MARCO SCATAGLINI
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Creatori di Paesaggi

4/11/2021

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Raccontare il paesaggio è sempre qualcosa di affascinante. Sarà che sto lavorando al mio nuovo corso sulla fotografia di Paesaggio (per Reflex-Mania) - di cui parlerò a tempo debito - o sarà che sto leggendo un libro di Minor White, che nel confondere le idee a volte è un maestro, ma sta di fatto che solo ora, forse, mi rendo conto di quanto vario e multiforme sia questo genere fotografico. Insomma, si fa presto a dire "paesaggio"!
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A prescindere dalle molte considerazioni che potremmo fare sul termine stesso, e restando strettamente in ambito fotografico, il paesaggio è qualcosa che viene creato dallo spettatore: senza qualcuno "che guarda" esisterebbe un territorio, ma non un paesaggio. E noi fotografi abbiamo anche il privilegio di fermare ed eternalizzare questo sguardo, creando una fotografia che indubbiamente - più anche di un dipinto - rappresenta qualcosa che nasce dall'incontro tra l'attenzione umana (così soggettiva) e il territorio geografico (che invece è un insieme definibile e oggettivo di caratteristiche fisiche).

La scena qui sopra esisterebbe a prescindere, anche senza nessuno che si fermi a guardarla, ma ora che io l'ho fotografata esiste anche al di là del singolo spettatore: tutti coloro che la guarderanno in questo post potranno far vivere quel paesaggio per interposta persona, che non è affatto una cosa da poco.

Ma, ovviamente, il paesaggio fotografato - con il cormorano che si asciuga le ali, il salice piangente e il borgo di Capodimonte - non è qualcosa che è davvero esistito, nel senso che solo la mia sensibilità e cultura, la modalità con cui ho scelto di riprenderlo, la mia posizione nello spazio e mille altri elementi lo hanno "fermato" per come lo si vede, ma centinaia di persone che fossero passate in quel momento e in quel luogo lo avrebbero visto diverso. O non lo avrebbero visto affatto.

E' questo il grande inganno della fotografia. Non è mai testimone, non è mai oggettiva, è sempre e solo un'interpretazione. Sembra capace di far esistere una realtà - di cui rappresenterebbe la testimonianza - e invece nisba, quella realtà non esiste affatto, sebbene è chiaro che sono esistiti (e spero ancora esistano) i singoli elementi che nella scena sono rappresentati.

Dunque parlare di paesaggio è davvero qualcosa di sfuggente. Tutti (ma tutti tutti) i paesaggi che ho fotografato e ho visto fotografati dagli altri (ad esempio quelli amazzonici di Salgado) non sono esistiti mai, sebbene il territorio che è stato "utilizzato" per creare le foto ovviamente esista davvero. Ma questa illusione, questa menzogna epocale che tanto amiamo e chiamiamo fotografia, ci prende sempre in giro, non si lascia afferrare. 

Citavo Minor White, e a ragione. Perché riflettendo sulle sue serie, sull'editing che è servito a organizzare le foto del grande fotografo americano, continuava a sfuggirmi la ratio, il senso, la logica. Insomma, il filo. Non del tutto, a dire il vero, ma il fatto che White aggiunga foto di persone a una serie sul paesaggio, o che passi dal nudo ai dettagli di textures un po' mi spiazzava. Ma poi ho capito che proprio questo, io credo, è il pregio del suo lavoro: che riproduce il processo creativo che noi fotografi spesso facciamo inconsapevolmente. E che non è mai lineare, procede a zig zag e si intreccia con mille altri elementi. Perché se il paesaggio per esistere richiede uno spettatore, allora quel che lo spettatore si porta dentro, il modo in cui il suo sguardo è stato educato, partecipa alla creazione dell'idea stessa che abbiamo di un luogo, o di luoghi tra loro connessi, o di emozioni legate a dei luoghi.
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Stamattina, camminando tra grandi capannoni industriali - ero in un posto del genere per un mio progetto - ho percepito con chiarezza quanta importanza abbia il modo in cui noi vediamo le cose, come le introiettiamo, le sentiamo nostre. Questi grandi tubi mi sono sembrate le dita di una mano intenta a cercare di afferrare un oggetto squadrato.

Soprattutto, ho percepito perché lo stesso White alternava fotografie di spazi naturali - come Point Lobos o le grandi montagne sullo sfondo dello Snake River -  a quelle di ciminiere e grandi impianti industriali. Penso sia l'idea che comunque le forme naturali come quelle artificiali possono fornire al fotografo soggetti intriganti, com'è ovvio, ma anche la consapevolezza che dobbiamo accettare il mondo per come è, non colorarlo come si fa oggi con Photoshop, non farlo apparire selvaggio e solitario quando non lo è, se non in minima parte.

Soprattutto occorre aprire la mente, e indagare - prima ancora che il mondo davanti ai nostri occhi - il vasto e sconfinato mondo interiore, che di quello è un riflesso, certo, ma che poi riesce (almeno per noi) anche a cambiarlo. Così mi son reso conto che noi fotografi possiamo modellare la realtà. La modifichiamo per davvero, grazie alle fotografie.

Sono certo che guardando certi luoghi famosi, alla fine ognuno di noi non lo vede davvero per quel che è, ma come è venuto "creandosi" attraverso migliaia, o milioni, di fotografie. Al punto che pare difficile decidere come siano il Colosseo o la Torre Eiffel, il Big Ben o il Taji Mahal nella realtà. Sempre li vedremo come nelle foto pubblicate online, o in quelle realizzate da Steve McCurry e da altri fotografi "popolari".

Non so se questo sia un bene, ma di certo fotografare i luoghi e trasformarli in paesaggi è un'operazione che i più credono semplice, quasi di routine. Invece è qualcosa di complesso e strutturato, che richiede cura, attenzione e una profonda empatia.
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SSP (Small Sensor Photography)

29/9/2021

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Quando nel 1925 venne presentata, alla fiera di Lipsia, la mitica Leica con i suoi negativi 24x36 mm, la gran parte dei fotografi la ritennero inadatta a fare lavori "seri". Troppo piccola la superficie del negativo per ottenere stampe di qualità, meglio il 6x6 o il 6x9 o addirittura formati maggiori!

All'epoca imperavano fotocamera grandi e impegnative, come la Ermanox utilizzata da Erich Salomon per immortalare i politici nei loro "incontri segreti" o la Graflex a soffietto, un vero comodino dotato di obiettivo. 

​I fotografi che intuirono subito le potenzialità del piccolo formato faticarono non poco a superare l'ostilità di editori e agenzie, che esigevano negativi grandi, "di qualità", con l'idea che le foto sarebbero apparse più incise, una volta pubblicate. Presumo sia (anche) per questo che Henri Cartier-Bresson se ne uscì con la famosa frase "la nitidezza è un concetto borghese": insomma un orpello, una decorazione, qualcosa di superficiale, una sovrastruttura che nulla ha a che fare con il valore della foto stessa.
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Ad ogni modo poi il 24x36 mm ha vinto la sua battaglia, complici i miglioramenti tecnologici, e anzi oggi viene considerato il formato "grande", quando parliamo di sensori digitali. E' vero che esistono fotocamere digitali con sensori molto più grandi, il cosiddetto "super Full Frame" utilizzato ad esempio da Fuji e Hasselblad, ma sono costose e riservate davvero a una nicchia, viceversa il "Full Frame" è considerato lo standard professionale, quello in grado di dare l'agognata qualità alle nostre fotografie. Dunque, per uno strano gioco del destino, oggi il formato Leica gioca il ruolo del fratello maggiore e sono i formati più piccoli (a cominciare dall'APS-C) a recitare il ruolo di formati "inadatti".

E' un vecchio vizio dei fotografi quello di inseguire la qualità tecnica, a volte dimenticando quella intrinseca, creativa, culturale o anche artistica delle foto. E questo anche se non si cerca di imitare Ansel Adams con stampe piene di dettaglio.

Come sempre questa tendenza ha un costo, anche ambientale. Produrre il silicio - componente base dei sensori - richiede grandi quantità di energia, e molta energia serve anche per la produzione del sensore vero e proprio e più il sensore è grande (e cresce anche l'elettronica che deve supportarlo) più l'impatto ambientale è alto, come in tutte le cose. Ovviamente non parliamo certo di un problema grave come le emissioni dell'industria o dei trasporti, ma ad ogni modo con la superficie di un sensore Full Frame si possono produrre quattro sensori Micro 4/3, otto sensori da un pollice e così via. 

Ma non solo: è tutta la "catena" produttiva della foto che con sensori piccoli ha un'impronta ecologica più bassa, e in effetti questo è intuitivo. In genere non si hanno "montagne" di megapixel da gestire, si producono file leggeri che sono facilmente lavorabili con computer anche non modernissimi e che poi occupano poco spazio una volta immessi in Rete. 
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Ma ci sono aspetti prettamente fotografici che dovrebbero farci prendere in considerazione i piccoli sensori e parlo di quelli davvero piccoli: inferiori a 1" (un pollice, 13,2x8,8 mm). Sensori di 6x5 mm (6,17x4,55 per la precisione se parliamo di sensori da 1/2.3"), ad esempio, come quelli presenti negli Smartphone, nelle Action Cam, nelle Superzoom.

