Sono convinto (sebbene siano in pochi a essere d'accordo con me, lo so) che i luoghi possano narrare storie più efficacemente dei volti e delle espressioni, proprio perché sanno essere eterni e grandiosi e al contempo drammatici e tristi, possono evocare sensazioni e idee, commuoverci e ferirci più di quanto sappia fare un volto. Perché il volto è e sarà sempre limitato nel tempo e nello spazio, mentre un paesaggio, per sua natura, è ampio, a volte illimitato, potenzialmente eterno come la nostra incapacità, a volte, dinanzi alle tragedie che avvengono a un passo da noi, di provare la necessaria empatia. E che il paesaggio sia quello della Campania, di Lampedusa, Nizza o Calais davvero poco importa. ll lavoro realizzato da Joel Sternfeld tra il 1993 e il 1996 è di fatto un'esplorazione dell'America, con le sue contraddizioni, che ricorda almeno in parte quella di Walker Evans, che è un po' il "padre" della fotografia "narrativa" americana e mondiale. Ma a parte questo "On this site" è un progetto che ci permette di riflettere anche sul potere - e la necessità - della didascalia, o almeno del titolo. Il progetto di Sternfeld consiste in una serie di fotografie in cui sono rappresentati luoghi più o meno anonimi, anche se a volte famosi, teatro di "eventi significativi" della storia americana: non per forza eventi storici, anzi, quasi mai di tale portata. Si tratta invece di eventi tragici, fatti di cronaca, suicidi, luoghi legati a inquinamento (ad esempio nucleare) o a ingiustizie, e così via. La cosa davvero interessante è che guardando le foto, in nessun caso potremmo intuire tutta la storia: senza didascalia, il progetto sarebbe, per così dire, "muto" e profondamente incomprensibile. E questo a prescindere dal valore delle fotografie. Il testo che accompagna la foto sopra è il seguente: "Nel 1868 il Governo Federale cedette milioni di acri di terra delle Black Hills nel South Dakota alla Nazione Sioux. Anni dopo, quando l'oro venne scoperto nella zona, il Congresso ruppe l'accordo e si riprese quelle terre. Nel 1920, lo Stato del South Dakota, nel tentativo di attirare il turismo, commissionò a uno scultore [Gutzon Borglum] di modellare enormi busti sul monte Rushmore. I Sioux considerano ancora le Black Hills come la loro terra sacra. Nel 1980 la Suprema Corte decretò un risarcimento di 17 milioni di dollari più un interesse calcolato a partire dal 1877 come compensazione. Il premio è ora valutato in 300 milioni di dollari, ma i Sioux continuano ancora a rifiutare sia i soldi che la cessione della terra". Una storia di sopraffazione, che ci racconta molto dell'atteggiamento "coloniale" tenuto dagli americani bianchi nei confronti dei popoli indigeni. La foto è particolarmente riuscita perché ci mostra un aspetto particolare di un luogo stra-fotografato. Ma questi due aspetti difficilmente avrebbero potuto incontrarsi senza la lunga e circostanziata didascalia sopra. In effetti capita di frequente che, quando il fotografo decide di riprendere dei luoghi significativi, ci siano poche possibilità di trasmettere direttamente, col solo linguaggio delle immagini, il concetto di fondo. In effetti le fotografie hanno una capacità narrativa poco efficace, se prese da sole. E' invece incredibile quanto - una volta affiancate da accorte parole - possano sbocciare e dirci un'infinità di cose, emozionarci e renderci la comprensione di eventi anche complicati se non facile, di sicuro più agevole. La domanda che resta è: si tratta di un tradimento della fotografia? Sono sincero: non so rispondere. Ma a me sembra di no. Anche un dipinto o una scultura possiamo ammirarli per come sono, ma non li comprenderemo davvero senza saperne un po' di più, senza un titolo esplicativo, senza un "didascalia", e questo vale ancor più per l'arte contemporanea. Eppure nessuno accusa Picasso di aver dipinto qualcosa di inesplicabile nel momento in cui ha concepito "Guernica", il cui tema è oggi chiaro solo grazie al titolo e alle spiegazioni dei critici d'arte. Così, sapresti dirmi cosa racconta la foto sopra? Si vede un grande albero immerso nella luce dell'alba e dietro una strada. Ci saranno milioni di località così. Eppure questa è la prima foto che Sternfeld ha realizzato per il suo progetto: si tratta di un melo a Central Park (New York) sotto cui venne rinvenuto, il 26 agosto del 1986, il corpo senza vita di Jennifer Levin. Un omicidio, dunque. Sternfeld passava di là di mattina presto e rimase colpito dalla bellezza della luce, dalla serenità della scena a contrasto con la memoria dell'evento delittuoso. Scommetto che anche tu - com'è capitato a me - ora "vedi" e percepisci queste sensazioni, ora che sai "tutto". Ma senza queste note, sarebbe davvero