Questo presumo sarà il post più impopolare che abbia mai scritto. Fa niente, in tutta coscienza il mio scopo è offrire spunti di riflessione, poi ognuno - come sosteneva Henry David Thoureau - "è garante di se stesso". Il punto di partenza del mio ragionamento è che i fotografi - in larga maggioranza - pensano che per fare belle fotografie occorra viaggiare. Alcuni di loro scattano fotografie solo quando sono altrove rispetto alla propria abitazione, possibilmente molto, molto lontano. Il fenomeno non è certo nuovo, ma solo oggi deve fare i conti con il costo ambientale di simili pratiche. Pensare a progetti fotografici che impongano di viaggiare da un capo all’altro del mondo dovrebbe anche spingere a fare due calcoli. Un aereo immette in atmosfera (oltretutto in quota) quantità immense di idrocarburi e gas serra. Si calcola che ogni singolo aereo in volo inquini come 600 auto Euro 0. Dal 2025 il traffico aereo da solo immetterà in atmosfera, ogni anno, 1,4 miliardi di tonnellate di Co2. Dunque diventa particolarmente ironico che spesso simili progetti fotografici sono concepiti appunto per denunciare i mutamenti climatici o le problematiche ad essi correlate. In pratica è come se un fotoreporter si mettesse a lanciare un po’ di bombe in uno scenario di guerra prima di scattare. Eppure di progetti simili ne vedo parecchi, e pochi di loro assumono una rilevanza tale da diventare decisivi quando si tratta di ottenere dei risultati concreti, ad esempio presso i politici. Altri tempi quando grazie alle proprie foto Ansel Adams riusciva a creare aree protette o a salvare luoghi incontaminati! Mi sono sempre chiesto, ad esempio, perché simili progetti non possano essere ideati mettendo in rete i fotografi locali: se intendo testimoniare gli effetti della desertificazione, posso contattare fotografi in ogni parte del mondo che sia colpita dal fenomeno - non è questo il bello di Internet? - creando poi un progetto collettivo. Ciascun fotografo viaggerebbe a corto o medio raggio, restando comunque all’interno della propria “area di competenza”. Questo, oltretutto, permetterebbe a ciascun autore di realizzare foto con molta più calma e partecipazione. Ma lo so, il fotografo “vuole fare da se” ciascuna fotografia, anche se non necessario, specialmente per progetti ad alto contenuto giornalistico. A onor del vero ci sono numerosi artisti – e molti di loro è dura definirli fotografi sebbene utilizzino la fotografia – che sfruttano l’enorme massa di immagini disponibili online per concretizzare le loro idee, divenendo dunque “catalogatori” o “rivelatori di senso” e rinunciando all’aspetto manuale, artigianale della pratica artistica. In fondo ci sono miliardi di fotografie che ogni anno si aggiungono nell’immenso archivio virtuale di Internet. Davvero c’è bisogno di aggiungerne altre? sembrano chiedersi questi autori, o piuttosto non è preferibile cominciare a “utilizzarle” secondo quel processo che molti definiscono “appropriazione” ma che il fotografo, curatore e artista Joan Fontcuberta chiama piuttosto “adozione”? «Appropriarsi di qualcosa significa “catturarlo”, adottarlo significa invece “dichiarare di aver scelto”. Nell’adozione prevale l’atto dello scegliere su quello del privare. Adottare, quindi, mi sembra un proposito genuinamente postfotografico: non si reclama tanto la paternità biologica di un’immagine, quanto la sua tutela ideologica (cioè la prescrizione di senso)» scrive Fontcuberta in “La furia delle Immagini”. Ma anche i progetti realizzati "ex novo", specialmente se molto creativi, di rado richiedono grandi viaggi, come dimostrano le esperienze dello stesso Adams, o di Weston o di Minor White che spesso nemmeno usciva di casa, così come di Josef Sudek, che realizzava i propri capolavori in