Consumano poca energia, si scaldano poco e oggi riescono a creare fotografie straordinariamente di qualità. Ma la cosa più importante è quello che possono aggiungere alle nostre foto. Basta considerare le loro caratteristiche come dei pregi e non dei difetti: una notevole profondità di campo a parità di angolo di campo o una texture dovuta al rumore ma anche alla "grana" stessa del sensore che dà alle foto un qualcosa di analogico. Certo, deve piacere: a me piace molto, ad esempio!

Inoltre gli obiettivi utilizzati sulle fotocamera a sensore piccolo hanno una luminosità straordinaria ma un ingombro e peso irrisorio se pensiamo alla lunghezza focale: ci sono bridge superzoom (come le Panasonic) che montano obiettivi da 24-600 con un diaframma fisso di f/2.8 su tutta la gamma. Sai quanto peserebbe un obiettivo 600 mm f/2.8 per il Full Frame? Per non parlare del costo.

Ma, mi dirai, vuoi mettere la qualità? 

Senza dubbio. Ma considera che le foto fatte a 600 mm con questo tipo di fotocamera (ma anche le riprese subacquee col fish-eye possibili con una Action Cam o quelle aeree con un drone) non esisterebbero altrimenti, sia perché non tutti possiedono (o possono permettersi) un teleobiettivo "vero", sia perché comunque non se lo porterebbero in giro, magari andando in bicicletta o in escursione. E una foto che esiste è sempre di qualità migliore di una che non esiste!
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Inoltre alcune di queste fotocamere comunque fanno ottime fotografie utilizzabili anche per buoni ingrandimenti, e dunque valide per il 90% dei potenziali utilizzi. Naturalmente a patto di dedicare un po' di attenzione ad alcuni aspetti, che elenco qui sotto.
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  • Scattare in RAW - Se si sceglie una fotocamera a sensore piccolo e si intende utilizzarla "seriamente", meglio lasciar stare il jpeg, dato che queste fotocamere lo "lavorano" in modo eccessivo, eliminando i dettagli per mantenere il file "pulito". Occorre invece scegliere modelli che abbiano appunto il formato grezzo, cosa non sempre facile. Molte "superzoom" (bridge camera) ne sono sprovviste (ad esempio le Sony), mentre ci sono costruttori che lo inseriscono sempre (come Panasonic). Nelle Action Cam il problema è ancora più pregnante: sono pochissime quelle dotate del RAW, nemmeno tutti i modelli di GoPro ne sono forniti, e spesso la cosa non è indicata con chiarezza, dunque occhio. Lo stesso discorso vale per i droni (a eccezione di quelli professionali su cui si possono montare anche delle "vere" fotocamere), spesso dotati di buone fotocamere integrate, ma raramente con il RAW. Per gli smartphone la faccenda è un po' meno complessa perché spesso (ma non sempre) se anche non hanno il RAW è possibile installare delle app che "sbloccano" questa possibilità.
  • Utilizzare solo 100 ISO - Quasi tutte le fotocamere a sensore piccolo sono impostate su ISO auto, una vera disgrazia. Per evitare il mosso, l'algoritmo interno alza gli ISO, nella certezza che visto che si scatterà in jpeg si potrà eliminare il rumore via software. Il risultato sono foto inutilizzabili. Dunque, dopo aver impostato il RAW, occorre anche  - via menu - scegliere i 100 ISO e non muoversi da lì se non per casi estremi (mai comunque sopra i 400 ISO). I pixel sono molto "compressi" su un sensore da frazioni di pollice e dunque la "grana" è subito visibile. Meglio ricorrere al treppiedi per evitare problemi di nitidezza.
  • Mai sottoesporre (ma nemmeno sovraesporre) - La gamma dinamica dei piccoli sensori è sempre abbastanza ridotta, e questo obbliga a delle scelte, a volte dolorose. Evita però di esporre direttamente per le luci, perché le ombre non sarebbero più recuperabili, se non a costo di un degrado molto evidente con la comparsa anche di rumore cromatico, nello stesso tempo attento al "light clipping", alle alteluci bruciate, anche in quel caso irrecuperabili. Questo sembrerebbe un aspetto davvero inaccettabile, ma in realtà si impara presto a gestire quel poco di gamma che si ha a disposizione, o a ricorrere - in casi estremi - all'HDR presente in questo genere di fotocamere (il più delle volte).
  • Componi con attenzione - Diciamo con attenzione maggiore rispetto a quanto faresti con altre fotocamere, dove hai sicuramente più pixel e una maggiore resa, dunque puoi "croppare" generosamente, cosa che con i sensori piccoli è fattibile, ma senza esagerare.
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Ora, ti potrebbe sembrare che davvero il ricorso a certe fotocamere (o allo smartphone) come strumento di lavoro serio sia ai limiti dell'accettabile. In effetti riconosco che tanto questi "device" sono progettati per essere utilizzati "senza pensarci troppo su" tanto per usarli bene occorre invece prestare attenzione a mille dettagli, neanche fossero dei banchi ottici!

Ma personalmente è questo quel che mi affascina: ottenere buoni risultati superando i limiti della fotocamera e sfruttandola al massimo, e nel contempo risparmiando sulle spese di acquisto, dando un piccolo (ma tutto fa) contributo alla salvaguardia dell'ambiente. Io fossi in te ci fare un pensierino. Oltretutto pescando online puoi trovare offerte nell'usato a prezzi stracciati, e con poco ci si può divertire. Ma attento: a volte si crea dipendenza!
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Il fotografo viaggiatore

10/9/2021

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Questo presumo sarà il post più impopolare che abbia mai scritto. Fa niente, in tutta coscienza il mio scopo è offrire spunti di riflessione, poi ognuno - come sosteneva Henry David Thoureau - "è garante di se stesso". 

Il punto di partenza del mio ragionamento è che i fotografi - in larga maggioranza - pensano che per fare belle fotografie occorra viaggiare.

Alcuni di loro scattano fotografie solo quando sono altrove rispetto alla propria abitazione, possibilmente molto, molto lontano. Il fenomeno non è certo nuovo, ma solo oggi deve fare i conti con il costo ambientale di simili pratiche.
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Pensare a progetti fotografici che impongano di viaggiare da un capo all’altro del mondo dovrebbe anche spingere a fare due calcoli. 
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Un aereo immette in atmosfera (oltretutto in quota) quantità immense di idrocarburi e gas serra. Si calcola che ogni singolo aereo in volo inquini come 600 auto Euro 0. Dal 2025 il traffico aereo da solo immetterà in atmosfera, ogni anno, 1,4 miliardi di tonnellate di Co2.

Dunque diventa particolarmente ironico che spesso simili progetti fotografici sono concepiti appunto per denunciare i mutamenti climatici o le problematiche ad essi correlate. In pratica è come se un fotoreporter si mettesse a lanciare un po’ di bombe in uno scenario di guerra prima di scattare.

Eppure di progetti simili ne vedo parecchi, e pochi di loro assumono una rilevanza tale da diventare decisivi quando si tratta di ottenere dei risultati concreti, ad esempio presso i politici. Altri tempi quando grazie alle proprie foto Ansel Adams riusciva a creare aree protette o a salvare luoghi incontaminati!

Mi sono sempre chiesto, ad esempio, perché simili progetti non possano essere ideati mettendo in rete i fotografi locali: se intendo testimoniare gli effetti della desertificazione, posso contattare fotografi in ogni parte del mondo che sia colpita dal fenomeno - non è questo il bello di Internet? - creando poi un progetto collettivo. 

Ciascun fotografo viaggerebbe a corto o medio raggio, restando comunque all’interno della propria “area di competenza”. Questo, oltretutto, permetterebbe a ciascun autore di realizzare foto con molta più calma e partecipazione. Ma lo so, il fotografo “vuole fare da se” ciascuna fotografia, anche se non necessario, specialmente per progetti ad alto contenuto giornalistico. 
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A onor del vero ci sono numerosi artisti – e molti di loro è dura definirli fotografi sebbene utilizzino la fotografia – che sfruttano l’enorme massa di immagini disponibili online per concretizzare le loro idee, divenendo dunque “catalogatori” o “rivelatori di senso” e rinunciando all’aspetto manuale, artigianale della pratica artistica.

In fondo ci sono miliardi di fotografie che ogni anno si aggiungono nell’immenso archivio virtuale di Internet. Davvero c’è bisogno di aggiungerne altre? sembrano chiedersi questi autori, o piuttosto non è preferibile cominciare a “utilizzarle” secondo quel processo che molti definiscono “appropriazione” ma che il fotografo, curatore e artista Joan Fontcuberta chiama piuttosto “adozione”?