stato difficile arrivare a comprendere pienamente la foto, non trovi? Altro esempio. Tra gli anni '20 e gli anni '50 l'esercito americano e la Hooker Chemical Corporation scaricarono nel Love Canal, a Niagara Falls (New York), almeno 200 diverse tipologie di sostanze chimiche altamente tossiche, molte delle quali contenevano diossina, che ben conosciamo anche in Italia. Nel 1953 la Hooker ricoprì la discarica chimica e vendette il terreno, tra l'altro anche al Niagara Falls Board of Education (corrispondente a un nostro Provveditorato agli Studi) che vi costruì una scuola. L'azienda fece sottoscrivere ai compratori un contratto in cui si specificava che non sarebbe stata ritenuta responsabile per qualsiasi danno fosse accorso negli anni a seguire. Negli anni '70 si verificarono innumerevoli casi di bambini nati deformi e una quantità abnorme di tumori in tutta la zona. Alla fine lo stato di New York acquistò oltre 500 case prossima all'area inquinata e trasferì tutti i residenti in zone più sicure. Nella foto vediamo appunto una delle casette che da allora giacciono abbandonate nella "terra dei fuochi" americana. Storia davvero triste, ma guardando alla foto avresti mai potuto comprenderla? Ovviamente no. Ma se leggi le righe qui sopra e guardi alla foto, la magia avviene. Il testo e la foto dialogano, ognuno giustifica l'altro, lo motiva, lo rafforza. Naturalmente questo significa che un simile progetto va concepito avendo bene in mente il "canale" con cui verrà diffuso. Una mostra è certo meno adatta di un libro, perché difficilmente le persone leggono testi lunghi mentre visitano una galleria o un museo. Ma il libro fotografico è in tal senso assolutamente perfetto. Mi permette di guardare le foto e leggere con calma la lunga didascalia e finalmente comprenderle. Trovo che sia come una sorta di "illuminazione", qualcosa di molto "Zen" (foto del libro tratte da Internet). Ci sono ancora molti che ritengono che le foto dovrebbero parlare da sé, che scrivono S.T. (Senza Titolo) accanto alle proprie opere, che si ostinano a evitare qualsiasi didascalia, che creano libri con sole foto e testi quasi assenti.
Rispetto tutte le opinioni, e credo che solo l'Autore possa decidere, e sia dunque libero di scegliere una strada piuttosto che l'altra. Dal punto di vista dello spettatore, però, io credo che poter comprendere in modo chiaro il "messaggio" sia di certo preferibile!
1 Commento
Quando si parla di editing, specialmente di un libro, si pone una particolare enfasi su due foto: quella di apertura, che deve indurre lo spettatore a "entrare" nella serie, e quella di chiusura che - in teoria - deve lasciare un indelebile ricordo (si fa per dire) delle foto appena viste. Perciò immagina con quanta ansia un fotografo si avvicina alla scelta di queste due foto che possono determinare se non il successo, almeno la piena riuscita di un lungo lavoro! Per il mio progetto "FOTO|SINTESI" la scelta è stata particolarmente difficile, soprattutto per la foto di chiusura. Alla fine ho deciso, optando per una foto che i più - sicuramente - considereranno confusa e magari poco significativa. Un bel rischio lasciare un simile ricordo in chi avrà sfogliato tutto il libro. Il fatto è che in questo caso ha prevalso l'aspetto diciamo "intellettuale" - ma in verità sentimentale - rispetto a quello meramente iconografico. Infatti, mi piaceva troppo l'idea di chiudere il libro con una foto scattata utilizzando una foglia come "obiettivo", dunque guardando il bosco dal punto di vista dell'albero... Ovviamente parliamo di un foro stenopeico naturale, quello che qualche insetto ha creato sulle foglie cadute nel sottobosco. Ho faticato non poco a trovare la foglia giusta: a volte il foro era troppo grande, a volte troppo irregolare. Infine, ai piedi di un grande e annoso Bagolaro (Celtis australis) ho incontrato il mio "obiettivo". Un albero come questo ne ha "viste" di cose! le sue foglie debbono saper raccontare storie niente male. Avevo già predisposto il meccanismo per utilizzare la foglia "giusta", fissando a un tappo della fotocamera (una Olympus Micro4/3), opportunamente forato, un telaietto per diapositive apribile, di quelli con i vetrini. All'interno ho collocato al centro la mia foglia bucata e tutt'intorno altre foglie per evitare infiltrazioni di luce. Sorpresa: l'insieme funziona! Certo, il "pinhole" è impreciso e decisamente ampio per la lunghezza focale della piccola mirrorless, ma alla fine si ottengono immagini poco nitide ma evocative. Le foglie secche non sono del tutto impermeabili alla luce e colorano dunque l'immagine nei toni dell'ocra e di un po' di verde residuale, come si vede nella foto sopra, quella prescelta per chiudere appunto il libro.
