Le recenti proteste del mondo dello spettacolo, dell'arte e della cultura (a cui in fondo sento di appartenere) mi hanno fatto molto riflettere. Durante questa pandemia, il ruolo della cultura è stato narrato senza il solito velo di ipocrisia. Se ci sono stati ministri che hanno potuto dichiarare che "con la cultura non si mangia" - con conseguenti polemiche - oggi vediamo che alla fine anche chi contestava quelle assurde affermazioni - in fondo, in fondo - le condivideva in gran parte. Infatti, la cultura non è vista come un settore economico (una vera e propria industria) di fondamentale importanza (e già questo è grave), ma nemmeno per quello che è davvero: la "cosa" più importante che abbiamo. Se si cerca di salvare palestre e centri estetici, discoteche e sale giochi, non altrettanto si fa con cinema e teatri, e con tutti quei luoghi o quelle iniziative legata appunto alla cultura. In fondo, si pensa, non sono "beni indispensabili" come il benessere del corpo o il divertimento ma soprattutto l'industria, l'economia, il "consumo". Nella migliore delle ipotesi, visto che la gente deve restare a casa, la cultura diventa "un passatempo", qualcosa che serve a non annoiarsi troppo, un'alternativa (ma secondaria) ai videogiochi. Questo fa a pugni con la mia profonda convinzione che la cultura nelle sue molte sfaccettature sia invece la ragione stessa della nostra vita, quel che la rende degna di essere vissuta, il filtro attraverso cui possiamo guardare al mondo, alla bellezza della natura o alla bellezza del pensiero, con la possibilità se non di comprenderlo, almeno di accettarlo e farlo nostro. Così, mi è venuta in mente una poesia che avevo scritto qualche anno fa. In vita mia ho pubblicato una sola raccolta in versi ("Storie in punta di piedi"): si tratta di poesie che narrano di alcuni luoghi che ho visitato per il mio progetto fotografico "Una Momentanea Eternità" e che mi hanno ispirato delle storie, anzi mi hanno fatto percepire delle "presenze", quelle dell'ultima persona che è andata via dal luogo stesso e che - nella mia immaginazione - viene condannata a rimanervi come spirito. Si tratta di località della Tuscia, alcune famose altre molto meno, alcune insignificanti, come quella legata alla storia del "Giardino di Eleonora".
Durante i miei giri in bici sono spesso passato davanti al rudere che vedi nella foto in alto (una fotografia stenopeica) che, in primavera, è circondato da una folta fioritura. E mi è nata l'idea di questa bambina, che viveva col padre nel casale quando era ancora in piedi, e che aveva la passione di coltivare fiori, in un'epoca e in contesto in cui solo ciò che aveva valore economico (di sussistenza) poteva avere un significato. Nella mia mente Eleonora rappresenta la parte di noi che sa bene che senza pane si potrebbe morire di fame, ma che senza bellezza si vivrebbe invano. Mi sembra una storia appropriata, e dunque la propongo qui sotto, dedicandola a tutti coloro che vivono di cultura, che la amano, che la apprezzano, che ne riconoscono il valore, e che ora soffrono più di altri a vederla considerata così poco. Il giardino di Eleonora Nel pallore esangue di un’esausta primavera, guardavi con intensità le farfalle posarsi di corolla in corolla come fiori volanti tra i fiori del tuo giardino, Eleonora. E avevi nome da regina, sebbene il tuo regno non avesse per confini che quel piccolo quadrato di terra colmo di rose e violette, garofani e gigli candidi, dove solo le fate potevano contestare, forse, il tuo dominio. Accanto al casale arcigno coltivavi insieme ai fiori anche i tuoi sogni, ed entrambi crescevano floridi, all’ombra d’un destino incerto. E quando i contadini passavano, ti canzonavano allegramente: carciofi e non gigli, cavolfiori e non violette, pomodori e non garofani dovresti coltivare, Eleonora, che la bellezza non si mangia e la terra a questo serve, a riempire stomaci vuoti, non anime sensibili! E tu sorridevi timidamente e carezzavi i petali morbidi ben sapendo in cuor tuo che senza cibo si può morire ma senza bellezza invano si vivrebbe. Tuo padre affidava ai solchi i semi del suo rimpianto, che producono frutto, ma solo al prezzo d’una dolente solitudine. E non aveva coraggio di sottrarti quel rettangolo di colori anche se sarebbe stato necessario: vi girava attorno con la zappa, e non lo violava. Di tua madre, quello solo restava: il profumo delle rose che si spargeva tra le piante di fagiolo e le zucchine. Prosa e poesia di sere sempre uguali. Ma poi, nella stagione dei cieli grigi, arrivò il momento d’andare via. Nessuno sa perché, ma tutti sanno come, e quanta pena costa. Lui non disse una parola: custodì come cosa preziosa la tua mano bambina tra le dita ruvide da mezzadro e ti portò via. Attraverso il velo delle lacrime vedesti per l’ultima volta il tuo giardino, Eleonora: e quello che venne con te fu solo uno sfocato ricordo. Il tuo giardino abbandonato, sopravvisse solo qualche mese, prima che le fate venissero scacciate con trattori e aratri. Ma da allora, ogni anno, i fiori selvatici, il tasso barbasso e il cardo, la margherita e l’elicriso, sbocciano dov’era un tempo il tuo piccolo eden…
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