«Appropriarsi di qualcosa significa “catturarlo”, adottarlo significa invece “dichiarare di aver scelto”. Nell’adozione prevale l’atto dello scegliere su quello del privare. Adottare, quindi, mi sembra un proposito genuinamente postfotografico: non si reclama tanto la paternità biologica di un’immagine, quanto la sua tutela ideologica (cioè la prescrizione di senso)» scrive Fontcuberta in “La furia delle Immagini”.
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Ma anche i progetti realizzati "ex novo", specialmente se molto creativi, di rado richiedono grandi viaggi, come dimostrano le esperienze dello stesso Adams, o di Weston o di Minor White che spesso nemmeno usciva di casa, così come di Josef Sudek, che realizzava i propri capolavori in cucina o in giardino, o nella propria città, Praga (lo stesso vale per Atget e Parigi). 

Indubbiamente il fotogiornalista che insegue i fatti di cronaca fa eccezione, ma quanti ne conosci? La stragrande maggioranza dei fotografi potrebbe viaggiare pochissimo e ottenere risultati migliori: anche questo è impopolare ma, se ci pensi, è così. Viaggiare è piacevole e divertente, ma in un’epoca di crisi climatica dovremmo almeno pensarci su, se non altro per ridurre drasticamente i viaggi in aereo, accorciando le distanze. 

A un’ora dalle grandi città ci sono luoghi incredibilmente belli, tutti da esplorare. E i luoghi più lontani possono essere raggiunti in treno, ovviamente stabilendo una durata più lunga del viaggio. Ma uccidere il pianeta per fare un weekend lungo a Parigi, Londra o addirittura New York – approfittando dei voli LowCost – è una follia che non possiamo più permetterci (come quella dei pacchi che arrivano in un giorno con le merci ordinate online, di cui forse parlerò in un prossimo post).

Vorrei sottolineare anche un altro fenomeno: oggi i posti “belli” sono sempre considerati da un'altra parte.

A volte è solo un’illusione, ma spesso è vero. Nel senso che la gran parte della popolazione vive in città di cemento e asfalto, soffocate dal traffico e sovrappopolate. Ovvio che si abbia il desiderio di “evadere”. Si è talmente convinti che oramai a due passi dalla città non ci sia nulla che valga davvero la pena di vedere, che si finisce per non muovere un dito quando questi luoghi - che invece esistono, eccome - vengono messi in pericolo o distrutti dallo sviluppo edilizio o dalle speculazioni agrarie. Uno si aspetterebbe che ci vive, in certi quartieri, faccia una rivoluzione quando l'area verde più prossima è in pericolo, ma la verità è che molti dei residenti conoscono magari un bosco a duecento chilometri di distanza, ma ignorano quello a due chilometri da casa! Dunque conoscere, apprezzare e fotografare i luoghi più prossimi è già di per sé un impegno civile e ambientale di alto valore. 
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Quando abitavo vicino Roma ero ben consapevole di questo fenomeno. Per questo ho realizzato un ampio progetto – diventato una mostra finanziata dalla Regione Lazio – sulla Campagna Romana (e un  libro dal significativo titolo “Tutt’Intorno Roma”) facendo perno sul Foro Romano e descrivendo una circonferenza col raggio di 90 Km, per poi fotografare i luoghi interessanti e spettacolari all’interno di questo spazio, ovviamente escludendo la città vera e propria.

Con mia sorpresa (e sorpresa di chi poi ha letto il libro e visto la mostra) ci sono davvero località incredibili, addirittura selvagge, con resti archeologici quasi dimenticati. Molto più interessanti di quelli che molti fotografi raggiungono facendosi due ore di auto (di più al ritorno, trovando il traffico del “rientro”).

E’ solo un esempio, sicuramente Milano, Torino, Napoli o Palermo hanno situazioni simili. Basta cercare. 

Ma vorrei anche far presente che i luoghi ancora più o meno intatti (storici, naturalistici, archeologici) non possono a lungo sopportare la pressione antropica che specialmente in certe stagioni li assale. Per questo bisogna da un lato ridurre l’assalto, ma dall’altro fare in modo che tutto il “mondo” sia bello e piacevole, almeno un po'. Queste aree più "quotidiane" potrebbero fare da cuscinetto, assorbire una parte dell'impatto legato alla voglia di "vita all'aria aperta" della gente, riducendo la pressione sui siti più preziosi. Impossibile? Difficile, forse, ma non impossibile.
 
Ci sono mille esempi di restauro paesaggistico e naturalistico, e mi viene in mente il meraviglioso CHM della LIPU a Ostia: dove c’era solo degrado, rifiuti e capannacce, oggi c’è un’area umida dove i fotografi possono realizzare facilmente foto - anche a specie animali rare - che un tempo richiedevano lunghi spostamenti. Senza nemmeno uscire da Roma!

Perciò, volendo, si può fare.

Ora ti spiego perché ho sempre avuto questa “fissa” dei viaggi brevi. Quando ero ragazzino, vivevo con la mia famiglia ad Anzio Colonia, una frazione della cittadina balneare a sud di Roma. Un luogo – francamente – bruttino, senz’anima. E mi ricordo mio padre che mi raccontava – lui, classe 1914 – di quando con gli scout, intorno agli anni ’30, andavano dal centro di Anzio (allora un meravigliosa cittadina di pescatori, con villette stile liberty frequentate dalle stelle del cinema) – a piedi – sino a dove era ora la nostra casa (e centinaia di altre palazzine anonime), piantando le tende nelle radure del bosco, che vegetava sulla scogliera a picco sul mare. La scogliera c’è ancora, ma sotto, sulla spiaggia, hanno costruito altri villini: ognuno vuole avere casa la più vicina possibile al mare!

Da allora, quei racconti, hanno creato in me la nostalgia di un mondo in cui, uscendo di casa anche a piedi, si può varcare una sorta di soglia ed entrare nella natura e nella bellezza. Certo, sono consapevole che non sarebbe stato possibile mantenere tutto come allora, ma sono altresì certo che si sarebbe potuto gestire il tutto in maniera oculata, ad esempio vietando le costruzioni a ridosso della costa, e studiando il loro inserimento nel paesaggio, per ottenere oltretutto quartieri verdi e vivibili. Insomma, senza lasciare mano libera alla più bieca speculazione edilizia. Non credo sia un caso se gran parte dei politici locali di mestiere faccia il costruttore!

Oggi, grazie alla diffusione delle automobili, ci hanno convinto che non importa vivere in luoghi poco attraenti, con un’ora di guida si può andare “altrove”. E mi sono sempre chiesto: se la bellezza fosse a portata di mano, perché andare altrove?

Viaggiare è bello, e non sono certo contro il viaggio, se ben concepito. Ma oggi ci si sposta continuamente, magari solo per un fine settimana, o per un rapido viaggio di una o due settimane. Non sarebbe meglio organizzare qualcosa di più significativo – per noi fotografi, anche dal punto di vista delle realizzazione di un progetto – e viaggiare solo quando le condizioni sono quelle giuste, prendendo magari un mese di ferie (o un anno sabbatico) e fermandosi nei luoghi a lungo, in modo da ottenere davvero delle fotografie profonde e vissute? Era esattamente quel che faceva Ansel Adams, che durante l’anno lavorava come fotografo commerciale per racimolare i fondi per stare poi anche due-tre mesi nel parco di Yosemite, inseguendo le sue immagini.

Insomma, viaggiare meno, ma meglio. Avendo più tempo, si possono utilizzare mezzi più lenti, come il treno, appunto, ricorrendo all’areo solo per le località davvero troppo lontane, sebbene viaggiare una decina di giorni su una nave che attraversi l’oceano (come fece Stieglitz, cosa che gli permise di realizzare “The Steerage”, il ponte di terza classe, la sua foto più famosa) possa offrire spunti niente male! 

Penso anche ai viaggi che Roberto Salbitani faceva, e fa tutt’ora, su treni e autobus. Recentemente l’ho incontrato a SorianoImmagine e raccontava che volevano andarlo a prendere alla stazione di Viterbo per portarlo nella cittadina dove si svolgeva il festival, ma lui si è opposto decisamente: voleva prendere l’autobus per fare esperienze interessanti, conoscere gente, vedere il mondo vero, non quello che si scorge oltre il vetro di un parabrezza.
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Ci sarà un motivo per cui tutti questi fotografi li consideriamo maestri, esempi da seguire, o no? 

Ti lascio con un piccolo regalino: un piccolo ebook "contro il turismo". Ovviamente è ironico, ma spero serva comunque a far riflettere!

a_un_tiro_di_schioppo_marco_scataglini.pdf
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La Stampa di una fotografia è un'avventura?

7/8/2021

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In effetti, spesso lo è. Un'avventura, intendo. E questo perché, a differenza di quanto avveniva con la stampa analogica in Bianco e Nero, non è molto "lineare" a livello concettuale almeno. Infatti, entrano in gioco molti elementi diversi, a volte contrapposti.
Ad esempio, noi scattiamo la foto e la guardiamo su un monitor secondo la logica "additiva" RGB (la somma dei tre colori da il bianco), Rosso Verde e Blu. Questi tre colori sono in grado di creare tutti gli altri solo se guardati grazie a un apparato che emetta luce. 
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Ma, lo sappiamo bene, le foto stampate (che siano contenute in un libro o una rivista, o delle stampe da appendere al muro) non emettono luce, bensì la riflettono.
Dunque per la stampa si utilizza la sintesi sottrattiva CMYK (la loro somma da il nero), Ciano Magenta e Giallo, più il nero (indicato con la K finale di Black per non creare confusioni con il Blu). 
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C'è da dire che ognuno dei colori della tricromia è il "negativo" della quadricromia, sono cioè colori complementari (opposti), come si può vedere nello schema qui sotto in cui l'immagine di destra è la triade di sinistra invertita, al negativo.
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A parte questo aspetto, poi, c'è da dire che nella stampa conta anche il problema della resa diversa tra il monitor e la stampante, legata indubbiamente alla "traduzione" che la stampante (o un software) fa della foto in RGB per trasformarla in CMYK, ma anche al fatto che giocoforza un monitor è più luminoso, e apparentemente nitido, di una stampa.

