Grandi porzioni del territorio italiano e mondiale possono essere definite terre spopolate: letteralmente, terre senza popolo. Nessuno più la abita, nessuno. Abitare un luogo, come scrive Franco La Cecla nel suo saggio “Perdersi”, non è stare in un luogo, non è avere il proprio domicilio in un punto preciso della mappa catastale, non è avere un indirizzo in cui ricevere la Posta e i pacchi con le merci di Amazon. Fino alla fine del XVIII secolo non esistevano i nomi delle strade e i numeri civici, figuriamoci. E’ con la modernità che ognuno ha iniziato ad avere delle precise coordinate geografiche in cui fosse sempre raggiungibile. Ma avere queste coordinate non significa davvero abitare un luogo, dicevo. Perché oggi il cittadino medio (per fortuna ci sono le eccezioni) vede il territorio circostante solo come un’opportunità, soprattutto economica. Può guardarlo riempirsi di pannelli fotovoltaici e pale eoliche senza battere ciglio, può vederne i terreni agricoli sfregiati da coltivazioni sempre più estensive e meccanizzate e credere che in fondo sia giusto così, può osservare con disincanto il diffondersi di villette e abitazioni senza stile per ogni dove, ritenendolo il necessario prezzo da pagare alla modernità e allo sviluppo. E ovviamente non si interesserà mai dei rifiuti sparsi per ogni dove, dei torrenti inquinati, dei boschi abbattuti, dei veleni sparsi nei noccioleti che si espandono a spese delle coltivazioni più tradizionali. Nemmeno noterà, forse, come l’edilizia moderna sfregi i centri abitati, i borghi medievali, gli antichi insediamenti. Una frattura insanabile è oramai giunta a separare i cuori di chi vive in questi luoghi e i luoghi stessi: per questo nessuno li abita più. Perché abitare significa essere radicati in un territorio, amarlo e rispettarlo, anche modificarlo, ovviamente, ma rispettandone la vocazione e la natura, la storia e lo spirito, eleggendolo a Heimat, patria dell’anima, non solo del corpo. Magari ci sono anziani pastori e qualche contadino ancora legato alle vecchie tradizioni che percepiscono il legame profondo con gli Avi, ma di certo tutti gli altri passano e vanno sui territori e non con leggerezza, ma col passo pesante dettato dal cosiddetto “progresso”. Vere armate Brancaleone di persone sradicate, a parole “innamorate di questa terra bellissima” (la terra dove passano è sempre bellissima, a prescindere), ma di fatto incapaci di vederla, vederla davvero. Nella migliore delle ipotesi la considerano una meta per belle passeggiate, in cui l’ennesimo “selfie” davanti al rudere antico diventa l’occasione per mostrare la meraviglia e la bellezza di un “luogo magico”. La magia è sparita da tempo, purtroppo, e personalmente l’ho cercata a lungo, con centinaia di escursioni, passeggiate, “esplorazioni” qua e là per l’Italia centrale, ora soprattutto nella Tuscia, dove abito. A volte ne ho percepito, forte, la presenza, che poi si dileguava dinanzi alle buste di plastica appese ai rami degli alberi, all’odore di tensioattivi che evapora dalle acque dei torrenti, ai rifiuti accumulati nelle necropoli, ai tagli boschivi devastanti, alle strade aperte ovunque, alle tracce delle moto da fuoristrada e al loro rumore lontano, che rimbomba nella valle insieme a quello della motosega. Per alcuni l’approccio di certi “esploratori” si chiama “turismo di prossimità”, che la recente pandemia ha reso più diffuso e invasivo. Non lo so, io ricordo anche prima questi gruppi di gitanti allegri e caciaroni – che la “simpatia” del gruppo è parte integrante del fascino di queste iniziative, come se il silenzio di una forra non fosse affascinante abbastanza – in grado di ignorare i segni del degrado e di farsi la foto di gruppo dinanzi la cascata “bellissima”, nonostante le sue acque odorino di piscio. E se pensate che parli in astratto, vi garantisco che ci sono cascate davvero bellissime per essere quasi delle fogne a cielo aperto. Francamente, gli “wow” di chi si affaccia a guardarle non riescono a coprire la tristezza di questo assassinio del “Genius Loci”. In Italia di terre disabitate ne esistono tante. Se penso alla Campagna Romana (altro luogo a cui ho dedicato tempo, impegno e lavoro) non posso che rallegrarmi di girare in luoghi certamente meno degradati e assediati. Ma La Tuscia, proprio per questo, è una ferita sanguinante, perché difficilmente la si riesce a dare come “terra perduta”, data la bellezza di tanti luoghi che ancora conserva. E perciò le ferite inferte a tale territorio fanno