Quando viaggio, faccio due tipi di fotografie, quelle solite, che fanno tutti, e che in fin dei conti mi interessano poco o niente, e poi le altre, quelle a cui veramente tengo, le sole che considero "mie" davvero (Luigi Ghirri, 1973) Questa frase mi sembra molto adatta alla stagione estiva, quando tanti - anche appassionati di fotografia - si metteranno di nuovo in viaggio, stante il rallentamento della pandemia. E credo che per molti, che si reputino fotografi esperti o principianti assoluti, l'idea di distinguere queste due categorie di foto sia un fatto a cui magari si pensa di rado, tuttavia assolutamente necessario. Potremmo dire che in fondo quel che ci interessa davvero sia identificare cosa renda alcune fotografie delle semplici immagini ricordo di una vacanza, e cosa invece possa farci distinguere "le altre", quelle che sentiamo davvero nostre. Ecco, io credo che il libro di Ghirri, "Niente di antico sotto il sole", ripubblicato due mesi fa da Quidlibet, serva soprattutto a identificare un possibile percorso di consapevolezza, che pian piano ci aiuti a rendere tangibile la distinzione di cui ho appena parlato che, a pensarci bene, non è poi così immediata. Infatti, il fotografo consapevole e coinvolto in progetti magari abbastanza strutturati, sa bene che non basta di certo che una foto sia molto curata per essere diversa da una normale foto di documentazione o per l'album dei ricordi. Io, ad esempio, curo molto sia le foto che scatto come documentazione delle mie uscite, sia quelle che penso di utilizzare nei miei progetti e che reputo quelle "giuste". All'apparenza, dunque, non sono poi così diverse. E aggiungo: a volte una foto può passare da una categoria all'altra, se un moto interiore (diciamo così) lo richiede. Perciò come distinguerle? Ghirri, che ha costruito una carriera di successo che lo ha fatto entrare di diritto nell'empireo dei "maestri" grazie a fotografie all'apparenza assolutamente "normali", si interroga spesso, e con insistenza, sulla natura della fotografia, su cosa sia davvero una fotografia creativa e cosa invece non lo sia. E lo fa sia in generale, con appassionate riflessioni diciamo filosofiche, ma anche ripensando al proprio lavoro, a dove portarlo, cosa "farne". "E' bene ritenere insignificanti tante cose e significante tutto" scrive " e così oggi il mio rispetto per le cose irrilevanti sta assumendo proporzioni gigantesche". Alla fine il ruolo del fotografo è quello epifanico, di rivelazione dell'esistente, soprattutto di ciò che è banale, quotidiano. Dunque solo le foto che rivelano qualcosa della realtà sono foto valide. Per Ghirri "la fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell'occhio che ferma il mondo fisico, ma un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un'infinità di mondi immaginari". Così - e oggi questo è di eccezionale attualità - la vera fotografia che genera meraviglia, che racconta mondi di fiaba non è quella colorata e perfetta che vediamo spesso sulle riviste oppure online, ma per assurdo quella che rivela forme nuove e mai viste anche solo guardando una strada di campagna nell'assolata pianura Padana. Così "deve essere qualcosa di strano se una casa con le stalle di fianco e un albero davanti ricompongono e risvegliano una visione di sopite inquietudini, se le finestre chiuse delle case di qualche borgata rimandano a chissà quali segreti e fantasmi dispersi" e questo avviene perché alla fine "i luoghi, gli oggetti, le case o i volti incontrati in questi paesaggi aspettano semplicemente che qualcuno li guardi, li riconosca, e non li disprezzi relegandoli negli scaffali dello sterminato supermarket dell'esterno". La cosa strana di questo libro di Ghirri - che ho divorato in poco tempo nemmeno fosse un romanzo - è che davvero a volte fa l'effetto di entrare nella testa del fotografo: si inizia a "vedere" e percepire il mondo con i suoi occhi, con i suoi sensi. E' un po' come nel film del 1999 "Essere John Malkovich" - che forse qualcuno ricorderà - in cui il protagonista si ritrovava nella testa del noto attore, appunto percependo la realtà da dentro qualcun 'altro! Se la prima parte del libro è magari un pochino più lenta, visto che sono scritti del periodo più "impegnato" del fotografo, man mano i testi si sciolgono, e non solo si percepisce appunto il modo in cui viveva la fotografia Luigi Ghirri, ma si può anche comprendere più a fondo la vicenda culturale e in parte sociale di una certa fotografia di paesaggio, che proprio grazie a Ghirri e ai suoi amici ha svecchiato il panorama nazionale creando i presupposti per un approccio meno retorico e polveroso a questo genere fotografico.
