Detta così, come nel titolo, la faccenda sembra un po' troppo grossa. Solo in condizioni controllate, in studio, possiamo davvero "gestire" la luce, ma all'aria aperta è già un lusso se possiamo almeno riuscire a gestire bene l'esposizione. Ci pensavo proprio qualche giorno fa durante l'uscita fotografica del 2020, effettuata in un insediamento rupestre qui, nei dintorni della mia città. In casi come questo è vero che siamo "all'aria aperta" (in senso lato), però di fatto possiamo gestire l'intera situazione come fossimo in studio. Siamo delle "divinità della luce", novelli stregoni possiamo gestirla come vogliamo. Come puoi intuire, la situazione ripresa presentava una gamma piuttosto ampia di illuminazioni, dal quasi buio dei due ambienti affiancati sino alle alte luci delle pareti che affacciano verso l'ingresso all'ipogeo, sulla destra.Analizzare la scena quasi punto per punto, anche strumentalmente con un esposimetro "spot", per comprendere per bene la gamma di luminosità del nostro soggetto è ovviamente importantissimo, anche senza scomodare il Sistema Zonale di Ansel Adams. Con tutta la buona volontà, non era facile evitare di "pelare" le alte luci e nel contempo mantenere leggibili le aree in ombra. Questo perché il tempo necessario a illuminare per bene le aree buie (con un faretto led) faceva a pugni con i tempi di esposizione richiesti dall'area del tramezzo centrale, illuminato dalla luce proveniente dall'esterno. Oltre a ridurre il contrasto col citato faretto, ho accuratamente calcolato l'esposizione, spingendo le alteluci al limite, senza che le ombre si chiudessero al punto che, in postproduzione, diventasse impossibile aprirle un po'. Grazie al formato RAW la possibilità di recuperarle entrambe. Come vedi, ha funzionato. Insomma abbiamo il controllo, ma non totale. In altre situazioni sono ricorso alla tecnica di combinare due scatti, uno per le luci e uno per le ombre (ovviamente tenendo la fotocamera sul treppiedi) ma stavolta non è stato necessario. Mi piaceva condividere questa esperienza perché nel tempo vorrei postare appunto degli esempi di "analisi esposimetrica" non ipotetici, ma reali. Noi fotografi dobbiamo saperci adattare alle situazioni che incontriamo, e visto che l'esposizione è una delle armi a nostra disposizione per tornare a casa con una foto ben fatta, approfondire questo aspetto credo possa essere interessante. Visto che mi trovavo nell'ipogeo anche per realizzare delle foto analogiche, ho dovuto affrontare un simile problema esposimetrico anche con la fotocamera che avevo con me, decisamente atipica: una toy camera di plastica (anche la lente singola dell'obiettivo è di plastica) la Snapsights - che utilizza pellicole 35mm - a cui ho eliminato l'otturatore - che permetteva di scattare con un singolo tempo, veloce - per sostituirlo con una semplice levetta di metallo che permette di aprire e chiudere l'obiettivo, in modo da avere sempre e solo la "posa B".
La qualità è ovviamente relativa (d'altra parte la utilizzo per questo), ma qui è aumentata dal fatto che - come la foto digitale precedente- è una panoramica di tre scatti montati digitalmente con la tecnica dello "stitching". Il tempo di scatto, in queste situazioni, con la pellicola Fomapan 100, è difficile da stabilire visto l'errore di non reciprocità e l'illuminazione artificiale che aggiungo, ma in genere tengo aperto l'otturatore per circa 30 secondi, che utilizzo per "pennellare" la scena con la mia torcia led. Ora, questo non era certamente un "test", ma comunque è evidente che il digitale - pur avendo formalmente una latitudine più ristretta della pellicola, almeno nel formato APS-C - grazie alle tecniche di ripresa e alla possibilità di vedere immediatamente il risultato e dunque di porre rimedio a eventuali errori, al dunque si comporta meglio della pellicola, in queste situazioni.