cucina o in giardino, o nella propria città, Praga (lo stesso vale per Atget e Parigi). Indubbiamente il fotogiornalista che insegue i fatti di cronaca fa eccezione, ma quanti ne conosci? La stragrande maggioranza dei fotografi potrebbe viaggiare pochissimo e ottenere risultati migliori: anche questo è impopolare ma, se ci pensi, è così. Viaggiare è piacevole e divertente, ma in un’epoca di crisi climatica dovremmo almeno pensarci su, se non altro per ridurre drasticamente i viaggi in aereo, accorciando le distanze. A un’ora dalle grandi città ci sono luoghi incredibilmente belli, tutti da esplorare. E i luoghi più lontani possono essere raggiunti in treno, ovviamente stabilendo una durata più lunga del viaggio. Ma uccidere il pianeta per fare un weekend lungo a Parigi, Londra o addirittura New York – approfittando dei voli LowCost – è una follia che non possiamo più permetterci (come quella dei pacchi che arrivano in un giorno con le merci ordinate online, di cui forse parlerò in un prossimo post). Vorrei sottolineare anche un altro fenomeno: oggi i posti “belli” sono sempre considerati da un'altra parte. A volte è solo un’illusione, ma spesso è vero. Nel senso che la gran parte della popolazione vive in città di cemento e asfalto, soffocate dal traffico e sovrappopolate. Ovvio che si abbia il desiderio di “evadere”. Si è talmente convinti che oramai a due passi dalla città non ci sia nulla che valga davvero la pena di vedere, che si finisce per non muovere un dito quando questi luoghi - che invece esistono, eccome - vengono messi in pericolo o distrutti dallo sviluppo edilizio o dalle speculazioni agrarie. Uno si aspetterebbe che ci vive, in certi quartieri, faccia una rivoluzione quando l'area verde più prossima è in pericolo, ma la verità è che molti dei residenti conoscono magari un bosco a duecento chilometri di distanza, ma ignorano quello a due chilometri da casa! Dunque conoscere, apprezzare e fotografare i luoghi più prossimi è già di per sé un impegno civile e ambientale di alto valore. Quando abitavo vicino Roma ero ben consapevole di questo fenomeno. Per questo ho realizzato un ampio progetto – diventato una mostra finanziata dalla Regione Lazio – sulla Campagna Romana (e un libro dal significativo titolo “Tutt’Intorno Roma”) facendo perno sul Foro Romano e descrivendo una circonferenza col raggio di 90 Km, per poi fotografare i luoghi interessanti e spettacolari all’interno di questo spazio, ovviamente escludendo la città vera e propria. Con mia sorpresa (e sorpresa di chi poi ha letto il libro e visto la mostra) ci sono davvero località incredibili, addirittura selvagge, con resti archeologici quasi dimenticati. Molto più interessanti di quelli che molti fotografi raggiungono facendosi due ore di auto (di più al ritorno, trovando il traffico del “rientro”). E’ solo un esempio, sicuramente Milano, Torino, Napoli o Palermo hanno situazioni simili. Basta cercare. Ma vorrei anche far presente che i luoghi ancora più o meno intatti (storici, naturalistici, archeologici) non possono a lungo sopportare la pressione antropica che specialmente in certe stagioni li assale. Per questo bisogna da un lato ridurre l’assalto, ma dall’altro fare in modo che tutto il “mondo” sia bello e piacevole, almeno un po'. Queste aree più "quotidiane" potrebbero fare da cuscinetto, assorbire una parte dell'impatto legato alla voglia di "vita all'aria aperta" della gente, riducendo la pressione sui siti più preziosi. Impossibile? Difficile, forse, ma non impossibile. Ci sono mille esempi di restauro paesaggistico e naturalistico, e mi viene in mente il meraviglioso CHM della LIPU a Ostia: dove c’era solo degrado, rifiuti e capannacce, oggi c’è un’area umida dove i fotografi possono realizzare facilmente foto - anche