Insomma, un libro per appassionati che credo sia interessante anche per chi non apprezza in modo particolare il fotografo emiliano, perché si tratta comunque di un sostanzioso sguardo su un'era culturale che da lì a non molto avrebbe iniziato a dissolversi, sino all'avvento "catartico" del digitale.
2 Commenti
Più passa il tempo (e magari più aumenta il rincoglionimento), più elaboro mentalmente teorie in merito alla necessità di un ritorno alla pellicola. Che palle!, direte, ancora con questa storia? Ebbene si, perché debbo confessare di essere un appassionato del digitale, delle possibilità che offre (chi può negarle?), epperò c'è questo tarlo che rode nella mia testa, perché poi, ogni volta che sviluppo un rullo bianco e nero... eh, beh, è proprio tutta un'altra cosa!
Mi è capitato di leggere sul sito della rivista americana Shutterbug un interessante post del fotografo Jason Schneider, in cui l’autore elenca i 7 motivi per cui, a suo parere, occorrerebbe scattare su pellicola, anche per essere fotografi digitali migliori. Siccome riverberano pienamente quel che io penso, ma non riuscivo pienamente a mettere a fuoco (che è grave, per un fotografo!), li riporto qui con il mio commento, che vale - a differenza di quello di Schneider, che parla solo di fotocamere con obiettivi a lenti - anche per la fotografia stenopeica. Schneider consiglia di utilizzare fotocamere vintage di medio e grande formato (soprattutto biottica e folding per pellicole 120), allo scopo di acquisire una certa manualità e consapevolezza. Ma ecco i singoli punti. Si incrementa la nostra precisione - Oggi i fotografi sono abituati ad affidarsi agli automatismi. Male, molto male: tornare a dover utilizzare tempi e diaframmi e, nel caso delle fotocamere vintage anche la messa a fuoco manuale, ci costringe a ragionare prima di scattare; si scatta meno, ma si coglie di più - Chi ricorre a un rullo 120 ha a disposizione solo 12 pose, o multipli di questo se porta con sé più rulli. In una normale uscita con una fotocamera digitale, torniamo a casa con centinaia di scatti! E' evidente che l'avere poche foto per riuscire a rendere un soggetto in modo adeguato, ci offre una preziosa opportunità. Nel caso della fotografia stenopeica, poi, la lentezza esasperante, a volte, del procedimento, avvalora ancor di più questo aspetto; si incrementa la consapevolezza - Non avere subito davanti la nostra fotografia sul monitor della fotocamera, ci costringe a cercare di avere già in testa la foto, e di scattarla tenendo conto di ogni parametro necessario. Poi c'è l'attesa per il ritorno a casa, l'ansia dello sviluppo, la gioia (o la frustrazione) di vedere finalmente il risultato dei nostri sforzi. Tutto questo è impagabile. Certamente il digitale ci spinge a sperimentare di più, potendo subito controllare il risultato, ma ci toglie anche molto, in particolare l'attenzione e, appunto, la consapevolezza di ciò che stiamo facendo; si comprende meglio il concetto di esposizione - Utilizzare un esposimetro separato, o comunque imparare a leggere la luce, a valutarla, ci rende senza alcun dubbio osservatori migliori e fotografi più capaci. Dopo, solo dopo, potremo tornare al digitale e ragionare di "ETTR" (Expose to the right) e altre amenità elettroniche (e di postproduzione). Ma lo faremo non da un punto di vista meramente tecnologico, ma creativo. E questo è ciò che conta davver; si ottiene un'esperienza più viscerale e disciplinata - E questo lo può capire solo chi ha provato, perché parliamo di sensazioni. Prendere con sé una vecchia fotocamera medio formato a pellicola, inquadrare la scena, caricare l'otturatore e sentire quella