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Se mi chiedessero se mi considero un fotografo digitale o analogico – domanda posta ai fotografi di frequente, più di quanto si creda normalmente – direi senza alcun dubbio di essere diventato quel che sono (nel bene e nel male) grazie al digitale. Sicuramente - quindi - sono un fotografo digitale, sebbene sia nato e cresciuto in epoca analogica e ancora armeggi con pellicole e bagni di sviluppo. Ricorro spesso all’analogico, l’ho utilizzato per il mio progetto “Una Momentanea Eternità”, e debbo dire che mi appassiona moltissimo. Ma ho le mie idee in merito al ricorso alla fotografia analogica o meglio – nel mio caso – ibrida, visto che poi non stampo quasi mai i negativi in Camera Oscura ma li inserisco in un flusso digitale. Diciamo che credo esistano due tipologie fondamentali di fotografi, anche se le generalizzazioni e categorizzazioni non mi piacciono molto. Ma è per capirci. Ci sono i fotografi digitali duri e puri, che guardano all’analogico come a una cosa morta e sepolta, anacronistica e incomprensibile, date le potenzialità infinite che il digitale ci mette a disposizione. Perché trascorrere una giornata in camera Oscura quando in dieci minuti ottieni lo stesso risultato (a volte migliore) grazie a un computer? E per di più non inquini e non spendi soldi in carta da stampa alla gelatina d’argento e chimici puzzolenti. Molti di loro hanno anche provato a scattare delle foto in analogico, tanto per non essere tacciati di incompetenza, ma non sono rimasti fulminati sulla via di Damasco e continuano a preferire i pixel ai grandi d’argento. Poi ci sono i fotografi dall’altra parte della barricata (con scarse possibilità di vittoria e anzi costretti in difesa, va detto): usano solo e soltanto l’analogico, rigorosamente passando per la Camera Oscura e mostrano orgogliosi le loro stampe appena emerse dal fissaggio in fotografie fatte in digitale. D’altra parte pensano che il digitale sia utile solo per questo, a condividere i loro lavori analogici online e sui Social. Spesso, a questo scopo, ricorrono a uno smartphone, perché acquistare una fotocamera digitale gli sembra uno spreco. Con lo stesso esborso economico puoi portarti a casa una Nikon F2, vuoi mettere? Discorrono sui forum della qualità di pellicole e sviluppi, di obiettivi vintage e fotocamere di nobilissimo lignaggio, arrivando alla non sorprendente conclusione che con una Hasselblad 500, un Leica M, una Mamiya RB67 – con i rispettivi obiettivi – si abbiano risultati pari (secondo loro anche migliori) a quelli ottenibili in digitale. In effetti, una stampa in grande formato ottenuta in camera oscura da un negativo realizzato con una simile fotocamera o una stampa inkjet ottenuta da un file realizzato – che so - con una Canon EOS 5D sono spesso indistinguibili. Vorrei vedere. A questa contrapposizione non ho mai partecipato. Anche i più grandi fotografi che ammiro e studio, e che lavorano esclusivamente in analogico, come Jodice o Kenna, hanno sempre dichiarato di non avere nulla contro il digitale, anzi: semplicemente si trovano meglio a lavorare con l’analogico. La foto finale è quel che conta, in fondo, non come la si è ottenuta. E basta guardare molti lavori di Salgado, in cui si uniscono foto analogiche e digitali (come nel progetto “Genesis”), per capire che la differenza, se c’è, è del tutto ininfluente. Bene, ma questo in generale. Per quanto mi riguarda, da fotografo convintamente digitale, trovo che abbia senso il ricorso all’analogico solo se ti dà qualcosa in più o di diverso dallo scatto fatto di pixel. E ce ne sono di cose possibili e interessanti su pellicola e impossibili o inaccettabili su digitale! Le fotografie stenopeiche, ad esempio, che vengono davvero bene solo su pellicola o carta fotografica: si possono fare anche in