A me sembra una foto "primordiale", in cui non conta tanto quel che si vede, quanto quel che si percepisce, quasi come la nota fotografia di Niepce, la prima ufficialmente riconosciuta, realizzata dalla finestra del suo studio. Ho davvero avuto l'impressione di guardare con gli occhi dell'albero: secondo i botanici le piante hanno una sorta di senso della "vista", sebbene ben diverso da quello degli animali. Diciamo che sanno orientarsi nello spazio inseguendo la luce - o fuggendola, come nelle specie "sciafile" o come nelle radici - e dunque questa foto suggerisce appunto una modalità visiva poco sviluppata ma legata alla luce, e alla magia di quel fenomeno da cui tutti dipendiamo per vivere, chiamato appunto fotosintesi... Trovi tutte le informazioni sul mio progetto e sul libro nell'apposita pagina di questo sito. Disse il tarlo al grande noce: dammi tempo, che ti divoro! Così recita un detto napoletano (dicette ‘o pappece in faccia ‘a noce: damme tiempo, che te spertuso!). Non c’è alcun dubbio che il tempo possa essere il più grande alleato, o il peggior nemico, del fotografo. Ne parlo nel mio libro “Fotografare cos’altro è”, da cui traggo alcune delle seguenti riflessioni. Il tempo è, dopo la luce, il principale strumento che il fotografo utilizza per realizzare le proprie opere. E a volte lo maltratta in modo anche violento. Noi fotografi maneggiamo l’istante nel tentativo di renderlo eterno. Dunque, siamo dei “rammendatori” temporali: “…la fotografia opera nel tempo e nello spazio un rammendo: un’inquadratura, sopravvenendo all’istante che cattura, impedisce al tempo di scorrere” (J.C. Bailly, “L’istante e la sua ombra”). Ricuciamo strappi, e nel farlo, ci rendiamo complici del tempo stesso, e occorre una certa cura per non rimanere coinvolti in questo flusso che tutto porta via con sé. Il libro di Bailly è una disamina interessante e profonda del rapporto che il tempo ha con le nostre vite, e di come tutto questo possa passare attraverso una fotografia, anzi una skiagrafia. Se "fotografia" significa "disegnare con la luce", il termine skiagrafia significa "disegnare con le ombre" (skia in greco significa appunto ombra). Ci hai mai pensato all'importanza delle ombre nella storia dell'arte, e nello specifico della fotografia? E' vero che senza luce non ci sarebbe ombra, ma alla fine il vero artefice di una foto è quest'ultima, che ne rappresenta l'anima stessa. Se vuoi, "l'anima oscura". Il libro prende il via dalla foto "Il covone" (The Haystack, che si vede in copertina) di Fox Talbot contenuta nel suo libro "The Pencil of Nature" (1844-46), e arriva a un'immagine per certi versi simile, eppure così drammaticamente diversa: quella di un uomo e della scala che gli era vicina "fotografati" su una parete dall'esplosione della bomba atomica di Hiroshima, che dissolse entrambi in un lampo di luce e la potenza di "10.000 Soli". Non sempre la luce è simbolo positivo. Non sempre l'ombra è negativa. 100 anni quasi esatti di storia separano le due immagini, e quella scala - strumento per elevarsi - diviene da simbolo del lavoro umano, un simbolo della follia della guerra. Il tempo non passa mai invano, ma noi non sappiamo approfittarne. Fermare l’attimo dunque significa “uccidere” il soggetto, come ha fatto la luce radioattiva con l'uomo di Hiroshima, al punto che la fotografia “istantanea”, non appena disponibile, verrà accusata di “cucire assieme nel sacco portatile dell’istante” il morto e il vivo, come scrive ancora Bailly. Ecco spiegato il motivo per cui certe immagini degli inizi della storia della fotografia ci affascinano, ed ecco perché stanno tornando di moda i tempi di scatto lunghi (da un secondo a decine di secondi), resi possibili dai filtri ND 1000 che tolgono ben 10 (oggi si arriva anche a 16) diaframmi di luminosità alla scena ripresa. Ed ecco perché c'è chi come me utilizza la fotografia stenopeica restando in paziente attesa che l'esposizione si compia nel volgere di diversi secondi, o minuti, a volte ore. Un paesaggio, soprattutto se vi è presente dell’acqua (un torrente, il mare) apparirà allora totalmente diverso da come lo vedono i nostri occhi, letteralmente trasfigurato.