delicata vibrazione e lo scatto, un vero "click", è qualcosa di unico, credetemi. Si tratta della cosa che, per noi che siamo nati come fotografi analogici e siamo passati al digitale solo in un secondo tempo, manca di più alle moderne fotocamere. Purtroppo le sensazioni di questo genere non si possono descrivere, ma l'aspetto della "disciplina" (intesa in senso filosofico, se vogliamo) è evidente, se solo pensiamo ai fotografi di un tempo, come Stieglitz, Atget o Adams, per tacer di Bresson; si aggiunge una qualità atemporale alle immagini - Su questo, credo, ci saranno pochi dubbi. Una fotografia su pellicola, e a maggior ragione se si tratta di una fotografia stenopeica, ha una qualità "materica" che il digitale si sogna, e che i softwares che imitano le pellicola (tipo Silver Efex Pro) sfiorano, forse, ma mai raggiungono. E' anche un fatto di gamma dinamica, che la pellicola riesce a rendere ancor oggi in modo superiore, e che solo le fotocamere digitali FF o medio formato superprofessionali (e supercostose) possono (forse) eguagliare; si colloca l'accento sul fotografo, e non sulla fotocamera - Il digitale ha avuto il torto di proseguire ed estremizzare quel processo (iniziato ben prima) di spersonalizzazione della tecnica fotografica, offrendo fotocamere sempre più "evolute" e in grado di realizzare immagini perfette, grazie all'autofocus, al TTL, ai sistemi elettronici interni, e oggi anche al RAW e Photoshop. Al punto che tutti si sentono in grado di fare "belle" foto, svilendo la figura dell'operatore, quasi che la fotocamera fosse andata ben oltre l'inconscio tecnologico di cui parlava Franco Vaccari già nel 1979, per raggiungere una completa autonomia. Non ci chiedono subito con che fotocamera è fatta la nostra foto così bella? E' evidente che non l'abbiamo fatta noi (pensano) ma il mezzo meccanico che abbiamo usato. Avvilente, o no? Ma mettete in mano a qualcuno di quei sedicenti "fotografi" della domenica un rullo 120 e una Rolleiflex e vediamo che sanno combinare (vendetta atroce vendetta)! Il più delle volte, non sapranno nemmeno da dove iniziare... Sebbene sia sempre meglio evitare estremizzazioni, come dimostrato dal fatto che esistono eccellenti giovani fotografi "nativi digitali", è pur vero che fossi in voi rifletterei almeno un po' sui punti che ho appena elencato. Certo, potrebbero sembrare elucubrazioni di un vecchio fotografo nostalgico (ma lo stesso Schneider confessa di scattare la quasi totalità delle sue foto in digitale...), ma in verità la disciplina, il piacere e la consapevolezza che danno una buona fotocamera tradizionale a pellicola (ma anche un modello economico da due soldi), sono un ottimo viatico per diventare fotografi migliori. In fondo, non è questo che tutti noi fotografi desideriamo? Io, nel frattempo, ho anche realizzato un intero progetto in analogico, con fotocamere vintage e stenopeiche, che puoi vedere nell'apposita galleria. Da questo ho tratto un libro fotografico che puoi scoprire e acquistare nell'apposita pagina di questo sito. Scusate, ma stavolta torno a usare questo blog come vero strumento di comunicazione personale. In fondo non dovrebbe essere così? Ad ogni modo, vorrei parlare del mio ultimo lavoro, un libro fotografico intitolato "Foto|sintesi", a cui tengo molto (ma lo dico di ogni mio libro!). Ora, un libro fotografico è per definizione uno strano ibrido: da un lato è un libro come tutti gli altri, sia perché composto da pagine di carta e da una copertina, sia perché in genere pubblicato da un qualche editore, distribuito da un distributore e così via; dall'altro lato però non è fatto solo di parole (spesso ce ne sono