digitale, ovviamente, ma non c’è confronto, con poche eccezioni. Tra l’altro solo in analogico puoi fare quelle anamorfiche o anche le solargrafie (ne parlo nel mio ultimo libro, dedicato alla fotografia stenopeica). Poi c’è la possibilità di ricorrere a vecchie fotocamere vintage di qualità relativa (le cosiddette “Toy Cameras”) secondo la filosofia del “Lo-Fi” (Low Fidelity, bassa fedeltà), e ottenere così foto che possono essere solo imitate in digitale, con risultati comunque inferiori. E di esempi ce ne potrebbero essere molti altri. Ma il punto è che a me interessa l’analogico – e lo uso frequentemente – solo se “si vede” che la foto è analogica, vuoi per la resa particolare, vuoi per i maltrattamenti che la pellicola può subire. Mi diverte molto (e dunque lo faccio spesso) mettere appositamente assieme tutti gli errori di sviluppo che gli amanti dell’analogico puro aborrono: utilizzo bagni per lo sviluppo della carta per le pellicole, allo scopo di ottenere un maggior contrasto e soprattutto più grana, non seguo gli schemi per l’agitazione, spesso nemmeno quelli della temperatura. D’altra parte rispettando tutte le regole si ottengono negativi buoni che poi, una volta digitalizzati e “sviluppati” digitalmente insieme a quelli scattati con la fotocamera digitale, faccio fatica a distinguere! Davvero, le foto risultano quasi identiche, solo ingrandendo il file al 100% si vedeva la tipica grana analogica. Tutta quella fatica per dover trovare la differenza con la lente d’ingrandimento? Non fa per me. Come dico sempre, abbiamo una tecnologia economica e comodissima per fare foto perfette: è per l’imperfezione che il digitale davvero non va bene. E a me l’imperfezione piace maledettamente, se è quella “giusta”, cosa oltretutto non facile da conseguire.
Col digitale puoi fare qualsiasi cosa, ma devi farla tu, e questo significa che difficilmente il caso ci mette lo zampino. Ma carica una pellicola in una fotocamera improbabile, che nemmeno si capisce bene che tempi di scatto utilizzi e che diaframmi possieda, poi sviluppa il tutto in una brodaglia inguardabile e vedi che viene fuori. Sorprendentemente solo di rado debbo buttare tutto. A volte le macchie, la grana “a palla”, i contrasti strani, i light leaks concorrono a dare alla foto quel qualcosa che nessuna fotocamera digitale saprebbe dargli. Non dico che questo sia il modo “giusto” di usare l’analogico (anzi, riconosco che è sbagliato!): dico solo che è il mio. Rappresenta una delle possibilità. La sperimentazione, sembrerà strano dirlo, è possibile più con la pellicola che con il digitale, che pure permette di fare “tutto”. Ma sono i limiti e le costrizioni a dare via libera alla fantasia e alla creatività… I profeti di sventura hanno previsto da tempo la fine dei CD e dei DVD: non nel senso che usciranno dal mercato (questo è già praticamente successo) quanto per il fatto che i dati in essi immagazzinati andranno perduti, perché il disco tende inevitabilmente a degradarsi. Quattro, cinque anni, massimo dieci, così ho letto in varie riviste e siti. Dopo di che il DVD diventa un grazioso dischetto argentato utile solo come specchietto spaventapasseri nell'orto. Perciò, puoi ben comprendere, mi sono accostato ai vecchi DVD di dodici, tredici, addirittura quattordici o quindici anni fa con una notevole apprensione. Su di loro, infatti, avevo contato per traghettare nel futuro i miei file RAW e ora mi serviva utilizzarli, per un progetto che dura da allora. Fino ad oggi pensavo di utilizzare i file già lavorati, ma poi mi son reso conto che potevo svilupparli digitalmente molto meglio, e volevo ripartire da zero. D'altra parte non è per questo che conserviamo i file RAW? Con calma, ho collocato nel lettore (si, ho un PC con ancora quel buffo affare che legge i "dischi") una quindicina di DVD con centinaia di file RAW archiviati, temendo