Raccontare il paesaggio è sempre qualcosa di affascinante. Sarà che sto lavorando al mio nuovo corso sulla fotografia di Paesaggio (per Reflex-Mania) - di cui parlerò a tempo debito - o sarà che sto leggendo un libro di Minor White, che nel confondere le idee a volte è un maestro, ma sta di fatto che solo ora, forse, mi rendo conto di quanto vario e multiforme sia questo genere fotografico. Insomma, si fa presto a dire "paesaggio"! A prescindere dalle molte considerazioni che potremmo fare sul termine stesso, e restando strettamente in ambito fotografico, il paesaggio è qualcosa che viene creato dallo spettatore: senza qualcuno "che guarda" esisterebbe un territorio, ma non un paesaggio. E noi fotografi abbiamo anche il privilegio di fermare ed eternalizzare questo sguardo, creando una fotografia che indubbiamente - più anche di un dipinto - rappresenta qualcosa che nasce dall'incontro tra l'attenzione umana (così soggettiva) e il territorio geografico (che invece è un insieme definibile e oggettivo di caratteristiche fisiche). La scena qui sopra esisterebbe a prescindere, anche senza nessuno che si fermi a guardarla, ma ora che io l'ho fotografata esiste anche al di là del singolo spettatore: tutti coloro che la guarderanno in questo post potranno far vivere quel paesaggio per interposta persona, che non è affatto una cosa da poco. Ma, ovviamente, il paesaggio fotografato - con il cormorano che si asciuga le ali, il salice piangente e il borgo di Capodimonte - non è qualcosa che è davvero esistito, nel senso che solo la mia sensibilità e cultura, la modalità con cui ho scelto di riprenderlo, la mia posizione nello spazio e mille altri elementi lo hanno "fermato" per come lo si vede, ma centinaia di persone che fossero passate in quel momento e in quel luogo lo avrebbero visto diverso. O non lo avrebbero visto affatto. E' questo il grande inganno della fotografia. Non è mai testimone, non è mai oggettiva, è sempre e solo un'interpretazione. Sembra capace di far esistere una realtà - di cui rappresenterebbe la testimonianza - e invece nisba, quella realtà non esiste affatto, sebbene è chiaro che sono esistiti (e spero ancora esistano) i singoli elementi che nella scena sono rappresentati. Dunque parlare di paesaggio è davvero qualcosa di sfuggente. Tutti (ma tutti tutti) i paesaggi che ho fotografato e ho visto fotografati dagli altri (ad esempio quelli amazzonici di Salgado) non sono esistiti mai, sebbene il territorio che è stato "utilizzato" per creare le foto ovviamente esista davvero. Ma questa illusione, questa menzogna epocale che tanto amiamo e chiamiamo fotografia, ci prende sempre in giro, non si lascia afferrare. Citavo Minor White, e a ragione. Perché riflettendo sulle sue serie, sull'editing che è servito a organizzare le foto del grande fotografo americano, continuava a sfuggirmi la ratio, il senso, la logica. Insomma, il filo. Non del tutto, a dire il vero, ma il fatto che White aggiunga foto di persone a una serie sul paesaggio, o che passi dal nudo ai dettagli di textures un po' mi spiazzava. Ma poi ho capito che proprio questo, io credo, è il pregio del suo lavoro: che riproduce il processo creativo che noi fotografi spesso facciamo inconsapevolmente. E che non è mai lineare, procede a zig zag e si intreccia con mille altri elementi. Perché se il paesaggio per esistere richiede uno spettatore, allora quel che lo spettatore si porta dentro, il modo in cui il suo sguardo è stato educato, partecipa alla creazione dell'idea stessa che abbiamo di un luogo, o di luoghi tra loro connessi, o di emozioni legate a dei luoghi. Stamattina, camminando tra grandi capannoni industriali - ero in un posto del genere per un mio progetto - ho percepito con chiarezza quanta importanza abbia il modo in cui noi vediamo le cose, come le introiettiamo, le sentiamo nostre. Questi grandi tubi mi sono sembrate le dita di una mano intenta a cercare di afferrare un oggetto squadrato.