pochissime) ma di immagini e io l'ho sempre visto come una sorta di "minigalleria portatile", una mostra che è possibile tenere per sempre in libreria. Dopo aver pubblicato libri fotografici - e non solo - con altri editori, ho iniziato a farmeli da me e questo perché volevo che fossero davvero la piena e completa rappresentazione delle mie idee, del mio modo di vedere, delle mie emozioni. Questo ha comportato la rinuncia a tutte le strutture che un vero editore è in grado di dare, dal lavoro sulla promozione a quello sulla distribuzione, ma anche il sostegno morale, a volte. Tanti miei colleghi hanno iniziato lo stesso percorso, a volte con successo, a volte meno. Il più delle volte i libri li si realizza con la tecnica del "crowdpublishing", che consiste nel "prevendere" i libri ancor prima della stampa per coprire almeno le spese, cosa che ho fatto anche per questa mia ultima fatica, con pieno successo. Anzi, approfitto per ringraziare ancora i sostenitori e le sostenitrici che hanno consentito di arrivare alla stampa del libro, senza di loro probabilmente non ci sarei riuscito. Tuttavia è ovvio che avere per le mani (e in magazzino) il libro rappresenta meno della metà dell'opera. Occorre anche che il libro circoli, che ci siano persone che decidano di acquistarlo, che magari spargano la voce se ne restano soddisfatti. Il più delle volte, questo comporta per l'autore l'organizzazione di numerose presentazioni: così, può spiegare direttamente al pubblico il senso del progetto, il valore del libro, il perché possa valere la pena acquistarlo. In genere, alla fine di queste presentazioni (che mi è sempre piaciuto organizzare) si vendevano diverse copie. Purtroppo, il COVID ha completamente fermato questa modalità, e non so quando si potrà ricominciare a pieno regime. Ho anche pensato a delle presentazioni online - ne avevo fatta una per "Una Momentanea Eternità", ad esempio - ma oltre a convincermi poco, temo che oramai Internet sia saturo di questo genere di cose. Ma se tra chi legge queste note c'è il responsabile di qualche Circolo Fotografico e volesse invitarmi, parteciperei volentieri a una simile presentazione virtuale. Insomma, davvero la parte più difficile di realizzare un libro è riuscire a metterlo sul mercato. D'altra parte i numeri parlano chiaro: in Italia il mercato dei libri fotografici è risibile e si basa quasi esclusivamente sui soliti nomi, i grandi autori molto noti - o addirittura storici - che gli appassionati apprezzano e seguono. Per il resto, è necessario invece trovare canali alternativi, non facili, specialmente quando ci si trova in piena pandemia. Ma qualcosa m'inventerò. Ci tengo a dire che come autore non realizzo libri pensando sia una vera forma di "reddito integrativo": in verità ci si guadagna poco, a volte nulla. Il libro ha la funzione che hanno i dischi per molti musicisti (che guadagnano magari dai concerti, altra nota dolente di questo periodo): farsi conoscere, certo, ma soprattutto poter veicolare la propria arte, diffondere il proprio messaggio, far viaggiare sulle proprie gambe quelle foto realizzate in anni di lavoro. Perciò vendere i libri non è tanto un fatto di ricavi netti (anche, ovviamente non guasta mai) quanto di diffusione e conoscenza del lavoro svolto, è legata al fatto di sapere che ci saranno persone che ameranno il tuo libro, lo sfoglieranno, si spera apprezzeranno le foto. Proprio per questo ho sempre preferito fare in modo che i miei libri fossero "popolari", cioé con un costo ragionevole, non troppo basso per evitare di deprezzare il lavoro stesso o rimetterci economicamente, non troppo alto da renderlo "irraggiungibile".