di veder comparire sul monitor un messaggio stile "amico, non si legge una cippa", ma ovviamente più brutale. E invece... miracolo! Tutti i DVD, anche i più vecchi, hanno funzionato alla perfezione. Ero salvo. Allora ho osato di più, andando per curiosità a riprendere i dischetti del 2003-2004, in pratica i primi che ho registrato quando sono passato al digitale. Idem, funzionano ancora tutti. Magari sono stato fortunato, ma mi sembra una buona notizia anche per chi sta trasferendo tutti i dati archiviati nei DVD su hard disk esterni. Che poi, a dirla tutta, anche questi ultimi, secondo la vulgata, non sono certo eterni e il rischi di "crash" è sempre dietro l'angolo. Noi fotografi viviamo con angoscia 'sta faccenda dell'archiviazione e dell'obsolescenza (più o meno programmata) dei macchinari, dei files e anche dei softwares. In effetti pensiamo sempre di dover affidare all'eternità le nostre opere, anche se spesso - confessiamolo - non ne varrebbe la pena. Non parlo delle foto ricordo (per definizione queste dovrebbero servire a sfidare i secoli, almeno nelle nostre aspettative), parlo delle fotografie creative o comunque più personali. La verità è che oggi la mole di fotografie prodotte è tale che difficilmente ce ne saranno molte che potranno sopravvivere. Col tempo anche la "nuvola" sarà sovraccarica e arriverà il momento in cui una gran quantità di foto dovrà andare al macero.Non è detto che sia un male, sebbene questo provochi una certa sofferenza, a pensarci bene.E in effetti è sempre successo, anche se con numeri assai più ridotti. Comunque sia, sistemate le foto digitali recuperate dai DVD, ho avuto anche necessità di riprendere in mano alcune foto analogiche. Anche molto (ma molto) più vecchie dei file digitali. Beh, tutta un'altra storia: con i negativi problemi non ce ne sono e a meno di gravi errori nel fissaggio e nel lavaggio, sono praticamente eterni (beh, quasi). Oltretutto trasportandoli in digitale possono essere utilizzati sempre con la tecnologia più recente, pur rimanendo un supporto di archiviazione piuttosto stabile, sebbene ingombrante.
Anche nel caso di negativi e diapositive si sostiene che la loro durata sia limitata da mille fattori ambientali e casuali, ma per esperienza direi che sono comunque più duraturi di qualsiasi altro supporto l'uomo abbia sinora inventato, anche se quelli più recenti, come i DVD per l'appunto, non sono stati ancora testati oltre i vent'anni o giù di lì. Insomma, vedremo. Però, chi è che in casa non ha negativi vintage? Io ne ho alcuni degli anni '20 del secolo scorso. Certo, si graffiano, possono prendere fuoco, strapparsi, fondersi, autodistruggersi, ma ho l'impressione che un grumo di pixel sia molto più instabile e delicato di un bello strato di grani d'argento su acetato. Ma magari mi illudo, chissà. A dire il vero avevo pensato a questo post durante il "lockdown", per motivi che a breve ti sembreranno ovvi, ma poi il tempo è passato e dunque ne parlo ora. In effetti è valido anche come "gioco" (serio) estivo. Si tratta infatti di un "divertissement" fotografico che permette di creare immagini "cameraless" in modalità digitale. Le tecniche "senza fotocamera" come il Lumenprinting, infatti, in genere vengono realizzate grazie a superfici sensibili analogiche, quali la carta fotografica Bianco e Nero. Ma se non vogliamo sbatterci troppo, in nostro aiuto viene lo scanner, proprio quello piano, utilizzato per digitalizzare documenti e primo accesso al mondo digitale dei fotografi di vent’anni fa, quando già esistevano i computer casalinghi ma non le fotocamere digitali. Anch’io le prime foto “digitali” che ho “postprodotto” le ho ottenute scannerizzando delle semplici stampine 10x15 cm da negativi a colori. Bene, lo scanner – acquistabile oltretutto a prezzi davvero convenienti – può essere la nostra superficie