E' come se volessimo - in questo modo - raccogliere più tempo, farne indigestione, catturarlo e fermarlo, per allontanare da noi la paura della fine, per scongiurare quel nichilismo che è la caratteristica saliente della nostra civiltà occidentale. Il dio Crono divora i propri figli come il tempo fa con le nostre vite - dopo che una profezia gli aveva predetto che uno di loro lo avrebbe spodestato, come in effetti fece Zeus - stando alla mitologia dei Greci. Che non poterono fare a meno di ideare però anche un altro tempo. Il tempo divino, il tempo in cui nulla trascorre, in cui nulla si consuma. Un tempo apparentemente negato agli umani. Se non, forse, nel tempo breve di una fotografia. Il kairòs è un tempo che non è vuoto, che non è a nostra disposizione ma ci viene donato: ogni istante (kairòi) è un kairòs, un momento opportuno per incontrare il tempo, l’eternità. Nel Nuovo Testamento, il kairòs indica il tempo in cui Dio agisce, che dunque non è il tempo come lo concepiamo noi umani, ma qualcosa di molto speciale: rappresenta il presente, l’eterno presente, l’unico tempo di cui davvero disponiamo ma di cui non sappiamo approfittare, perché le fauci di Crono continuano a divorarlo, fameliche. Vivere il presente significa vivere il kairòs. Non come un momento qualsiasi, ma il momento, quando un’opportunità per fare qualcosa di significativo si presenta come - appunto - scattare una fotografia. Questo post è in modalità ironica nonché acida. Lo dico prima e il perché si chiarisce più avanti. Almeno spero. Ma mi sa di no. Come si usa fare oggi nei post seri (e questo chiaramente non lo è) anticipo il senso di quanto articolerò in modo confuso qui sotto, cosicché tu possa leggere solo queste quattro righe e poi andare altrove, se vuoi. Dunque quello che vedremo tra poco è come la fotografia sia molto cambiata, resa più semplice e a prova di errore dalla tecnologia: di conseguenza chiunque, oggi, può scattare una "bella foto". Al povero fotografo "serio" non resta che affidarsi alle idee. Ma visto che la tecnologia ci sta rendendo tutti un po' pigri (per non dire altro), anche delle idee si può fare a meno: basta far finta di averle (avute), in modo da rendere potabile anche il più inguardabile guazzabuglio di immagini che ovviamente avremo denominato Portfolio 1 o meglio ancora Opus #1. Ecco, è tutto. Ora se hai voglia che ti renda meno chiaro e più complicato quanto ho appena detto (che poi non è certo la scoperta dell'America), puoi anche continuare a leggere, a tuo rischio e pericolo. Secondo la legge di Murphy se una cosa può andar male, di certo lo farà. Così - ad esempio - se una fotografia si può sbagliare, ci sono ampie possibilità che risulterà proprio sbagliata: fuori fuoco (e non leggermente), male inquadrata, male esposta, insignificante. E visto che le cose spesso procedono (o almeno procedevano una volta) in questo modo - e la fotografia sembra un campo in cui la legge di Murphy e i suoi corollari impazzano - ecco che l'Industria ha intuito che su questo si poteva lavorare e, s'intende, guadagnare bei soldoni. Così, pian piano, sono nate delle fotocamere "Murphyproof", a prova di (legge di) Murphy. Che oggi sono costituite principalmente da quelle contenute negli smartphone, con cui sbagliare è questione di talento, quello vero. Oggi dire a qualcuno che una sua foto è sbagliata vuol dire quasi fargli un complimento. Bei tempi quelli in cui mi capitava di ammirare - sdegnato, allora - foto completamente sbagliate, ma di brutto. Quasi ho nostalgia di quei tempi in cui l'errore imperava, e la crescita culturale di un fotografo consisteva nel saper sfruttare adeguatamente tali errori, o nell'evitarli. Oggi sono diventato un malefico cercatore di peli nell'uovo, almeno quando esamino le foto altrui. Magari la foto è un po' "grigiastra" (o "grigietta" se mi piace minimizzare), o la messa a fuoco non è perfetta, o l'inquadratura un po' così. Ma poi lo sanno tutti che con un "crop" e un colpo