Qui entra in gioco la Gamma che, oltretutto è anche un fatto di scelte: i Mac per esempio usano una gamma 1.8 contro l'2.2 di Windows e dunque passando un file tra i due sistemi, la resa cambia molto! La cosa è ben spiegata sul sito di Benq. Tuttavia la stampa non riesce certo a esprimere questi valori di luminosità, in quanto riflette la luce, non la emette, come detto! In generale, le stampe hanno meno luminosità, contrasto e saturazione di un monitor, inoltre - a seconda della tecnologia scelta - possono avere la tendenza a chiudere le ombre.

La soluzione "seria" sarebbe quella di calibrare il monitor per la stampa (cosa fattibile, con alcuni software di calibrazione), oppure crearsi dei profili "a occhio", come ad esempio faccio io. Insomma, il monitor è calibrato come monitor, ma poi ho fatto molta esperienza su come andare a modificare dei parametri per ottenere delle stampe più che ragionevoli, appunto aprendo leggermente le ombre, aumentando la staurazione e la luminosità, ovviamente senza esagerare. Con la pratica - e se non si hanno aspettative "super" - la cosa si controlla bene e senza spese aggiuntive.

Un buon consiglio è lavorare le foto destinate alla stampa utilizzando un fondo bianco e non il classico grigio di molti software. Al limite, basta creare un bel bordo bianco tutt'intorno. Questo rende abbastanza bene l'idea della resa finale.

Ne parlo anche nel mio ultimo Podcast, che puoi ascoltare su Anchor e su Spotify.​
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Ciò di cui hai davvero bisogno (come fotografo)

10/7/2021

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Mettiamo le carte in tavola, va, non nascondiamoci dietro un dito. Io vivo di fotografia, è il mio mestiere e anche se non mi considero più un professionista (perché un "pro" produce foto per un cliente che lo paga), comunque debbo mettere insieme il pranzo con la cena, come si usa dire. E come lo faccio? Beh, come tanti colleghi: mettendo a disposizione degli altri le mie competenze frutto di oltre trent'anni di fotografia quotidiana, sia quelle acquisite lavorando per le riviste, che quelle acquisite durante le mie sperimentazioni, i miei progetti, le mie "verifiche" (per dirla con Mulas), e ovviamente anche quelle acquisite con migliaia di ore di letture e studio dei "sacri testi".

In effetti la competenza è una merce, e si può vendere. Oggi come oggi, per tanti fotografi è davvero l'unica cosa che conservi un buon valore commerciale. Questo avviene perché poi la stragrande maggioranza dei potenziali "allievi" non ha lo stesso tempo e possibilità di sperimentare, studiare, produrre. Quel che i fotografi come me offrono, se vogliamo, sono scorciatoie virtuose: solo con l'esperienza si impara e si migliora, ma si può fare in modo che non sia ogni volta necessario "reinventare la ruota", potremmo dire. Il docente dunque interviene, indicando le strade che non portano lontano e viceversa spiegando quali sono quelle promettenti. Sto semplificando, ma grossomodo è questo.
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Ora, la difficoltà vera è comprendere ciò che davvero i singoli fotografi pensano rispetto alle proprie necessità. L'esperienza didattica acquisita sinora mi ha insegnato, infatti, che le persone hanno un'idea diciamo astratta della fotografia. Insomma, la vogliono praticare, ma quando si tratta di stabilire cosa vogliano davvero fotografare e come, e quale percorso anche creativo intendano percorrere, spesso non hanno le idee chiare, finendo magari per mettere avanti qualche nome di fotografo che ammirano aggiungendo: "ecco, vorrei fare foto così". Che poi ogni calciatore della domenica vorrebbe giocare come Ronaldo, ma la faccenda mi sembra complicata.

Invece uno dovrebbe davvero interrogarsi su quali siano le proprie personali - e realistiche - aspettative, e su quello imbastire la propria "carriera". Insomma, se uno è solo interessato a creare foto da inviare a dei concorsi, avrà esigenze ben diverse da chi invece vuole creare progetti fotografici articolati in caso da pubblicare in un libro. Ma entrambe le tipologie hanno difficoltà poi a mettere a fuoco quel che serve ma soprattutto quel che desiderano.
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Come puoi immaginare, per quelli come me questa faccenda è una gran complicazione (e già non ce ne fossero abbastanza!). Infatti ogni "guru" del marketing che puoi incontrare online, ti dirà che se vuoi costruire un rapporto soddisfacente con i tuo clienti, devi "conoscere le loro aspettative, i loro desideri" e naturalmente offrire delle risposte, qualcosa che vada incontro tali desideri.

Magari è facile farlo se produci scarpe da tennis, ma se "vendi competenze", identificare i reali desideri e necessità del tuo "target" di riferimento è ben difficile. Infatti il problema è che i fotografi, loro per primi, hanno poche idee ma confuse su quello che davvero li interessa. I più, puntano sull'aspetto tecnico, e ci sta: imparare a usare tempi e diaframmi, come si inquadra in modo corretto, e così via. Un classico senza tempo, e indubbiamente è qualcosa di utile, anche se oggi meno di un tempo, grazie al digitale.

In effetti ci sono davvero tanti appassionati che si fermano lì, alla tecnica. In fondo amano soprattutto le fotocamere, più che la fotografia in quanto tale, spesso visitano poche mostre, leggono pochi libri, insomma si divertono a seguire i tutorial per realizzare "immagini spettacolari" e amen. Ma io so che ci sono molti altri amatori che non si accontentano.

Tu a che tipologia pensi di appartenere? Insomma, quando si parla di fotografia, di cosa credi di avere davvero bisogno? Cosa chiederesti a un docente e fotografo come me o come molti altri miei colleghi?
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Bene, a questo punto potremmo venirci incontro e vicendevolmente aiutarci ad avere le idee un pochino più chiare, grazie a questa scheda che ho predisposto. Niente di esaustivo e complicato, sicuramente mancano tantissimi elementi, ma comunque le cose essenziali ci stanno tutte.

"Flaggando" ogni singola voce, potresti identificare un percorso, o almeno avere un elenco delle possibilità "base" che il mondo della fotografia può offrire. Di sicuro, sulle voci evidenziate in giallo io potrei darti una mano. Come? Beh, creando contenuti per questo blog, per la Newsletter o scrivendo altri libri, o creando altri corsi online, insomma, cercando di "venire incontro" alle tue esigenze, che poi sono specularmente anche le mie!

In tal modo renderò felici diversi "guru" di quelli a cui accennavo poc'anzi.

Ovviamente, se vuoi davvero aiutarmi, dovresti condividere con me la scheda compilata: puoi farlo semplicemente "scaricando" il file jpeg (basta cliccare sulla foto col tasto destro del mouse e cliccare su "salva foto con nome") oppure quello PDF in fondo al post. Poi flaggare i quadratini ricorrendo a un software fotografico (se fotografi, ne avrai uno!) per la versione Jpeg o con un apposito software (tipo Acrobat) per quella PDF. Infine puoi inviare il tutto alla mia email marcoscataglini@tiscali.it.
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Se non vuoi perdere tempo a farlo, puoi anche solo riportare in un commento qui sotto le voci che ritieni interessanti. Mi piacerebbe conoscere le aspettative, e i desideri, di chi mi legge, e fare in modo di non continuare a postare "random", ma farlo in modo mirato e più utile anche per te.
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Bene, spero che questo post sia il primo di una serie utile a sviluppare una proficua collaborazione tra me e chi ha la voglia e la pazienza di leggermi. Se non lo hai già fatto, mi piacerebbe molto che tu ti iscrivessi alla mia Newsletter, in modo che il "dialogo" non si limiti solo a questo blog. Intanto ti ringrazio per la collaborazione!
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Le Action Cam e la fotografia "seria"

30/6/2021

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Generalmente le "Action Cam" sono considerate strumenti per pazzi che si gettano dagli aerei col paracadute o che fanno acrobazie sulla neve, buone per fare video, magari anche di alta qualità, ma comunque di un certo tipo. Probabilmente sono pochi i fotografi che le utilizzano come fotocamere "serie", insomma da inserire tra i propri strumenti di lavoro.
Beh, io sono uno di loro: mi piace un sacco avere questa microscopica fotocamerina (pardon: videocamerina...) con cui realizzare immagini ultragrandangolari (tutte le Action Cam sono dotate di obiettivi estremi, in genere fisheye), magari anche in condizioni difficili, in acqua, o sotto la pioggia.