Altri fotografi fanno l'esatto opposto: libri a tiratura limitata, costosi, di pregio. E' una scelta legittima, ma che non condivido. Perché contraria all'idea di far "circolare" le foto, e anche decisamente snob, se non elitaria. Certo, spesso questi libri sono bellissimi, stampati da dio, su carte pregiatissime, imponenti, e così via. Ma se poi se li possono permettere in pochi e magari nemmeno li sfogli perché hai paura che si rovinano, a che serve? Anzi, per alcuni progetti che ho in corso ho deciso di realizzare una linea di "zine" (sebbene non le chiamerò così): uno o due libri l'anno, con relativamente poche pagine, da vendere a prezzi "da rivista" appunto. Credo che per l'inverno prossimo il primo "numero" sarà pronto, poi vedremo. Magari proporrò una sorta di "abbonamento" annuale con uno sconto, non so. Intanto, se sei curioso di conoscere il mio libro - e auspicabilmente di acquistarlo - puoi andare nell'apposita pagina di questo sito. Per il resto... ti terrò aggiornato. E mi raccomando, fai un po' di passaparola! Disse il tarlo al grande noce: dammi tempo, che ti divoro! Così recita un detto napoletano (dicette ‘o pappece in faccia ‘a noce: damme tiempo, che te spertuso!). Non c’è alcun dubbio che il tempo possa essere il più grande alleato, o il peggior nemico, del fotografo. Ne parlo nel mio libro “Fotografare cos’altro è”, da cui traggo alcune delle seguenti riflessioni. Il tempo è, dopo la luce, il principale strumento che il fotografo utilizza per realizzare le proprie opere. E a volte lo maltratta in modo anche violento. Noi fotografi maneggiamo l’istante nel tentativo di renderlo eterno. Dunque, siamo dei “rammendatori” temporali: “…la fotografia opera nel tempo e nello spazio un rammendo: un’inquadratura, sopravvenendo all’istante che cattura, impedisce al tempo di scorrere” (J.C. Bailly, “L’istante e la sua ombra”). Ricuciamo strappi, e nel farlo, ci rendiamo complici del tempo stesso, e occorre una certa cura per non rimanere coinvolti in questo flusso che tutto porta via con sé. Il libro di Bailly è una disamina interessante e profonda del rapporto che il tempo ha con le nostre vite, e di come tutto questo possa passare attraverso una fotografia, anzi una skiagrafia. Se "fotografia" significa "disegnare con la luce", il termine skiagrafia significa "disegnare con le ombre" (skia in greco significa appunto ombra). Ci hai mai pensato all'importanza delle ombre nella storia dell'arte, e nello specifico della fotografia? E' vero che senza luce non ci sarebbe ombra, ma alla fine il vero artefice di una foto è quest'ultima, che ne rappresenta l'anima stessa. Se vuoi, "l'anima oscura". Il libro prende il via dalla foto "Il covone" (The Haystack, che si vede in copertina) di Fox Talbot contenuta nel suo libro "The Pencil of Nature" (1844-46), e arriva a un'immagine per certi versi simile, eppure così drammaticamente diversa: quella di un uomo e della scala che gli era vicina "fotografati" su una parete dall'esplosione della bomba atomica di Hiroshima, che dissolse entrambi in un lampo di luce e la potenza di "10.000 Soli". Non sempre la luce è simbolo positivo. Non sempre l'ombra è negativa. 100 anni quasi esatti di storia separano le due immagini, e quella scala - strumento per elevarsi - diviene da simbolo del lavoro umano, un simbolo della follia della guerra. Il tempo non passa mai invano, ma noi non sappiamo approfittarne. Fermare l’attimo dunque significa “uccidere” il soggetto, come ha fatto la luce radioattiva con l'uomo di Hiroshima, al punto che la fotografia “istantanea”, non appena disponibile, verrà accusata di “cucire assieme nel sacco portatile dell’istante” il morto e il vivo, come scrive ancora Bailly. Ecco spiegato il motivo per cui certe immagini degli inizi della storia della fotografia ci affascinano, ed ecco perché stanno tornando di moda i tempi di scatto lunghi (da un secondo a decine di secondi), resi possibili dai filtri ND 1000 che tolgono ben 10 (oggi si arriva anche a 16) diaframmi di luminosità alla scena ripresa. Ed ecco perché c'è chi come me utilizza la fotografia stenopeica restando in paziente attesa che l'esposizione si compia nel volgere di diversi secondi, o minuti, a volte ore. Un paesaggio, soprattutto se vi è presente dell’acqua (un torrente, il mare) apparirà allora totalmente diverso da come lo vedono i nostri occhi, letteralmente trasfigurato.