Soprattutto, ho percepito perché lo stesso White alternava fotografie di spazi naturali - come Point Lobos o le grandi montagne sullo sfondo dello Snake River - a quelle di ciminiere e grandi impianti industriali. Penso sia l'idea che comunque le forme naturali come quelle artificiali possono fornire al fotografo soggetti intriganti, com'è ovvio, ma anche la consapevolezza che dobbiamo accettare il mondo per come è, non colorarlo come si fa oggi con Photoshop, non farlo apparire selvaggio e solitario quando non lo è, se non in minima parte. Soprattutto occorre aprire la mente, e indagare - prima ancora che il mondo davanti ai nostri occhi - il vasto e sconfinato mondo interiore, che di quello è un riflesso, certo, ma che poi riesce (almeno per noi) anche a cambiarlo. Così mi son reso conto che noi fotografi possiamo modellare la realtà. La modifichiamo per davvero, grazie alle fotografie. Sono certo che guardando certi luoghi famosi, alla fine ognuno di noi non lo vede davvero per quel che è, ma come è venuto "creandosi" attraverso migliaia, o milioni, di fotografie. Al punto che pare difficile decidere come siano il Colosseo o la Torre Eiffel, il Big Ben o il Taji Mahal nella realtà. Sempre li vedremo come nelle foto pubblicate online, o in quelle realizzate da Steve McCurry e da altri fotografi "popolari". Non so se questo sia un bene, ma di certo fotografare i luoghi e trasformarli in paesaggi è un'operazione che i più credono semplice, quasi di routine. Invece è qualcosa di complesso e strutturato, che richiede cura, attenzione e una profonda empatia.
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Sono sempre stato affascinato dai "paesaggi intimi", come quelli realizzati dal grande fotografo americano Eliot Porter. In verità ero - e sono - affascinato dal fatto che li si consideri appunto..."paesaggi", sebbene non abbiano alcuna caratteristica che li faccia sembrare tali. Sono infatti dettagli, particolari, campi stretti, piccoli soggetti che non hanno la vastità e l'importanza di una vero "paesaggio" come tendiamo a considerarlo normalmente. Ma in verità credo che ci siano molti equivoci su questa parola. Perché ci sia un paesaggio, e questo è oramai accettato da tutti gli studiosi che si occupano della materia, occorre che ci sia uno spettatore. In pratica l'equazione è territorio+spettatore=paesaggio. Ma secondo molti non basta ancora, occorre anche che lo spettatore riconosca e si riconosca in questo paesaggio, non necessariamente che lo trovi "bello" (può anzi trovarlo orribile), quanto che lo identifichi non già come "natura", "ambiente" o altro, ma come un insieme coerente di attività umane e matrice territoriale. "Tutto il paesaggio da noi conosciuto come naturale è un paesaggio plasmato dall'uomo: è natura a cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza però distruggerlo in quanto natura" scriveva nel 1973 Rosario Assunto. D'altra parte la stessa parola "paesaggio" è relativamente moderna nella cultura occidentale. Compare tra la fine del '400 e la prima metà del '500 in Francia per indicare un tipo di pittura, detta appunto "paysage"; poco dopo il termine entrerà nell'uso comune anche in Italia. Nei paesi di lingua tedesca si usano termini derivati dalla parola "land" (come Landscape), che è molto più antica di "paesaggio", ma che originariamente indicava solo "una porzione di territorio". Insomma, noi europei non avevamo nemmeno un termine per definirlo, il paesaggio, figuriamoci averne la consapevolezza. Quella che ad esempio avevano Cinesi e Giapponesi, che da due millenni hanno non solo una parola, ma più parole per indicare questo concetto! Ma - per arrivare al punto - date queste considerazioni, un "paesaggio intimo", cioè un dettaglio di territorio, una fronda d'albero o dei legni portati dal mare (foto in apertura) può davvero essere un "paesaggio"? Cominciamo col dire che le foto di Eliot Porter - pur magnifiche - difficilmente possono essere considerate paesaggio, se non altro perché non riprendono situazioni in cui sia evidente l'opera dell'uomo, anzi sono decisamente foto puramente "naturalistiche". Questo ovviamente se accettiamo l'idea che possa essere paesaggio solo il "paesaggio culturale", quello curato dall'uomo. Naturalmente il termine "paesaggio intimo" è solo un aggettivo creato per descrivere fotografie che non sono solo naturalistiche e nemmeno solo di "landscape". Ma è interessante notare quanto il termine paesaggio sia sfuggente, e spesso utilizzato a sproposito. Anche se, come osserva Assunto, in effetti è oramai impossibile - almeno in gran parte d'Europa - trovare un luogo in cui l'azione dell'uomo non sia giunta. Dunque se la longa manus della civiltà è giunta ovunque, ogni luogo è anche - per questo aspetto - un paesaggio? Forse, chissà.