a specie animali rare - che un tempo richiedevano lunghi spostamenti. Senza nemmeno uscire da Roma! Perciò, volendo, si può fare. Ora ti spiego perché ho sempre avuto questa “fissa” dei viaggi brevi. Quando ero ragazzino, vivevo con la mia famiglia ad Anzio Colonia, una frazione della cittadina balneare a sud di Roma. Un luogo – francamente – bruttino, senz’anima. E mi ricordo mio padre che mi raccontava – lui, classe 1914 – di quando con gli scout, intorno agli anni ’30, andavano dal centro di Anzio (allora un meravigliosa cittadina di pescatori, con villette stile liberty frequentate dalle stelle del cinema) – a piedi – sino a dove era ora la nostra casa (e centinaia di altre palazzine anonime), piantando le tende nelle radure del bosco, che vegetava sulla scogliera a picco sul mare. La scogliera c’è ancora, ma sotto, sulla spiaggia, hanno costruito altri villini: ognuno vuole avere casa la più vicina possibile al mare! Da allora, quei racconti, hanno creato in me la nostalgia di un mondo in cui, uscendo di casa anche a piedi, si può varcare una sorta di soglia ed entrare nella natura e nella bellezza. Certo, sono consapevole che non sarebbe stato possibile mantenere tutto come allora, ma sono altresì certo che si sarebbe potuto gestire il tutto in maniera oculata, ad esempio vietando le costruzioni a ridosso della costa, e studiando il loro inserimento nel paesaggio, per ottenere oltretutto quartieri verdi e vivibili. Insomma, senza lasciare mano libera alla più bieca speculazione edilizia. Non credo sia un caso se gran parte dei politici locali di mestiere faccia il costruttore! Oggi, grazie alla diffusione delle automobili, ci hanno convinto che non importa vivere in luoghi poco attraenti, con un’ora di guida si può andare “altrove”. E mi sono sempre chiesto: se la bellezza fosse a portata di mano, perché andare altrove? Viaggiare è bello, e non sono certo contro il viaggio, se ben concepito. Ma oggi ci si sposta continuamente, magari solo per un fine settimana, o per un rapido viaggio di una o due settimane. Non sarebbe meglio organizzare qualcosa di più significativo – per noi fotografi, anche dal punto di vista delle realizzazione di un progetto – e viaggiare solo quando le condizioni sono quelle giuste, prendendo magari un mese di ferie (o un anno sabbatico) e fermandosi nei luoghi a lungo, in modo da ottenere davvero delle fotografie profonde e vissute? Era esattamente quel che faceva Ansel Adams, che durante l’anno lavorava come fotografo commerciale per racimolare i fondi per stare poi anche due-tre mesi nel parco di Yosemite, inseguendo le sue immagini. Insomma, viaggiare meno, ma meglio. Avendo più tempo, si possono utilizzare mezzi più lenti, come il treno, appunto, ricorrendo all’areo solo per le località davvero troppo lontane, sebbene viaggiare una decina di giorni su una nave che attraversi l’oceano (come fece Stieglitz, cosa che gli permise di realizzare “The Steerage”, il ponte di terza classe, la sua foto più famosa) possa offrire spunti niente male! Penso anche ai viaggi che Roberto Salbitani faceva, e fa tutt’ora, su treni e autobus. Recentemente l’ho incontrato a SorianoImmagine e raccontava che volevano andarlo a prendere alla stazione di Viterbo per portarlo nella cittadina dove si svolgeva il festival, ma lui si è opposto decisamente: voleva prendere l’autobus per fare esperienze interessanti, conoscere gente, vedere il mondo vero, non quello che si scorge oltre il vetro di un parabrezza. Ci sarà un motivo per cui tutti questi fotografi li consideriamo maestri, esempi da seguire, o no? Ti lascio con un piccolo regalino: un piccolo ebook "contro il turismo". Ovviamente è ironico, ma spero serva comunque a far riflettere!
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