Detta così, come nel titolo, la faccenda sembra un po' troppo grossa. Solo in condizioni controllate, in studio, possiamo davvero "gestire" la luce, ma all'aria aperta è già un lusso se possiamo almeno riuscire a gestire bene l'esposizione. Ci pensavo proprio qualche giorno fa durante l'uscita fotografica del 2020, effettuata in un insediamento rupestre qui, nei dintorni della mia città. In casi come questo è vero che siamo "all'aria aperta" (in senso lato), però di fatto possiamo gestire l'intera situazione come fossimo in studio. Siamo delle "divinità della luce", novelli stregoni possiamo gestirla come vogliamo. Come puoi intuire, la situazione ripresa presentava una gamma piuttosto ampia di illuminazioni, dal quasi buio dei due ambienti affiancati sino alle alte luci delle pareti che affacciano verso l'ingresso all'ipogeo, sulla destra.Analizzare la scena quasi punto per punto, anche strumentalmente con un esposimetro "spot", per comprendere per bene la gamma di luminosità del nostro soggetto è ovviamente importantissimo, anche senza scomodare il Sistema Zonale di Ansel Adams. Con tutta la buona volontà, non era facile evitare di "pelare" le alte luci e nel contempo mantenere leggibili le aree in ombra. Questo perché il tempo necessario a illuminare per bene le aree buie (con un faretto led) faceva a pugni con i tempi di esposizione richiesti dall'area del tramezzo centrale, illuminato dalla luce proveniente dall'esterno. Oltre a ridurre il contrasto col citato faretto, ho accuratamente calcolato l'esposizione, spingendo le alteluci al limite, senza che le ombre si chiudessero al punto che, in postproduzione, diventasse impossibile aprirle un po'. Grazie al formato RAW la possibilità di recuperarle entrambe. Come vedi, ha funzionato. Insomma abbiamo il controllo, ma non totale. In altre situazioni sono ricorso alla tecnica di combinare due scatti, uno per le luci e uno per le ombre (ovviamente tenendo la fotocamera sul treppiedi) ma stavolta non è stato necessario. Mi piaceva condividere questa esperienza perché nel tempo vorrei postare appunto degli esempi di "analisi esposimetrica" non ipotetici, ma reali. Noi fotografi dobbiamo saperci adattare alle situazioni che incontriamo, e visto che l'esposizione è una delle armi a nostra disposizione per tornare a casa con una foto ben fatta, approfondire questo aspetto credo possa essere interessante. Visto che mi trovavo nell'ipogeo anche per realizzare delle foto analogiche, ho dovuto affrontare un simile problema esposimetrico anche con la fotocamera che avevo con me, decisamente atipica: una toy camera di plastica (anche la lente singola dell'obiettivo è di plastica) la Snapsights - che utilizza pellicole 35mm - a cui ho eliminato l'otturatore - che permetteva di scattare con un singolo tempo, veloce - per sostituirlo con una semplice levetta di metallo che permette di aprire e chiudere l'obiettivo, in modo da avere sempre e solo la "posa B".
La qualità è ovviamente relativa (d'altra parte la utilizzo per questo), ma qui è aumentata dal fatto che - come la foto digitale precedente- è una panoramica di tre scatti montati digitalmente con la tecnica dello "stitching". Il tempo di scatto, in queste situazioni, con la pellicola Fomapan 100, è difficile da stabilire visto l'errore di non reciprocità e l'illuminazione artificiale che aggiungo, ma in genere tengo aperto l'otturatore per circa 30 secondi, che utilizzo per "pennellare" la scena con la mia torcia led. Ora, questo non era certamente un "test", ma comunque è evidente che il digitale - pur avendo formalmente una latitudine più ristretta della pellicola, almeno nel formato APS-C - grazie alle tecniche di ripresa e alla possibilità di vedere immediatamente il risultato e dunque di porre rimedio a eventuali errori, al dunque si comporta meglio della pellicola, in queste situazioni.
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