Ovviamente, per ottenere buoni risultati, occorre che la Action Cam sia di buona qualità e permetta di salvare i file in RAW...
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In tal modo è possibile ottenere fotografia di qualità sorprendente, considerando le dimensioni della fotocamera e soprattutto del sensore. Ad ogni modo, ho deciso di registrare questo breve video in cui faccio il punto su questi "oggetti", e su come utilizzarli appunto come vere e proprie fotocamere, sebbene nulla vieti di utilizzarle all'occorrenza per divertirsi in vacanza o durante una gita in barca.
Non ci sono, sul mercato, molti modelli di Action Cam che salvino il file nel formato RAW (in genere .dng, Digital Negative, anche se modificato, come nelle GoPro). Diciamo che spesso questa caratteristica (che evidentemente non è utile per il marketing) nemmeno viene citata, perciò si resta col dubbio. Personalmente, ho verificato che di sicuro ci sono almeno due modelli della SJcam, tra cui la mia (SJ8 Pro), e diversi della GoPro.
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In particolare, le Action Cam che montano il sensore Sony IMX spesso hanno al possibilità di avere il RAW: ad esempio la SJ8 Pro e la Sj8 Plus, mentre non ha il RAW la SJ8 AIr, che è la versione economica della gamma. La Sj8 Plus consente di avere un'ottima Action Cam con meno di 200 €, il che non è affatto male, considerando anche la qualità dell'ottica.
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Nella gamma GoPro hanno il RAW, generalmente, i modelli indicati come "black" come si evince anche dal sito del produttore. Certamente costano di più delle SJcam, ma hanno anche un amarcia in più. Comunque con (molto) meno di 400 € si può avere una fotocamera di alto livello che permette anche di acquisire filmati 4k professionali e che ha una protezione dall'acqua anche senza la custodia impermeabile, cosa assai comoda.
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Forse tra tutte le GoPro quella che ha il miglior rapporto costo/prestazioni è la Hero 8 Black, ma ognuno potrà studiarsi le caratteristiche e in caso decidere di conseguenza.

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Vendere libri fotografici, la vera sfida

12/5/2021

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Scusate, ma stavolta torno a usare questo blog come vero strumento di comunicazione personale. In fondo non dovrebbe essere così? Ad ogni modo, vorrei parlare del mio ultimo lavoro, un libro fotografico intitolato "Foto|sintesi", a cui tengo molto (ma lo dico di ogni mio libro!).

Ora, un libro fotografico è per definizione uno strano ibrido: da un lato è un libro come tutti gli altri, sia perché composto da pagine di carta e da una copertina, sia perché in genere pubblicato da un qualche editore, distribuito da un distributore e così via; dall'altro lato però non è fatto solo di parole (spesso ce ne sono pochissime) ma di immagini e io l'ho sempre visto come una sorta di "minigalleria portatile", una mostra che è possibile tenere per sempre in libreria.
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Dopo aver pubblicato libri fotografici - e non solo - con altri editori, ho iniziato a farmeli da me e questo perché volevo che fossero davvero la piena e completa rappresentazione delle mie idee, del mio modo di vedere, delle mie emozioni. Questo ha comportato la rinuncia a tutte le strutture che un vero editore è in grado di dare, dal lavoro sulla promozione a quello sulla distribuzione, ma anche il sostegno morale, a volte.

Tanti miei colleghi hanno iniziato lo stesso percorso, a volte con successo, a volte meno. Il più delle volte i libri li si realizza con la tecnica del "crowdpublishing", che consiste nel "prevendere" i libri ancor prima della stampa per coprire almeno le spese, cosa che ho fatto anche per questa mia ultima fatica, con pieno successo. Anzi, approfitto per ringraziare ancora i sostenitori e le sostenitrici che hanno consentito di arrivare alla stampa del libro, senza di loro probabilmente non ci sarei riuscito.
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Tuttavia è ovvio che avere per le mani (e in magazzino) il libro rappresenta meno della metà dell'opera. Occorre anche che il libro circoli, che ci siano persone che decidano di acquistarlo, che magari spargano la voce se ne restano soddisfatti. Il più delle volte, questo comporta per l'autore l'organizzazione di numerose presentazioni: così, può spiegare direttamente al pubblico il senso del progetto, il valore del libro, il perché possa valere la pena acquistarlo. In genere, alla fine di queste presentazioni (che mi è sempre piaciuto organizzare) si vendevano diverse copie.

Purtroppo, il COVID ha completamente fermato questa modalità, e non so quando si potrà ricominciare a pieno regime. Ho anche pensato a delle presentazioni online - ne avevo fatta una per "Una Momentanea Eternità", ad esempio - ma oltre a convincermi poco, temo che oramai Internet sia saturo di questo genere di cose. Ma se tra chi legge queste note c'è il responsabile di qualche Circolo Fotografico e volesse invitarmi, parteciperei volentieri a una simile presentazione virtuale.
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Insomma, davvero la parte più difficile di realizzare un libro è riuscire a metterlo sul mercato. D'altra parte i numeri parlano chiaro: in Italia il mercato dei libri fotografici è risibile e si basa quasi esclusivamente sui soliti nomi, i grandi autori molto noti - o addirittura storici - che gli appassionati apprezzano e seguono. Per il resto, è necessario invece trovare canali alternativi, non facili, specialmente quando ci si trova in piena pandemia. Ma qualcosa m'inventerò. 

Ci tengo a dire che come autore non realizzo libri pensando sia una vera forma di "reddito integrativo": in verità ci si guadagna poco, a volte nulla. Il libro ha la funzione che hanno i dischi per molti musicisti (che guadagnano magari dai concerti, altra nota dolente di questo periodo): farsi conoscere, certo, ma soprattutto poter veicolare la propria arte, diffondere il proprio messaggio, far viaggiare sulle proprie gambe quelle foto realizzate in anni di lavoro.

​Perciò vendere i libri non è tanto un fatto di ricavi netti (anche, ovviamente non guasta mai) quanto di diffusione e conoscenza del lavoro svolto, è legata al fatto di sapere che ci saranno persone che ameranno il tuo libro, lo sfoglieranno,  si spera apprezzeranno le foto.
Proprio per questo ho sempre preferito fare in modo che i miei libri fossero "popolari", cioé con un costo ragionevole, non troppo basso per evitare di deprezzare il lavoro stesso o rimetterci economicamente, non troppo alto da renderlo "irraggiungibile".

Altri fotografi fanno l'esatto opposto: libri a tiratura limitata, costosi, di pregio. E' una scelta legittima, ma che non condivido. Perché contraria all'idea di far "circolare" le foto, e anche decisamente snob, se non elitaria. Certo, spesso questi libri sono bellissimi, stampati da dio, su carte pregiatissime, imponenti, e così via. Ma se poi se li possono permettere in pochi e magari nemmeno li sfogli perché hai paura che si rovinano, a che serve?

Anzi, per alcuni progetti che ho in corso ho deciso di realizzare una linea di "zine" (sebbene non le chiamerò così): uno o due libri l'anno, con relativamente poche pagine, da vendere a prezzi "da rivista" appunto. Credo che per l'inverno prossimo il primo "numero" sarà pronto, poi vedremo. Magari proporrò una sorta di "abbonamento" annuale con uno sconto, non so.

Intanto, se sei curioso di conoscere il mio libro - e auspicabilmente di acquistarlo - puoi andare nell'apposita pagina di questo sito. Per il resto... ti terrò aggiornato. E mi raccomando, fai un po' di passaparola!
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Partire è un po' morire (almeno come fotografo)

2/5/2021

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COVID permettendo, si avvicina il periodo in cui si vanno a fare gite e gitarelle, viaggi e viaggetti o addirittura delle "vacanze". Dunque una riflessione "fotografica" su questo aspetto della vita sociale secondo me vale la pena farla. Ovviamente molto personale - come ovvio - e anche magari poco condivisa dalla maggior parte delle persone. Perché, lo dico subito, a me questa smania del "partire" un po' mi sta sullo stomaco. In generale, ma anche e soprattutto quando si parla di fotografia.

Infatti di rado – e a me non è mai capitato di vederne – si ottengono foto davvero buone quando si è in vacanza, visto che oltre a noi stessi ciò che è “vacante” è anche la creatività e la voglia di impegnare molto tempo cercando un soggetto adeguato a rendere le nostre idee e le nostre emozioni, invece che in spiaggia o con la visita guidata al “famoso monumento”.
Lo confesso, non sono mai stato a Venezia, ma grazie ai reportage di grandi fotografi, e certo anche a Google Maps e Street View, penso di conoscerla piuttosto bene. Non debbo ricordare quel che ho visto, posso tornare su ogni singolo scorcio quando voglio.
 
Mi dirai: ma le foto che guardi non le hai fatte tu. E allora? Cosa cambia? Se non sono foto sommamente creative, il fatto che lo scorcio delle calli lo abbia scattato io o qualsiasi altro fotografo non ne cambia il valore “documentale”. E spesso le foto cosiddette “creative” che molti fotografi amano scattare, non si discostano poi molto da quelle altrettanto “creative” realizzate da centinaia di altri fotografi. Mosso intenzionale, tempi di scatto lunghi con le gondole mosse, ora blu, e così via.
 