sensibile virtuale, con cui realizzare “fotogrammi” di altissima risoluzione e dalla caratteristica resa, secondo la tecnica detta Scanografia. Il sistema più semplice e ovvio è collocare un soggetto sul vetro dello scanner e avviare la scansione. Visto che la “profondità di campo” dello scanner è molto ridotta (in fondo deve riprodurre soggetti piatti!) le immagini così ottenute sono perfettamente a fuoco nelle parti che aderiscono al vetro e via via più sfumate nelle parti più distanti; lo stesso avviene con la luce, che ricorda quella dei flash anulari, con una rapida caduta della luce nelle parti più lontane dal vetro. Tutto questo contribuisce a creare un’iconografia tipica, che può essere sfruttata in senso creativo. Ci sono molti fotografi – soprattutto di fiori e di piante – che hanno fatto dello scanner il proprio strumento fotografico d’elezione, a volte esclusivo, con risultati molto pittorici e decorativi. Ellen Hoverkamp è ad esempio una fotografa specializzata nel creare illustrazioni botaniche per l’editoria, tutte realizzate grazie allo scanner. Ma vediamo insieme come fare. La prima cosa da osservare è che, visto che si deve tenere aperto lo scanner, è importante collocare un cartoncino nero (o bianco) al di sopra del soggetto, per uniformare lo sfondo. Fai in modo di tenere a una certa distanza il cartoncino (o anche un pezzo di stoffa, o altro). La soluzione più pratica è ricorrere a una scatola delle dimensioni dello scanner, dipinta all’interno di nero opaco. Puoi collocare il tuo soggetto sul vetro con sopra la scatola ed eseguire la scansione, seguendo le istruzioni del tuo scanner ed utilizzando il software che viene fornito con lo stesso. Conviene eseguire un’anteprima per verificare che sia tutto a posto. E’ particolarmente importante fare in modo che sia il soggetto che il piano di vetro dello scanner siano ben puliti, in quanto la scansione evidenzia ogni pelucchio o residuo, il che ti costringerebbe poi a un lungo lavoro si “spuntinatura” via software. Come esempio, ho scelto di eseguire una scanografia di un mazzo di fiori di lavanda. Una volta eseguita l’anteprima il risultato è più o meno questo. Considera che nel mio caso lo scanner è della Epson (un V37), e dunque il software potrebbe apparire differente. Ma grossomodo i comandi sono sempre gli stessi. Imposta una risoluzione alta per avere più dettaglio (a 600 dpi la foto è già di 35 megapixel!) e salvala in TIF. Purtroppo gli scanner non salvano in formato RAW, dunque il TIF è la soluzione migliore, meglio se a 16 bit (48 bit totali, sui tre canali RGB). Salvata la foto, dovrai postprodurla per convertirla in bianco e nero (nell'esempio qui sotto ho usato Lightroom), procedendo come faresti con qualsiasi altra foto. Noterai subito che comunque l’aspetto complessivo della foto è particolare: in questo consiste in fondo l’interesse di questa tecnica. Ci sarà sicuramente da togliere qualche granello di polvere, aumentare il contrasto, scurire localmente il nero dello sfondo e schiarire il soggetto, in modo che quest’ultimo si stagli netto, sebbene illuminato da una luce morbida e avvolgente. Ora non ti resta che passare alla conversione. Nell’esempio qui sotto ho deciso di convertire la foto in Bianco e Nero e applicare anche un po’ di “split toning”, che credo si adatti al soggetto (seppia+ciano), ma ovviamente è questione di gusti. Il risultato finale , sebbene il soggetto lo abbia scelto solo per fare una dimostrazione, mi piace molto. Con un po’ di cura e attenzione è possibile ottenere delle immagini davvero valide. A parte piante e fiori, ideali perché generalmente colorati e sufficientemente piatti, puoi scansire praticamente qualsiasi soggetto. Con quelli molto spessi, otterrai delle illuminazioni strane, il che dovrebbe accendere la scintilla della tua creatività. Cercando in casa