di curve e qualche app tutto si mette a posto. E che Murphy si fotta. E' evidente che il focus si sia spostato molto, ma molto di più su cosa ci fai con quelle foto "non sbagliate". La fotografia è morta, magari, ma non la capacità di comunicare attraverso di essa. Potrebbe addirittura essere che questo fenomeno di cui sto discettando sia qualcosa di buono, e di vantaggioso. Perciò la mia proposta è sempre stata quella di evitare di ricadere sempre nel mito superato della perfezione tecnica, che oramai è alla portata di tutti e si può apprendere nel tempo di un tutorial su YouTube. Davvero. Poi si può limare un po' lì e un po' di là, ma insomma, che ci vuole? Ho visto bambini quasi in fasce prendere lo smartphone della madre e in cinque minuti fare fotografie perfette. Migliorabili per l'inquadratura, si potrebbe dire, ma con oltre 100 megapixel hai voglia a croppare e a creare il giusto "taglio" secondo le regole corrette.
Io me lo ricordo quando, ai tempi della pellicola, la gente andava dal negoziante anche solo per inserire il rullino nella fotocamera compatta, visto che la volta precedente non si era agganciato e non era venuta nemmeno una foto. Ah, come avrebbe goduto il buon Murphy! Mi sovviene però che alla legge di Murphy ci sono innumerevoli corollari che vanno a esaminare ogni remoto recesso della sfiga che - com'è noto - ci vede benissimo, ti cerca attivamente e quasi sempre ti trova. Uno di questi corollari è definito "terza legge di Chisolm" (le due che la precedono ci interessano meno): "le proposte sono sempre capite dagli altri in maniera diversa da come le concepisce chi le fa". Urca. Dunque sono consapevole che l'ironia (spero anche l'autoironia) con cui sto scrivendo queste note sconclusionate, venga percepita nel modo sbagliato. Ma nonostante questo, vado avanti e che la buona sorte mi assista. La citata legge a sua volta ha ben tre corollari: "se si spiegano le cose in maniera tale che nessuno possa non capire, qualcuno non capirà" è il primo, e temo che stavolta anche tu abbia capito fischi per fiaschi. Ma anche questo potrebbe non essere grave, visto che sono stanco anche di gente che dice sempre d'aver capito tutto, dai vaccini alla fisica quantistica, dall'istogramma di Lightroom alla conta dei megapixel. Il secondo corollario recita:"se si fa qualcosa con l'assoluta certezza dell'approvazione di tutti, a qualcuno non piacerà" e scommetto che su questo concorderai anche tu che capita praticamente sempre. Realizzi il tuo bel progettino fotografico "furbetto" fatto apposta per raccogliere consensi e approvazione, poi vai alla "Lettura Portfolio" e te lo smontano in due secondi, per lodare magari quello accroccato in modo incomprensibile dal tizio dopo di te, che vincerà un premio per una serie di immagini "di rara intensità". Il terzo corollario afferma con una certa sicumera che "se si vuol mettere qualcuno di fronte al fatto compiuto, il fatto non si verificherà". Mi sa che a questo punto siamo fregati. Ma consoliamoci: oggi come oggi la fotografia è diventata "liquida" per utilizzare un termine in voga, e c'è stato un generale tana libera tutti e ognuno va per conto suo, secondo il motto "l'errore non esiste", o con lo slogan "le regole sono morte" e così via. Il che dal mio punto di vista significa appunto cercare di mettere lo spettatore dinanzi al fatto compiuto - l'aver scattato la foto a casaccio e senza nemmeno un'idea, ma vedi quant'è figa? - solo che il fatto fondamentale (l'aver invece scattato una foto significativa) non si è affatto avverato. Ma con un po' di ragionamenti contorti, si riesce a ingannare chiunque, specialmente gli altri fotografi, che in tal modo si sentono liberi di fare altrettanto. In altre parole: un'idea confusa (o inesistente), una serie di foto inconcludenti che sembrano seguire quell'idea (vabbe') e una paginetta di Word in cui si spiega le contorsioni dell'anima autoriale nel cercare di rappresentare ciò che "non potrebbe essere