Magari qualcuno si diverte anche a copiare chi ha avuto delle belle intuizioni, e allora ecco una sorta di “Venetia Obscura” sullo stile di Luca Campigotto, con foto notturne in bianco e nero. E gli esempi potrebbero continuare. Ovviamente farsi le foto da soli è decisamente più divertente e piacevole, ci mancherebbe. Ma non è questo il punto.
 
Ci sono molti modi di affrontare il racconto dei luoghi, ma soprattutto ci sono molti modi di intendere la passione per la fotografia. E le due cose sono strettamente connesse. Possiamo viaggiare per il semplice gusto di viaggiare, o di fare una “vacanzina” una volta l’anno; ma possiamo anche viaggiare appositamente per fotografare, ed è questo il sistema migliore per ottenere dei risultati degni di noi.
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Questo ci porta a fare tutta una serie di considerazioni interessanti. Ad esempio molti, quando scoprono che dopo quindici anni passati a girare come fotografo editoriale di viaggi e turismo ora mi muova di rado dal comprensorio in cui vivo, mi chiedono come faccia a non desiderare di continuare a viaggiare.
 
Il desiderio di viaggiare è insito nella natura umana. E io viaggio tantissimo, magari con la fantasia. Mi piace informarmi, scoprire le realtà “altre”, scoprire chi le racconta, ammirare le foto di coloro che dedicano anni e anni a svelarle. E in realtà sono spesso “fuori” a fotografare: più di quanto facessi prima, a dire il vero. Fotograficamente parlando sono molto più prolifico oggi che in una "realtà altra" ci vivo, di quando le "realtà altre" me le cercavo viaggiando.

Zavattini definiva il modo di raccontare un luogo che molti considerano poco interessante la “Qualsiasità”: ogni luogo rappresenta, infatti, il mondo intero. Si riferiva a Luzzara, ovviamente, che lui ha contribuito a far conoscere attraverso le immagini di Strand e altri fotografi. Luzzara – il cui monumento più insegne è un campanile del 1770 - rappresenta però l’Italia intera, e anche un po’ di Europa, e anche di mondo, se la comprendi, se l’osservi con attenzione. Così per me la Tuscia e le regioni vicine rappresentano il mondo intero e posso trovarci di tutto, basta che apra gli occhi per davvero; per altri possono essere i luoghi natali, le città in cui abitano, le Regioni in cui hanno la ventura di vivere tutto l'anno.
 
Un luogo qualsiasi è anche qualsiasi luogo!

Se guardi bene, infatti, Roma è come New York, e Rabat come Ushuaya. Diverse in tutto, storia, abitudini, stili di vita, clima, architettura, ma parte di questo pianeta e di questa umanità, e raccontarle significa far comprendere che al di là delle enormi differenze, in verità ogni essere umano è simile agli altri, ogni architettura è concepita per venire incontro alle stesse esigenze, ogni animale e pianta si è evoluta per rispondere sempre e comunque alle sfide poste dall’ambiente in cui vivono. Ma per capirlo, devi scavare in profondità, e chi ha tempo di farlo?
 
Se si è impegnati a viaggiare, certamente questo tempo finirà per mancarci. Si va nei luoghi, si scattano “belle foto” e si torna a casa. Poi, ogni tanto, si guardano quelle foto e si dirà: “ah, che meraviglia, sono stato là! Quanto mi piacerebbe tornarci!”. I ricordi veri svaniscono pian piano e restano solo le fotografie. Se fai un viaggio in India vedrai con “i tuoi occhi” un determinato luogo, è vero, ma non conoscerai quella realtà come potresti farlo leggendo un libro o guardando un reportage di McCurry. Dico sul serio. 

Anche perché avere tempo e un occhio allenato, forgiato dall’esperienza, è roba per pochi. I viaggiatori distratti si affidano troppo ai pregiudizi e alla capacità dello sguardo di discernere la realtà. 

Dunque non bisogna viaggiare più? Non è certo questo quel che voglio dire! Anzi, al contrario occorre recuperare il gusto del viaggio, che non è solo uno spostamento fisico.
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Viaggiare è bello e arricchisce la nostra vita, solo che occorrerebbe dapprima imparare a conoscere per davvero il luogo dove si vive, imparare a vederlo, come fosse un luogo esotico. Fare pratica, diciamo. Solo dopo partire per applicare lo stesso metodo ad altri luoghi.
 
Evitare il mordi-e-fuggi. Invece di tanti viaggi brevi, fare viaggi di molti giorni. Magari non tutti gli anni. Se il mondo intorno a te lo scopri interessante e stimolante, anche fotograficamente, non sentirai più l’esigenza di “fuggire altrove”. E allora il viaggio diventerà quell’evento importante che davvero ti cambia un po’ la vita, e anche il modo di fotografare.
 
Difficile dirlo (e farlo) nell’epoca del Low Cost e del turismo veloce e superficiale che soffoca il pianeta con voli aerei inquinanti e distrugge i luoghi che pure intende visitare, e basti pensare appunto a Venezia, straziata da milioni di turisti, e dalle navi da crociera. Questo significa “andare a Venezia”?
 
Quando potrò – se mai potrò – vivere uno due mesi a Venezia, penso che ci andrò, per fare le mie foto. Un week end a Venezia, come fotografo, per me non ha alcun senso, anche se magari si possono portare a casa molte “belle foto”. Da riguardare ogni tanto, con nostalgia. Soprattutto per le mille occasioni perse.
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Sviluppare un file RAW

9/4/2021

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Quel che si dice normalmente, e cioè che il file RAW ("grezzo" in inglese) sia un po' una sorta di "negativo digitale", è vero soltanto a metà. In effetti, il grumo di pixel che fuoriesce dalla fotocamera, preso così com'è, è inutilizzabile. Se non lo si elabora in qualche modo, non possiamo condividerlo o farci altro, esattamente come un negativo dei bei tempi se non lo stampavamo in camera oscura (o non lo scansoniamo come si fa il più delle volte oggi) serviva davvero a poco.
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Non è un caso che Adobe, quando ha creato quello che sarebbe dovuto essere il formato digitale universale, che avrebbe dovuto sostituire i vari NEF, CR2 & Co., diversi da marca a marca di fotocamera, decise di chiamarlo Digital Negative (.dng).
 
Ma in realtà le similitudini finiscono qui. Innanzitutto il negativo digitale non è affatto un negativo, ma un positivo: aprendolo in un qualsiasi software apparirà semmai più simile a una diapositiva che - appunto - a un negativo.

Poi le sue caratteristiche possono essere modificate in un modo che nemmeno il mago più esperto degli sviluppi chimici avrebbe saputo fare con un negativo e nemmeno con la relativa stampa analogica. Di fatto, il file RAW contiene solo informazioni, non ha nessuna concretezza fisica (e in questo il negativo analogico vince alla grande) e dunque occorre passare per un software, per dargliela in qualche modo. E la faccenda è meno intuitiva e semplice di quanto si pensi, sebbene esistano oramai parecchi "automatismi" informatici che consentono di ottenere una foto ragionevolmente buona con un paio di "click". 
 
Ma è evidente che per avere il meglio, giocoforza è necessario impegnarsi un po', e perdere del tempo per imparare a gestire curve, timbro clone, saturazione e quant'altro.
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Ora, lo scopo di questo post non è - nemmeno potrebbe essere - quello di spiegare passo passo come si sviluppa un file RAW, cosa tra l'altro quasi impossibile perché ogni foto richiede un trattamento personalizzato. Ed è su questo che magari mi piacerebbe porre l'accento in questa occasione. Durante i miei corsi e i miei workshop noto subito che i fotografi, specialmente se inesperti, si gettano a capofitto all'interno di Lightroom, Photoshop, Infinity, DarkTable o altri programmi allo scopo di risolvere la faccenda seguendo le indicazioni apprese in qualche tutorial online.
 
Ora, credo che questo approccio sia altrettanto sbagliato di quello - molto simile - che si fa in ripresa. Come dinanzi a un soggetto che ci interessa e ci ispira occorre ragionare sul da farsi, valutare cosa si vuole davvero comunicare e come farlo, così quando avremo sullo schermo il nostro file RAW - che appare in genere smorto e poco attraente - dovremo prima di tutto ricordare quelle che erano le nostre intenzioni al momento dello scatto.
 
Faccio un esempio molto semplice. Io lavoro principalmente in Bianco e Nero e il più delle volte imposto la fotocamera in modo che non mi mostri i colori sul display, anche se il file sarà comunque a colori. Quando compongo la scena e faccio le mie scelte, so già che la foto sarà non solo monocromatica, ma anche contrastata o morbida, chiara o molto scura, e così via. Una volta aperto il file nel software prescelto cerco di sviluppare la foto perché aderisca alle decisioni prese sul campo. Ecco, questo penso andrebbe fatto ogni volta.
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Ovviamente si può anche cambiare idea e magari una volta a casa si fanno scelte diverse: l'importante è decidere prima cosa si vuole ottenere e poi iniziare a interagire con il software. Nulla vieta di avere dei presets di nostro gradimento, o di crearne ad hoc con parametri impostati da noi. Io vi ricorro spesso perché è ovvio che ho un modo di fotografare che può ripetersi e molte delle mie foto hanno un trattamento simile o con poche varianti. Ma so anche che altrettanto spesso per ottenere quel che voglio dovrò perdere del tempo, e lavorarci su. E ci sono anche volte in cui le elaborazioni possono diventare molto complesse e laboriose. 
 