più male, sanguinano più violentemente. Una parte di me spera ancora che si possa assistere a un risveglio civile, che deve passare per forza attraverso un ritorno all’abitare i luoghi, a sentirsi parte integrante di un territorio, dunque in grado di non barattarlo per scampoli di (finto) progresso. Non bastano certo le pur encomiabili iniziative di comitati e associazioni che si impegnano a togliere rifiuti dai prati e dalle forre o che si battono contro l’ennesima foresta di pale eoliche a due passi dai centri abitati. Questa è come un’aspirina per togliere la febbre alta, ma che non cura la malattia che la provoca. Credo però che sarà difficile cambiare strada, e basta allargare lo sguardo per rendersene conto. Tutte le dichiarazioni sulla necessità di “fare presto” per salvare il pianeta dai mutamenti climatici, si scontrano poi con le richieste di “crescita economica”, “sviluppo”, “nuove infrastrutture”, insomma nuovo cemento, asfalto e CO2. Se non fosse tragico, sarebbe ridicolo. Si è addirittura coniato un assurdo termine ossimorico, quello di “sviluppo sostenibile”: ma non di sviluppo occorrerebbe parlare, ma di decrescita, intesa come decrescita degli sprechi, dei consumi (di merci e di territorio) e dunque anche economica. Un pianeta finito non può sostenere una crescita infinita, dunque il momento di “decrescere” arriverà per forza, possiamo solo scegliere se farlo in tempo e consapevolmente o in modo traumatico. Ma vedo che la lezione del Covid non ci sta insegnando nulla. Ora, tutta questa tirata ecologista ti avrà annoiato, e lo so. Anche perché sembra non avere alcun rapporto con la fotografia. E invece ce l’ha, almeno per me. Infatti, debbo fare una confessione: ho sempre mentito, sono uno spregiudicato falsario, uno spergiuro. Ho sempre condiviso foto che sembrano riprendere luoghi intatti e bellissimi, anche se non erano davvero così. La fotografia mente, mente sempre, e in fondo a me piace per questo. Mi piace, in particolare, “immaginare” i luoghi come se fossero belli e integri, anche se non lo sono. Per questo non mi sono mai sentito in colpa, mi sembrava un imbellettare la realtà al solo scopo di creare immagini destinate a dare un pizzico di gioia, almeno per gli occhi. Tanti, tantissimi fotografi fanno così, questo lo dico a mia discolpa. Qualche giorno fa, col mio amico Roberto ci siamo fermati a fotografare una diga medievale da cui scendono due belle cascatine, che abbiamo visto passando sulla strada. La foto è quella sotto. Bel posto, vero? Che monumento grandioso, non trovi? Ma dalla foto non puoi comprendere appieno quanto fosse sporca e inquinata l’acqua, il puzzo di fogna e tensioattivi, i rifiuti di plastica che ho rimosso, e ovviamente il rumore dei camion che passavano sulla strada lì vicino. Ecco, ora che sai tutto questo puoi guardare alla foto con gli stessi occhi disincantati e magari chiedermi “dov’è?” per andare a farci una gitarella?
Se mi chiedi se continuerò a fare foto del genere ti risponderò di sì, lo farò. La chiamo la mia “fotografia onirica”: come per il lavoro sulla Campagna Romana, voglio ancora mostrare i luoghi come sogno che siano e non come sono in realtà il più delle volte. Nella speranza che magari qualcuno rimuova gli elementi negativi e quei luoghi davvero diventino come sono rappresentati nelle fotografie. Ma ho anche deciso di realizzare un progetto fotografico che vada oltre. A volte mi costa un po’ di fatica, a volte è una rivelazione. Scopro, ad esempio, come Madre Terra sappia con gentilezza e pudore rendere alla fine se non “bello” almeno accettabile anche il peggiore dei guasti che arrechiamo al suo splendido manto, permettendo a noi fotografi di creare comunque delle foto interessanti, come ampiamente dimostrato dai “New Topographics” e da Robert Adams in particolare. Non sono foto che condividerò online. Da sole magari non sono facilmente comprensibili, specialmente dalla massa di utenti in cerca di “posti belli” dove fuggire nel fine settimana. A loro magari continuerò a proporre delle pie illusioni. Ma sono foto a cui tengo, questo si: mi permettono di non provare più sensi di colpa e forse, in parte, iniziare ad abitare questa terra – la Tuscia - così bella e fragile, sempre in bilico, perché affidata a chi non la comprende e non la rispetta davvero (se non a parole) e non viene più “vista” da coloro che la percorrono quotidianamente ma oramai sono insensibili al suo grido di dolore.
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