E' come se volessimo - in questo modo - raccogliere più tempo, farne indigestione, catturarlo e fermarlo, per allontanare da noi la paura della fine, per scongiurare quel nichilismo che è la caratteristica saliente della nostra civiltà occidentale. Il dio Crono divora i propri figli come il tempo fa con le nostre vite - dopo che una profezia gli aveva predetto che uno di loro lo avrebbe spodestato, come in effetti fece Zeus - stando alla mitologia dei Greci. Che non poterono fare a meno di ideare però anche un altro tempo. Il tempo divino, il tempo in cui nulla trascorre, in cui nulla si consuma. Un tempo apparentemente negato agli umani. Se non, forse, nel tempo breve di una fotografia. Il kairòs è un tempo che non è vuoto, che non è a nostra disposizione ma ci viene donato: ogni istante (kairòi) è un kairòs, un momento opportuno per incontrare il tempo, l’eternità. Nel Nuovo Testamento, il kairòs indica il tempo in cui Dio agisce, che dunque non è il tempo come lo concepiamo noi umani, ma qualcosa di molto speciale: rappresenta il presente, l’eterno presente, l’unico tempo di cui davvero disponiamo ma di cui non sappiamo approfittare, perché le fauci di Crono continuano a divorarlo, fameliche. Vivere il presente significa vivere il kairòs. Non come un momento qualsiasi, ma il momento, quando un’opportunità per fare qualcosa di significativo si presenta come - appunto - scattare una fotografia. Le recenti proteste del mondo dello spettacolo, dell'arte e della cultura (a cui in fondo sento di appartenere) mi hanno fatto molto riflettere. Durante questa pandemia, il ruolo della cultura è stato narrato senza il solito velo di ipocrisia. Se ci sono stati ministri che hanno potuto dichiarare che "con la cultura non si mangia" - con conseguenti polemiche - oggi vediamo che alla fine anche chi contestava quelle assurde affermazioni - in fondo, in fondo - le condivideva in gran parte. Infatti, la cultura non è vista come un settore economico (una vera e propria industria) di fondamentale importanza (e già questo è grave), ma nemmeno per quello che è davvero: la "cosa" più importante che abbiamo. Se si cerca di salvare palestre e centri estetici, discoteche e sale giochi, non altrettanto si fa con cinema e teatri, e con tutti quei luoghi o quelle iniziative legata appunto alla cultura. In fondo, si pensa, non sono "beni indispensabili" come il benessere del corpo o il divertimento ma soprattutto l'industria, l'economia, il "consumo". Nella migliore delle ipotesi, visto che la gente deve restare a casa, la cultura diventa "un passatempo", qualcosa che serve a non annoiarsi troppo, un'alternativa (ma secondaria) ai videogiochi. Questo fa a pugni con la mia profonda convinzione che la cultura nelle sue molte sfaccettature sia invece la ragione stessa della nostra vita, quel che la rende degna di essere vissuta, il filtro attraverso cui possiamo guardare al mondo, alla bellezza della natura o alla bellezza del pensiero, con la possibilità se non di comprenderlo, almeno di accettarlo e farlo nostro. Così, mi è venuta in mente una poesia che avevo scritto qualche anno fa. In vita mia ho pubblicato una sola raccolta in versi ("Storie in punta di piedi"): si tratta di poesie che narrano di alcuni luoghi che ho visitato per il mio progetto fotografico "Una Momentanea Eternità" e che mi hanno ispirato delle storie, anzi mi hanno fatto percepire delle "presenze", quelle dell'ultima persona che è andata via dal luogo stesso e che - nella mia immaginazione - viene condannata a rimanervi come spirito. Si tratta di località della Tuscia, alcune famose altre molto meno, alcune insignificanti, come quella legata alla storia del "Giardino di Eleonora".