Ad esempio, io non utilizzo più l'HDR quando necessario, preferendo comporre due foto (una per le alteluci e una per le ombre) a mano, con le maschere di livello, per un risultato più naturale. Tipicamente questo è il caso di quando si ha un cielo luminoso e un primo piano più scuro. In casi del genere la postproduzione può arrivare a richiedere molto tempo, ma onor del vero non mi capitano spesso.
 
Gli interventi che si faranno sul file sono anche "figli" delle nostre capacità: sono arciconvinto del fatto che solo smanettando continuamente si possa davvero imparare a gestire softwares a volte molto complessi. Anche frequentando corsi o leggendo manuali, alla fine se non si fa continuamente pratica non si acquisisce la necessaria competenza per lavorare in tranquillità.

E' dal 2002 che lavoro in digitale (oltre che in analogico) e posso ben dire che in questi 18 anni ho postprodotto quasi quotidianamente le mie fotografie. Ma ancora tutte le procedure che non uso regolarmente tendo a dimenticarle, come credo sia normale. Dunque il consiglio che mi sento di darti è di spendere ogni giorno anche solo 10 minuti a esercitarti con il software che hai scelto.
 
Vedrai che col tempo tutto si semplifica e le cose verranno naturali. Detto tutto questo, credo che alla fine l'80% del lavoro di sviluppo si concentri in pochi comandi (comuni a ogni software che si rispetti) che dovrai dominare senza incertezze:

  • Bilanciamento del Bianco - In genere consiste in un comando a forma di contagocce: basta cliccare su una superficie neutra (bianca, nera o meglio grigia) per ottenere una calibrazione del bianco efficace, che poi può essere personalizzata con i comandi manuali, spesso RGB, a volte più complessi. In alcuni software il comando è compreso nelle "curve", insieme al contagocce per stabilire il punto del nero e quello del bianco;
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  • Recupero alteluci e ombre - I comandi hanno magari nomi diversi, ma alla fine servono sostanzialmente a evitare che le aree luminose siano "sfondate" e le ombre "chiuse" e quasi nere. Per lavorare bene con questi comandi è preferibile attivare il "blinking" di luci e ombre in genere presente ai due lati in alto dell'istogramma: sulla foto vengono mostrate, colorate in blu e rosso, le aree problematiche su cui intervenire;
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  • Curve - Sostengo sempre, e credo di aver ragione, che se si dovessero buttar via tutti i comandi di un software e tenerne uno solo, io salverei le curve, con cui puoi fare davvero tutto: aumentare o diminuire il contrasto, modificare luci e ombre, calibrare le tonalità (operando sui canali RGB), ottenere effetti particolari. Davvero con le curve, come abbiamo visto nel post dedicato all'istogramma, puoi avere il controllo totale della tua fotografia. Credo sia meglio approfittarne!
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Detto tra noi, una volta che la neutralità cromatica è stata aggiustata, le ombre e le luci sistemate e il contrasto calibrato a volontà, il grosso del lavoro è fatto.
Poi, certo, può essere necessario rimuovere i punti creati dalla polvere sul sensore, fare qualche intervento più deciso, ma insomma, capita solo in una piccola percentuale di fotografie. Quello che tendenzialmente bisognerebbe sempre evitare è utilizzare i software per "correggere" gli errori in ripresa. Può capitare, ma se capita spesso il problema va affrontato a monte, non a valle...
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L'attimo e l'eternità

11/3/2021

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Disse il tarlo al grande noce: dammi tempo, che ti divoro! Così recita un detto napoletano (dicette ‘o pappece in faccia ‘a noce: damme tiempo, che te spertuso!). 
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Non c’è alcun dubbio che il tempo possa essere il più grande alleato, o il peggior nemico, del fotografo. Ne parlo nel mio libro “Fotografare cos’altro è”, da cui traggo alcune delle seguenti riflessioni.
Il tempo è, dopo la luce, il principale strumento che il fotografo utilizza per realizzare le proprie opere. E a volte lo maltratta in modo anche violento. Noi fotografi maneggiamo l’istante nel tentativo di renderlo eterno.  
Dunque, siamo dei “rammendatori” temporali: “…la fotografia opera nel tempo e nello spazio un rammendo: un’inquadratura, sopravvenendo all’istante che cattura, impedisce al tempo di scorrere” (J.C. Bailly, “L’istante e la sua ombra”). 
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Ricuciamo strappi, e nel farlo, ci rendiamo complici del tempo stesso, e occorre una certa cura per non rimanere coinvolti in questo flusso che tutto porta via con sé.
Il libro di Bailly è una disamina interessante e profonda del rapporto che il tempo ha con le nostre vite, e di come tutto questo possa passare attraverso una fotografia, anzi una skiagrafia. Se "fotografia" significa "disegnare con la luce", il termine skiagrafia significa "disegnare con le ombre" (skia in greco significa appunto ombra).
 
Ci hai mai pensato all'importanza delle ombre nella storia dell'arte, e nello specifico della fotografia? 
 
E' vero che senza luce non ci sarebbe ombra, ma alla fine il vero artefice di una foto è quest'ultima, che ne rappresenta l'anima stessa. Se vuoi, "l'anima oscura".
Il libro prende il via dalla foto "Il covone" (The Haystack, che si vede in copertina) di Fox Talbot contenuta nel suo libro "The Pencil of Nature" (1844-46), e arriva a un'immagine per certi versi simile, eppure così drammaticamente diversa: quella di un uomo e della scala che gli era vicina "fotografati" su una parete dall'esplosione della bomba atomica di Hiroshima, che dissolse entrambi in un lampo di luce e la potenza di "10.000 Soli". 
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Non sempre la luce è simbolo positivo. Non sempre l'ombra è negativa. 
100 anni quasi esatti di storia separano le due immagini, e quella scala - strumento per elevarsi - diviene da simbolo del lavoro umano, un simbolo della follia della guerra. Il tempo non passa mai invano, ma noi non sappiamo approfittarne.

Fermare l’attimo dunque significa “uccidere” il soggetto, come ha fatto la luce radioattiva con l'uomo di Hiroshima, al punto che la fotografia “istantanea”, non appena disponibile, verrà accusata di “cucire assieme nel sacco portatile dell’istante” il morto e il vivo, come scrive ancora Bailly. 
 
Ecco spiegato il motivo per cui certe immagini degli inizi della storia della fotografia ci affascinano, ed ecco perché stanno tornando di moda i tempi di scatto lunghi  (da un secondo a decine di secondi), resi possibili dai filtri ND 1000 che tolgono ben 10 (oggi si arriva anche a 16) diaframmi di luminosità alla scena ripresa. Ed ecco perché c'è chi come me utilizza la fotografia stenopeica restando in paziente attesa che l'esposizione si compia nel volgere di diversi secondi, o minuti, a volte ore.
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Un paesaggio, soprattutto se vi è presente dell’acqua (un torrente, il mare) apparirà allora totalmente diverso da come lo vedono i nostri occhi, letteralmente trasfigurato. 
 
E' come se volessimo - in questo modo - raccogliere più tempo, farne indigestione, catturarlo e fermarlo, per allontanare da noi la paura della fine, per scongiurare quel nichilismo che è la caratteristica saliente della nostra civiltà occidentale.  
Il dio Crono divora i propri figli come il tempo fa con le nostre vite - dopo che una profezia gli aveva predetto che uno di loro lo avrebbe spodestato, come in effetti fece Zeus -  stando alla mitologia dei Greci. Che non poterono fare a meno di ideare però anche un altro tempo. 
 
Il tempo divino, il tempo in cui nulla trascorre, in cui nulla si consuma. Un tempo apparentemente negato agli umani. Se non, forse, nel tempo breve di una fotografia. Il kairòs è un tempo che non è vuoto, che non è a nostra disposizione ma ci viene donato: ogni istante (kairòi) è un kairòs, un momento opportuno per incontrare il tempo, l’eternità. 
 
Nel Nuovo Testamento, il kairòs indica il tempo in cui Dio agisce, che dunque non è il tempo come lo concepiamo noi umani, ma qualcosa di molto speciale: rappresenta il presente, l’eterno presente, l’unico tempo di cui davvero disponiamo ma di cui non sappiamo approfittare, perché le fauci di Crono continuano a divorarlo, fameliche. Vivere il presente significa vivere il kairòs. 
 
Non come un momento qualsiasi, ma il momento, quando un’opportunità per fare qualcosa di significativo si presenta come - appunto - scattare una fotografia. 
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La fotografia è un'attività costosa?