Oltretutto la fotografia afferma in modo indiscutibile la presenza di uno spettatore, il fotografo stesso, ed è dunque difficile non notare che l'equazione iniziale sia perciò rispettata in pieno. Ma non solo: se ab origine il termine "paesaggio" si riferiva a territori comunque antropizzati, oggi si tende ad accettare una definizione meno restrittiva, e infatti nei concorsi di fotografia naturalistica (come quello organizzato dalla BBC o il concorso di "Asferico"), nella categoria "paesaggio/landscape" partecipano foto di luoghi incontaminati e selvaggi (apparentemente, almeno) in cui non debbono esserci - da regolamento - evidenze della presenza umana. Un bell'impiccio, su cui tornerò. Intanto continuerò a usare il termine "paesaggio intimo" (Intimate Landscape) per immagini come quella delle foglie di farfaraccio riprese all'infrarosso (foto qui sopra), scattata "entrando" nella micro-foresta creata da queste piante. Davvero mi sembrava di aggirarmi in una sorta di Amazzonia in miniatura: se fossi stato una formica, di certo l'avrei trovata incombente come un per noi un bosco di sequoie! In quanto fotografo paesaggista, sono ovviamente un attento osservatore delle dinamiche in corso nella fotografia naturalistica in generale, e di landscape in particolare. Leggo, mi informo, rifletto. E rimango sempre meno convinto delle strade che la fotografia sta percorrendo, e di cui hanno parlato molti commentatori, ultimo in ordine di tempo il bravo Stefano Unterthiner. Il cahier de doléances è ben noto: saturazione eccessiva, effettacci più o meno spettacolari, foto vivide ma prive di idee. Mi torna sempre in mente la frase (profetica) di Ansel Adams: "non c'è niente di peggio dell'immagine nitida di un'idea sfocata". Oggi più che mai l'attenzione viene posta sull'aspetto prettamente tecnico dell'immagine, ed è un proliferare di luci incredibili - indiscutibilmente belle - ma che per questo oramai divengono banali. Infatti, il vademecum del perfetto fotografo di paesaggio sembra essere questo:
Sono appena emerso dalla lettura di una rivista (esiste solo in versione elettronica) dedicata alla fotografia di paesaggio. Molto ben fatta, molto curata: non a caso la compro con una certa regolarità. Però, al termine della lettura, resto sempre un po' confuso. All'inizio non capivo, poi mi sono reso conto che tutte le foto (e dico tutte tutte) sono cromaticamente esagerate e realizzate con uno scopo ben preciso: attrarre quel wow factor che è diventato il vero premio di ogni fotografo (ma non vale su facebook: lì basta la foto sfocata del tuo gatto a farti degli ammiratori...). Chiunque frequenti la natura sa bene quale spettacolo siano le albe e i tramonti su questo pianeta, specialmente con le nuvole in cielo e qualche fenomeno interessante (temporali, nevicate, o altro). Ma io la natura così colorata non l'ho mai vista. Mai. Se non nella mia fantasia: e va bene che il fotografo dev'essere anche uno che sa immaginare, ma con moderazione! Soprattutto, con dolore, debbo annunciare che esiste la luce morta. Cos'è la luce morta? Tutta la luce (cioè la maggioranza di quella disponibile) che non sia l'alba e il tramonto. Interi racconti di esperienze fotografiche iniziano con il "risveglio all'alba in una tenda, per catturare quell'attimo magico" e terminano con lunghe attese per il tramonto "più infuocato che abbia mai visto". E nel mezzo il nulla.
Senza nuvolette rosa, gialle o indaco, senza raggi solari che splendono dietro nuvole color cobalto, senza la tavolozza incredibile che la natura sa stendere sulla sua tela, la fotografia non si può fare. Cieli grigi e luci piatte, soli estivi che allo zenit proiettano ombre più dure della pietra, e tutte le altre luci "banali" non servono a fotografare. Nemmeno una buona, onesta luce del giorno in inverno, che pure non è niente male, incuriosisce il fotografo. Finita l'alba, si fa colazione, ci si riappisola, si attende freneticamente la sera. Al più, si fa qualche macrofotografia, o si scelgono le location per gli scatti serali. Oramai "la luce è brutta". Ma la natura offre almeno 7-8 ore di luce (in certi periodi anche 12...), e mi chiedo se sia possibile raccontarla limitandosi a quelle due orette mattutine e serali. Ve l'immaginate un fotografo di reportage che chiede ai combattenti di una delle mille guerre in giro per il mondo di attendere la sera, in modo da avere la luce migliore, prima di continuare a spararsi? E se volete fare "street photography", dubito che l'alba sia un buon momento, e anche il tramonto raramente lo è. Così chi ci accusa, a noi naturalisti/paesaggisti, di essere distaccati dalla realtà e di non raccontarla davvero, ahimé, qualche volta ci azzecca. Secondo George Simmel, autore di uno dei saggi più importanti sul paesaggio, non basta che su un dato pezzo di terra ci siano "cose" naturali e "cose" forgiate dall'uomo perché si possa definire il tutto "un paesaggio". "La natura, che nel proprio essere e nel proprio senso