Durante i miei giri in bici sono spesso passato davanti al rudere che vedi nella foto in alto (una fotografia stenopeica) che, in primavera, è circondato da una folta fioritura. E mi è nata l'idea di questa bambina, che viveva col padre nel casale quando era ancora in piedi, e che aveva la passione di coltivare fiori, in un'epoca e in contesto in cui solo ciò che aveva valore economico (di sussistenza) poteva avere un significato. Nella mia mente Eleonora rappresenta la parte di noi che sa bene che senza pane si potrebbe morire di fame, ma che senza bellezza si vivrebbe invano. Mi sembra una storia appropriata, e dunque la propongo qui sotto, dedicandola a tutti coloro che vivono di cultura, che la amano, che la apprezzano, che ne riconoscono il valore, e che ora soffrono più di altri a vederla considerata così poco. Il giardino di Eleonora Nel pallore esangue di un’esausta primavera, guardavi con intensità le farfalle posarsi di corolla in corolla come fiori volanti tra i fiori del tuo giardino, Eleonora. E avevi nome da regina, sebbene il tuo regno non avesse per confini che quel piccolo quadrato di terra colmo di rose e violette, garofani e gigli candidi, dove solo le fate potevano contestare, forse, il tuo dominio. Accanto al casale arcigno coltivavi insieme ai fiori anche i tuoi sogni, ed entrambi crescevano floridi, all’ombra d’un destino incerto. E quando i contadini passavano, ti canzonavano allegramente: carciofi e non gigli, cavolfiori e non violette, pomodori e non garofani dovresti coltivare, Eleonora, che la bellezza non si mangia e la terra a questo serve, a riempire stomaci vuoti, non anime sensibili! E tu sorridevi timidamente e carezzavi i petali morbidi ben sapendo in cuor tuo che senza cibo si può morire ma senza bellezza invano si vivrebbe. Tuo padre affidava ai solchi i semi del suo rimpianto, che producono frutto, ma solo al prezzo d’una dolente solitudine. E non aveva coraggio di sottrarti quel rettangolo di colori anche se sarebbe stato necessario: vi girava attorno con la zappa, e non lo violava. Di tua madre, quello solo restava: il profumo delle rose che si spargeva tra le piante di fagiolo e le zucchine. Prosa e poesia di sere sempre uguali. Ma poi, nella stagione dei cieli grigi, arrivò il momento d’andare via. Nessuno sa perché, ma tutti sanno come, e quanta pena costa. Lui non disse una parola: custodì come cosa preziosa la tua mano bambina tra le dita ruvide da mezzadro e ti portò via. Attraverso il velo delle lacrime vedesti per l’ultima volta il tuo giardino, Eleonora: e quello che venne con te fu solo uno sfocato ricordo. Il tuo giardino abbandonato, sopravvisse solo qualche mese, prima che le fate venissero scacciate con trattori e aratri. Ma da allora, ogni anno, i fiori selvatici, il tasso barbasso e il cardo, la margherita e l’elicriso, sbocciano dov’era un tempo il tuo piccolo eden… |
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