - si utilizzano sistemi di coltivazione non chimicizzati e dunque accanto al grano crescono anche le piante della "flora messicola", invece praticamente scomparse su gran parte del territorio, che sempre più spesso è dapprima verde in modo omogeneo e poi, prima del raccolto, giallo in modo uniforme, senza le macchie rosse dei papaveri o viola del fiordaliso. La cosa bella (si fa per dire) è che per molte persone questi paesaggi sono "natura", solo perché sono verdi. Indubbiamente affascinanti e fotograficamente remunerativi, magari, ma di certo se sono natura è una natura morta, il più delle volte. La colpa non è certo dei coltivatori, stretti tra le logiche di mercato e le necessità di far quadrare i conti. Le industrie richiedono prodotti "perfetti", e vaglielo a spiegare alla gente che le nocciole così belle e perfette richiedono spargimenti di diserbanti e anticrittogamici in quantità assurde, che poi uccidono i corsi d'acqua e i laghi (come il Lago di Vico) o che visto il costo del grano al quintale è impossibile reggere economicamente con una resa per ettaro che escluda il ricorso a veleni sempre più potenti e mirati e che dunque lasciare spazio ai fiordalisi è una romanticheria d'altri tempi. La colpa è anche nostra, di noi consumatori (che brutta parola...), che non ci fermiamo mai a pensare a come e dove ogni merce è prodotta e su quale sia la sua "impronta ecologica". A questo - e altro - pensavo mentre qualche giorno fa mi son fermato a fare delle foto alla "steppa". Certo, è affascinante. Sarebbe ancora più bella se in primavera si riempisse di fiori per creare foto come quelle di Franco Fontana degli anni '70 (altro cliché, ma almeno ecologicamente più sostenibile), invece è perfetta, quasi brutale. Lavorata a macchina, priva di imperfezioni, sembra di plastica, sembra una moquette stesa fino a perdita d'occhio e mi sa che per questo piace tanto allo sguardo dell'uomo contemporaneo. Cosa sono tutte quelle imperfezioni dei campi tradizionali? I muretti a secco, i boschetti, le siepi? Roba d'altri tempi, inutili romanticherie. Tempo fa, in una polemica sulle pale eoliche che stanno invadendo la Tuscia (provincia di Viterbo) dove abito e dove ho fatto le foto che illustrano questo post, molti hanno definito questo territorio "l'Irlanda d'Italia", come a dire che le verdi colline che si susseguono, in effetti senza particolari scempi edilizi o altre brutture, sono come la nostra brughiera. Un paesaggio naturale da salvaguardare. Ahimé non è affatto una brughiera, di farfalle ne volano pochissime, le api stentano a svolgere il loro grato mestiere. Sono invece l'effetto di uno "progresso" altrettanto sbilanciato e poco lungimirante di quello delle pale eoliche e degli impianti fotovoltaici. Che - naturalmente - non sono un male in sé, ma giocoforza diventano il simbolo di una civiltà energivora, incapace di pensare al "poco ma buono", meno energia, meno spreco, meno veleni, più salute e bellezza.
Quante volte senti parlare, nel dibattito sui mutamenti climatici, del risparmio energetico? La logica è come continuare a sprecare energia come oggi, solo producendola con sistemi che non emettano CO2. Ecco, con l'agricoltura è la stessa cosa. Se acquistassimo prodotti di qualità, magari biologici o almeno coltivati con metodi integrati, sprecassimo meno cibo, pretendessimo cibi non industrializzati pieni di sale e di zucchero e così via, i campi tornerebbero forse a macchiarsi di viola, di rosso, di giallo, di bianco. Che festa per gli occhi sarebbe! Come ancora accade, per fortuna, nei pascoli o nelle aree dismesse, quelle che l'uomo dimentica o abbandona. Che valore ha la bellezza? Un valore immenso, che però nessuno può tradurre in ricchezza concreta, in euro o dollari. Per questo, in verità, siamo tutti più poveri.
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