22/9/2020

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Scommetto che ti hanno sempre detto che la fotografia è una passione costosa, che per ottenere risultati davvero eccellenti non puoi non possedere una fotocamera di alto livello e "lenti" altrettanto di qualità.

E se ti dicessi che è assolutamente falso?

La mia fotocamera più "performante" (in termini meramente numerici) è una APS-C da 20 megapixel, consente di ottenere files stampabili senza problemi anche nel formato 70x100 cm e più, ha tutto quel che serve per gestire nel miglior modo possibile i parametri della ripresa, un display OLED touchscreen davvero comodo, e oltretutto è compatta e abbastanza leggera. Con il suo 16-50 mm riesco a ottenere foto di cui sono pienamente soddisfatto, specialmente quando penso a quanto l'ho pagata: 70,00 € (solo corpo), naturalmente usata!

Dirai: com'è possibile? Semplice, si tratta di una mirrorless Samsung del 2013 (la NX300), e visto che la casa coreana è uscita dal mercato strettamente fotografico già da qualche anno, le sue fotocamere (di altissima qualità, basta leggere le recensioni pubblicate a suo tempo sui vari siti online) hanno subito un rapido deprezzamento. Inoltre il mio esemplare ha un piccolo difetto: la rotellina che serve a cambiare i parametri è rotta, sebbene sia possibile utilizzare per lo stesso scopo il display touchscreen, e questo ne ha ulteriormente abbassato il "valore". 

Molti fotografi non accetterebbero mai di avere un modello obsoleto (anche se assolutamente valido), tanto meno un esemplare difettato. A me invece non importa e nel tempo ho acquistato diverse fotocamere a prezzi stracciati, che utilizzo col cuore leggero concentrandomi assai di più sui soggetti che alle specifiche tecniche della fotocamera stessa. Ma non voglio certo convincerti a fare lo stesso. Se desideri e puoi permetterti una "Super Full Frame" del valore di diverse migliaia di euro va benissimo lo stesso, ma il punto vero è: se disponi anche solo di 100,00 € puoi avere comunque una buona fotocamera, non top di gamma ma sufficiente per la gran parte degli utilizzi. In ogni caso non è lei a fare le foto: sei tu!

Insomma, come ho scritto nel post della settimana scorsa, per imparare a fotografare in modo adeguato ti serve ben altro che una fotocamera: ti serviranno fantasia, impegno, ironia, curiosità, competenze... tutte cose che purtroppo non puoi comprare, sebbene tu possa magari avvantaggiarti seguendo un corso (come il mio corso "Smettere di Essere Principiante" realizzato assieme a Reflex-Mania) o leggendo dei libri (anche in questo caso ti consiglio di dare un'occhiata alle mie pubblicazioni).

Sono strumenti in grado di accorciare i tempi ed esaltare le tue capacità, ma comunque la gran parte del lavoro spetta a te. E davvero questa è l'aspetto più intrigante della fotografia!
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Estetica e stereotipi, dalla moda alla fotografia

1/9/2020

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Il "caso" della modella armena Armine Harutyunyan sta agitando il mondo dei "social" con polemiche francamente stucchevoli, ma che fanno riflettere.

Infatti si assiste a uno scontro - a suon di insulti, con tanto maschilismo, misoginia e razzismo bell'e buono - tra chi sostiene che la bellezza femminile (almeno nella moda) debba corrispondere a dei canoni ben precisi, e chi invece la pensa in modo opposto (come me) e saluta con piacere questa novità (che poi la modella sfila per Gucci sin dal 2019...). Polemiche simili, in fondo, erano nate per la modella con la sindrome di Down e per quella "curvy".

I sostenitori del modello "canonico" ritengono che, come nell'antica Grecia, sia possibile stabilire a priori- anche con delle misure e delle proporzioni precise - cosa sia esteticamente accettabile e cosa invece ricada nella categoria del "brutto", che dunque dev'essere escluso da un mondo, quello della moda, geneticamente dedito al "bello".
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Per definizione le donne davvero belle, le top model, sono rare e assolutamente perfette. In genere longilinee, con gambe lunghe, vita sottile ma non troppo (il "vitino da vespa" è passato di moda), seno importante ma non abbondante e così via; se sono bianche in genere le si preferisce bionde, se di colore è comunque meglio abbiano i capelli lisci, come Naomi Campbell, per dire, sebbene questo sia poco naturale per una afro-americana.
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Non debbono sembrare, nemmeno lontanamente, donne reali, ma astrazioni, lontane dall'umano per diventare quasi divinità, e non a caso la Campbell venne soprannominata "la Venere nera". Ma c'è anche chi trova che questa bellezza canonica, evidente, senza alcuna sorpresa alla lunga finisca per annoiare. E tuttavia quasi nessuno sembra riuscire a farne a meno.

Nemmeno i fotografi - professionisti e amatori - che si dedicano al "glamour" e sborsano bei soldoni per avere modelle "sexy" e perfette. Quando scelgono un'amica disponibile, e generalmente "difettosa" (insomma, umana), subito i puristi si ribellano, evidenziando la troppa "ciccia" o le gambe non tornite in modo adeguato, nemmeno stessimo al mercato degli schiavi di triste memoria.

Perché la bellezza canonica è rassicurante e funziona: stranamente gli stessi stilisti rischiano molto presentando collezioni di vestiti ai limiti del fantascientifico (e dell'utilizzabile), ma quando si tratta di scegliere chi deve portarli in passerella preferiscono "il classico" o, se proprio si rischia, lo si fa scegliendo modelle filiformi e anoressiche, che è una cura peggiore del male.
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La casa di Moda Gucci ha deciso di cambiare le carte in tavola preferendo una modella non canonica e inserendola oltretutto nella lista delle "100 donne più belle del mondo". Ora, che esista questa classifica lo trovo un po' deprimente, e di certo opinabile (mi ricordo che io ho sempre trovato la Schiffer francamente poco attraente, ma de gustibus), ma che vi venga inserita una donna "non canonica" è un segnale.

Che per i fotografi rappresenta una sfida niente male, che andrebbe raccolta. La foto sopra della Campbell sembra la foto per la patente, non trovi? Ben illuminata, ci mancherebbe, ma con un volto così ti basta mettere la modella sul set e scattare a caso. Nessuno guarderà la foto, guarderà solo la modella, talmente vera che in effetti sembra finta.

Ma lo scopo di un bravo fotografo (anche di Moda, considerato un genere molto commerciale) dovrebbe essere quello di tirare fuori il meglio da ogni persona ritratta, perché in ognuno c'è della bellezza, e non solo in senso estetico.Anzi soprattutto non in senso estetico.

​Cercando online le foto di Armine per questo post mi son reso conto di quanto questa ragazza sia multiforme: appare diversa in ogni scatto, compresi i selfie che si scatta da sola. Ha un viso "malleabile", può sembrare quasi mascolina come profondamente femminile, sensuale come distante. E' come certe attrici che non possono essere definite "belle" secondo i canoni che abbiamo visto (tipo la Magnani, foto sotto), ma in grado di catturare la tua attenzione e di smuovere qualcosa di più profondo. Purtroppo molta Moda (e molti fotografi) sono rimasti legati all'idea del "bel faccino" che, in effetti, facilita il lavoro.
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Vorrei dire che questo atteggiamento di "estetica superficiale" affligge quasi tutta la fotografia: da sempre, ma oggi più che mai. Se non rispetti determinati canoni, le tue foto non sono "belle", o almeno non sono giudicate tali dal pubblico generalista, che comunque rappresenta il 95% almeno dei fruitori potenziali di un'immagine.
Un paesaggio dev'essere selvaggio e perfetto, senza fili dell'alta tensione o elementi di disturbo, preferibilmente dev'essere anche molto colorato e spettacolare. Un "paesaggio-Schiffer" chiamiamolo così. Eppure, quanti "paesaggi-Armine" hai veduto che ti hanno davvero coinvolto e colpito? Mi basta citare Giacomelli, ma ce ne sono tanti altri. Mi torna in mente anche l'ossessione di Ugo Mulas per le foto "buone" e il suo disprezzo per le foto "belle".
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Ecco, in ogni genere fotografico credo che questa regola dovrebbe valere: Armine è una modella che funziona, è reale, vicina, è la ragazza che puoi incontrare al bar o al parco mentre porta a passeggio il cane, è la donna con cui puoi parlare di arte (sia lei che il padre sono artisti affermati), di libri o di cinema, e poi magari anche di cose stupide, ci mancherebbe.
 

Fatto sta che accanto alla rappresentazione idealizzata e distante di una donna (ma il ragionamento vale anche per gli uomini) sarebbe davvero auspicabile che si torni a guardare la realtà, ad apprezzarla, a narrarla, a ritenerla degna della nostra attenzione.
​
I sogni sono certamente piacevoli, ma terminano al sorgere del sole. Sarebbe ora che il mondo della moda (e non solo) inizi seriamente a svegliarsi. E che intanto, sui Social, si possa anche commentare l'operato di una persona (soprattutto se di sesso femminile) che svolge un lavoro "pubblico" (dalla politica alla moda) senza offenderla e senza insultarla, che sarebbe già molto.
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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