rappresentato", e l'Opus #1 è pronto. Poi devi solo giurare sulle Sacre Tavole che questo progetto è costato mesi - anni, forse l'intera vita - per essere portato a compimento. Come potresti tu, spettatore, non apprezzarlo? Peggio: non comprenderlo? E' insomma un modo per infrangere la legge di Murphy della fotografia di cui parlavo all'inizio. Non ha alcuna importanza come verrà la foto, se nitida o sfocata, se mossa o bella ferma, esposta correttamente o bruciata: conta appunto l'idea. Che è una gran cosa, sono anni che ci batto su questo concetto. Solo che - mannaggia la paletta - l'idea occorre averla, e magari averla prima di scattare la foto. E l'idea è qualcosa di profondo e complesso, qualcosa che va gestito, organizzato. Mentre spesso è appena abbozzata e, dopo aver fatto tutte le foto, ci si arrangia con un ragionamento stiracchiato più o meno incomprensibile, spacciato per profonda riflessione esistenziale. Invertendo il secondo corollario, infatti, se si fa qualcosa con l'assoluta certezza di suscitare disapprovazione, a qualcuno il tuo bel progettino piacerà, sicuro. Specialmente alle persone giuste. Potresti chiederti cosa mi sia successo per tenere questo atteggiamento effettivamente un po' acido. Nulla. Mi capita, quando sfoglio qualche rivista di fotografia, di ondeggiare tra il senso di colpa per non "capire" certe fotografie e il senso di fastidio che provo nel guardarle, oltre a un certo bruciore di stomaco che spesso - se mi capita - sfogo scrivendo... Non so quanti anni hai tu, ma io i commercianti di fotocamere me li ricordo bene. Prima che arrivassero Amazon e eBay, prima che tutte le catene di elettronica e fotografia aprissero i propri negozi virtuali, avevi un solo, unico modo per acquistare fotocamere, obiettivi, pellicole e accessori: andare da un negoziante, scrutare la vetrina con fare ansioso, chiedere informazioni e farti aiutare a fare la scelta giusta (e molto spesso quella sbagliata). La mia prima fotocamera seria è stata una Olympus OM 10 col suo manual adapter e lo Zuiko 50 mm. Il mio amico negoziante non mi aveva consigliato male, anzi. Se non altro non si era limitato ad andare sul tradizionale proponendo una Nikon, una Canon, una Pentax. Se non eri esperto, non avevi a disposizione i Forum, le opinioni di migliaia di "utenti", i test strumentali, le prove sul campo: o ti affidavi alle riviste di fotografia (e quanto attendevi che si decidessero a provare la fotocamera che a te interessava!), oppure guardavi negli occhi il negoziante e cercavi di capire se ti stava onestamente consigliando per il tuo bene, o solo cercando di svuotare il magazzino, offrendoti l'affare del secolo. La verità è che la scelta era molto più limitata, e la durata media dei materiali era assai più lunga.Tra "obsolescenza programmata" e superamento della tecnologia, si può ben dire che oggi la vita media di una fotocamera sia stata come minimo decimata. Sembrerebbe un'ottima occasione per i commercianti di materiale fotografico: per loro sfiga, tutto questo ha corrisposto anche con l'avvento del commercio elettronico, e i vantaggi sono presto stati superati dalla concorrenza agguerrita, e dai prezzi ribassati, di chi opera online magari standosene in un qualche paradiso fiscale. Io la prima fotocamera digitale (una Nikon D100) l'ho acquistata in un negozio, dalla mia amica commerciante. Pensavo di fare un acquisto a lungo periodo, che quell'aggeggio elettronico sarebbe durato quasi come la mia F3 o la mia F801. Ma già due anni dopo era obsoleta e col sensore graffiato (all'epoca qualcuno ancora sosteneva che i cotton fioc fossero ideali per togliere la polvere dal sensore!). Poi è addirittura morta: il suo esoscheletro mi guarda ancora dall'alto di uno scaffale, manco fossero le ceneri di mia nonna conservata in un'urna funebre. Che qualcosa stesse cambiando me ne accorsi quando la successiva fotocamera, una professionale Nikon D2x, la pagai la stessa cifra della precedente, nonostante