ho trovato una statuetta che riproduce un’antichissima divinità della Sardegna, e mi son divertito a scansirla e poi convertire la foto in BN. Come vedi, la luce l’ha come “affettata” con sezioni di luminosità diverse, sottolineandone alcuni aspetti (il volto, il grande seno, le gambe) e restituendo un’immagine che non è la mera riproduzione dell’oggetto iniziale che, anzi, viene quasi trasfigurato e reso irriconoscibile. Spero che tu inizi a intravedere le possibilità creative che tutto questo può offrirti! Visto che lo scanner non “scatta una foto” del soggetto, ma lo scansisce riga per riga, è anche possibile muovere il nostro soggetto, creando distorsioni ed effetti interessanti. Non è facilissimo creare delle distorsioni accettabili, ma con un po’ di tentativi alla fine si inizia ad avere il controllo anche di questa tecnica. Nell’esempio qui sotto ho fatto partire la scansione (senza la scatola dipinta di nero, ovvio) e ho spostato la statuetta mentre avanzava la scansione. Come vedi, la statuetta è irriconoscibile. Per la foto qui sotto mi sono limitato a ruotare parzialmente la statuina durante la scansione, e il risultato la fa apparire come ammorbidita, quasi più “viva”. Con pochi movimenti e un po’ di pazienza puoi ottenere innumerevoli versioni dello stesso soggetto. Già che c’ero – e visto che anche a me la faccenda ha preso la mano – ho collocato un’altra statuetta, del Buddha stavolta, e l’ho utilizzata per creare un’altra serie di distorsioni, come quella qui sotto. O come questa variante. Insomma, mi sembra che il concetto oramai sia chiaro. Il tuo scanner può diventare quella “superficie sensibile” con cui Man Ray, Moholy-Nagy e molti altri hanno sperimentato per anni, creando un’iconografia non solo riconoscibile, ma molto efficace nel rappresentare le loro idee e lo spirito di un’epoca. Come sempre, ti consiglio di non esagerare: il successo di simili sperimentazioni, e l’esperienza di Man Ray lo dimostra, consiste nel saper controllare l’immagine grazie al buon gusto, e magari avendo qualche idea in testa.
Inizia “giocando”, e anche esagerando, per capire “come funziona” ma, una volta compreso il meccanismo, ti consiglio di fare in modo che le tue elaborazioni siano misurate e armonizzate al soggetto. Dunque non deformazioni “tanto per”, ma realizzate con cura e intelligenza. Buon divertimento! Imitare o addirittura copiare le foto – e le tecniche – impiegate dai grandi autori è un esercizio preziosissimo se li si vuol comprendere davvero. Ovviamente, si tratta di un’attività didattica, ma nulla vieta che, sperimentando sull’imitazione, non si scoprano tecniche che ci torneranno utili successivamente, in modo più consapevole. Per questo, sebbene sia un amante dell'analogico e i trucchetti digitali non mi piacciano molto, ti propongo - come esercizio - di prendere una tua fotografia e di trasformarla in una fotografia di gusto pittorialista. Non è necessario che il tema della foto sia legato ai gusti ottocenteschi: la fotografia può anche essere moderna nel contenuto, a noi interessa la forma. Quali sono le principali caratteristiche (medie) di una foto pittorialista? Potrai scoprirle da solo, ma in linea generale ce ne sono alcune evidenti: il basso contrasto, a volte un leggero sfocato, la diffusione delle alteluci, la vignettatura e spesso il viraggio, o seppia (selenio) o al platino, oro o altri materiali nobili, che prolungavano la durata delle stampe. Il più delle volte noterai che le stampe hanno tonalità sul seppia e, meno frequentemente, azzurre-ciano, comunque fredde, magari accompagnate da un colore di fondo (della carta) giallognolo: il cosiddetto “split toning” serve appunto a imitare questa caratteristica.Le stampe presentavano in genere una certa vignettatura, una tecnica classica della fotografia in generale, di quella in bianco e nero in