profondo, ignora l’individualità, viene trasformata nella individualità del «paesaggio» dallo sguardo dell’uomo, che divide e configura in forma di unità distinte ciò che ha diviso" sostiene il filosofo tedesco. Perché si possa parlare di paesaggio, per Simmel, occorre che l'ambito di osservazione sia delimitato, reso "maneggevole" da confini ben precisi. Ma non basta, occorre anche che vi sia un principio unificatore attorno cui la realtà semplicemente percepita possa venir organizzata, e questo principio Simmel lo definisce "Stimmung", parola intraducibile in italiano ma che grossomodo indica uno "stato d'animo" una "tonalità emotiva", un "umore". Lo Stimmung è parte integrante del paesaggio che guardiamo, non una nostra proiezione, e può identificarsi con quella che - anche nel parlare comune - viene chiamata "atmosfera": c'è addirittura una branca di studi filosofici che si occupa della "Atmosferologia", sviluppata soprattutto da due ricercatori sempre tedeschi, Hermann Schmitz e Gernot Böhme e ripresa in Italia da Tonino Griffero. In effetti l'atmosfera così intesa è quasi un "oggetto" concreto, e ce ne possiamo rendere conto se pensiamo che può essere costruita e modificata, cosa che fanno abitualmente molti professionisti che progettano il paesaggio o gli ambienti dove viviamo, come anche centri commerciali, negozi, locali pubblici. In tutti questi luoghi si cerca di fare in modo - grazie alle forme e alle luci - di creare una determinata atmosfera, utile magari a favorire gli acquisti, o il benessere di chi li frequenterà. Per Böhme la nostra percezione del paesaggio è essenzialmente percezione di atmosfere, perciò ancor prima di distinguere i singoli elementi che stiamo osservando, noi percepiamo unitariamente la Stimmung, la tonalità generale di una certa scena che non è solo una proiezione del soggetto, dunque indipendente da quel che si percepisce, quanto un incontro tra soggettività e oggettività. Le atmosfere sono parte integrante del paesaggio osservato e il bravo fotografo paesaggista (venendo agli argomenti che più ci interessano) dovrebbe essere in grado di coglierne l'essenza, riuscendo poi a trasmetterla agli altri. Molti fotografi si sono concentrati sul messaggio insito nel paesaggio (come abbiamo visto), o lo hanno studiato, quasi dissezionato, alla ricerca di una impossibile oggettività (e su questo torneremo), mentre relativamente pochi hanno inteso dedicare la propria attenzione alle atmosfere, se non in modo superficiale e retorico, come avviene in tanta fotografia di paesaggio "spettacolare" che vediamo online, che gioca sulla trasmissione di "atmosfere" semplici e immediate. Viceversa autori come Luigi Ghirri hanno magistralmente interpretato la Stimmung dei luoghi ripresi, ed è su quella che hanno incentrato la propria attenzione. Un altro nome che mi viene in mente, tra i grandi classici è Roger Fenton (1819-1869) - le cui foto illustrano questo post - che per motivi anagrafici appartiene alla schiera dei pionieri della fotografia e operò in piena epoca vittoriana, facendosi in qualche modo portavoce di uno spirito romantico che vedeva nel paesaggio e nella natura un'ammonimento alla nostra piccolezza e caducità, nonostante le conquiste della tecnologia che quei paesaggi andava trasformando e a volte distruggendo. Fenton è famoso per le sue fotografie realizzate durante la Guerra di Crimea (1853-56) che, per motivi sia tecnici che "politici" vennero giocate sui ritratti in posa e su foto di paesaggio dopo la battaglia. Tra l'altro la foto iconica di Fenton, "La valle delle Ombre della Morte" (che esiste almeno in un paio di versioni), è una chiara dimostrazione di come la fotografia di paesaggio sappia raccontare proprio grazie all'atmosfera. Il luogo solitario e brullo, la luce quasi accecante e le palle di cannone sparse in terra possiedono una capacità evocativa fortissima. Fenton, comunque, era un grande fotografo di paesaggio e architettura, generi ai quali si dedicò con passione e grande abilità tecnica, in un'epoca in cui ancora imperava il colodio umido, una metodologia che obbligava il fotografo a stendere l'emulsione sensibile subito prima della ripresa, e a sviluppare la lastra subito dopo. Un vero incubo!
Fenton, da buon britannico, aveva una spiccata sensibilità per "l'atmosfera" dei paesaggi, e nonostante le difficoltà pratiche, girava la Gran Bretagna (e non solo) con il suo carro-camera oscura per cercare soggetti adeguati, da riprendere concentrando la propria attenzione proprio sull'aspetto "atmosferologico". In tal senso, guardando le sue opere si può percepire appieno lo spirito di un'epoca, e sarebbe un grave errore giudicare le sue foto con gli occhi di oggi. Ma guardandole invece con mente aperta, ne possiamo riconoscere il fascino e percepire tutto un mondo scomparso da tempo, eppure ancora presente in questi scatti, realizzati faticosamente e con notevole abilità manuale. |
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