fosse di livello decisamente più alto. Anche questa la presi a rate in un negozio: è stata l'ultima acquistata guardando in faccia un commesso, che era anche scontroso e affatto gentile. Mi sa che alla fine sono meglio i testi impersonali di Amazon o eBay. E pensare che un tempo, da ragazzino, sognavo quasi più di fare il venditore di fotocamere che il fotografo. Mi sembrava un personaggio fighissimo: poteva toccare un sacco di fotocamere, obiettivi e accessori, vedere come funzionavano, mettersi a disquisire per ore con un appassionato prima di vendergli la fotocamera su misura per lui. Ecco, il primo problema è proprio questo. Che di fatto già allora erano ben pochi i negozianti disposti a consigliarti per il tuo bene, e non per il loro soltanto, e spesso avevano poco tempo per mettersi a studiare e maneggiare ogni fotocamera che gli entrava in negozio, o impararne i dettagli. Decisamente avevo un'immagine romantica del venditore di fotocamere. Anche perché non sono uno a cui piace cambiare fotocamera. Fosse per me, mi terrei sempre la stessa a vita, come accadeva un tempo. Mio padre aveva una Rolleicord 6x6 con cui faceva i matrimoni, poi la passò a mio fratello, che la fece anche cadere in mare (senza danni!), e infine giunse tra le mie mani che, qualche anno fa, ne decretai la morte (sono stato sempre il più maldestro, in famiglia, mannaggia!). Questa storia credo di averla già raccontata, ma mi sembra significativa. Lo scorso anno mia zia mi ha regalato la sua Voigtlander, ancora funzionante, con cui ha documentato ben più di mezzo secolo di storia familiare. Per dire. Ho anche un rapporto un po' strano con le mie fotocamere: mia moglie sostiene che accarezzi più loro che la nostra gatta, e in effetti è vero. Ogni tanto vado nella vetrinetta dove raccolgo le fotocamere vintage della mia modesta collezione e le faccio scattare. Magari sono strano io, ma mi sembra che le fotocamere abbiano un'anima (in senso lato), che siano uno strumento malleabile tra le nostre mani. Non sono simili a un martello o a una pala, semmai somigliano a un paio di pantaloni o di scarpe. Sai bene che se i pantaloni stringono sono scomodi, e se le scarpe calzano male ti verranno le vesciche. Ecco, se avessi i soldi mi farei fare una fotocamera su misura. So bene cosa mi serve, e so altrettanto bene che sinora ogni fotocamera che ho avuto è stata solo un compromesso. A volte molto buono: la mia Olympus E-PL5 è stata davvero la mia compagna fedele, poi sostituita da una Panasonic G7. Ho provato la E-PL 7 e la OM-D1 Mk3 e niente, non è scattato il feeling. Eccellenti fotocamere, magari dovrei imparare a conoscerle meglio, ma mi chiedo perché dovrei farlo, visto che la mia piccola fotocamera ancora funziona benissimo. O c'è una coazione a comprare sempre una fotocamera nuova, così, tanto per andare in giro a mostrarla agli amici, o mettere un post su Facebook annunciando il nuovo acquisto? Roba da scellerati, non da fotografi. Davvero non avrei la stoffa per fare il venditore di fotocamere.
Se mai lo fossi diventato, e avessi visto un giovane avventore venire da me per chiedere consiglio, non gli avrei chiesto - come prima cosa - il suo "budget", che è quello che fanno tutti i commercianti ("quanto puoi spendere? Eh, con questa cifra non è che puoi prendere chissà cosa...).Semmai avrei parlato con lui di fotografia. E di altro. Cos'è che ti piace di questa forma di espressione personale? Perché vuoi fotografare e quali soggetti prediligi? Vuoi solo fare un bell'album di famiglia o fare le cose sul serio? Fotografia di viaggio, naturalistica o reportage? E cos'altro ti piace, a parte la fotografia? Ti fermi mai a guardare le nuvole passare? Guardi mai l'erba nei prati, le fronde degli alberi, i volti delle persone che passano? Ti commuovi mai davanti un'alba o un tramonto? Sembrerei scemo, lo so. Davvero non sarei mai potuto diventare un gran venditore di fotocamere! |
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