particolare (la usava a volte anche Ansel Adams, per dire). Ma non è un difetto? Se non è voluta, sicuramente si, ma quando introdotta ad arte nell’immagine serve a concentrare ancor più l’attenzione sulla scena, a creare una sorta di leggera cornice intorno al soggetto. Proprio perché molto amata dai pittoralisti (che a volte però se la ritrovavano sulle foto perché gli obiettivi dell’epoca avevano una naturale caduta di luce – e qualità – ai bordi) la vignettatura è utile se si vuol creare un’atmosfera “vintage”. Ti ricordo che la vignettatura può anche essere chiara, sfumando verso il bianco: era molto utilizzata nei ritratti, ad esempio. Con Lightroom e gli altri software è facilissimo aggiungere una vignettatura, In pratica si crea una selezione ovale, si inverte e si sfuma la selezione, e infine si scurisce leggermente. In LR esiste un comando apposito per creare la selezione. A sinistra vedi la foto originale e a destra la selezione ovale già con l’iscurimento applicato. Interessante notare che aggiungendo la vignettatura anche la parte che non viene toccata dalla regolazione della luminosità sembrerà leggermente più scura. In caso è possibile invertire la selezione e schiarire solo questa parte. Il risultato finale può piacere o meno, però indubbiamente dirige con più forza lo sguardo verso le tre cascate sullo sfondo, che rappresentano il vero soggetto della fotografia.Aggiungendo un viraggio color seppia, in breve si avrebbe una fotografia dai forti connotati “pittorialisti”, che potrebbero essere accentuati diffondendo un po’ le alteluci. In questo caso mi sono limitato ad aggiungere un tono seppia e a ridurne la saturazione per renderlo visibile ma non preponderante, ad abbassare il contrasto (le foto pittorialiste erano quasi sempre poco contrastate) e ad aggiungere un po’ di “gamma” per ristabilire un certo equilibrio all’insieme. Sebbene scattata con una mirrorless digitale APS-C, la foto potrebbe tranquillamente provenire da qualche atelier pittorialista della seconda metà del XIX secolo, non trovi? Ovviamente si tratta di un semplice “gioco” o esercizio, ma ti consiglio di prendere una tua foto e di farlo anche tu, anche per entrare in “empatia” con i fotografi di quell’epoca pioneristica e romantica. E anche per farti venire la voglia - magari - di scattare delle foto analogiche che portino a simili risultati! Volendo è anche possibile aggiungere la texture di una qualche carta debitamente antica e magari un bordo che richiami la pellicola. Vediamo insieme come fare. Avrai bisogno di alcune textures. Le puoi trovare online, da scaricare gratuitamente, ma è molto meglio se le realizzi da te, effettuando la scansione o rifotografando carte da acquarello, vecchi fogli ingialliti e così via. Io, ad esempio, ho una cartella con carte e bordi adatti a questo utilizzo. Se l’argomento ti attira, puoi creartene una anche tu. Nello screenshot qui sotto vedi un dettaglio della mia “collezione”. Ho scansito foto Polaroid venute male (dunque senza foto), le pagine ingiallite e macchiate all’inizio o alla fine dei vecchi libri, cartoni ondulati, carte da disegno di vario genere, e così via. Qualsiasi cosa su cui mettevo le mani. E anche vecchie pellicole graffiate, o bordi di qualsiasi genere. Puoi anche realizzare da te una carta “invecchiata” come CART (19) e (20) nello screenshot: ti basta prendere un foglio di carta da acquarello robusta, immergerlo in acqua poi, eliminato l’eccesso di liquido, stenderlo su una superficie piana (meglio un vetro) e lasciar cadere sulla superficie pochi grani di caffè solubile. Fai in modo che i grani siano sottili, tipo sabbia, ti basta schiacciarli tra le dita. Lascia asciugare il tutto ed è fatta. Una volta che avrai la tua texture, ti servirà la foto adatta. L’ideale, come detto, sarebbe farla appositamente, ad esempio ricorrendo a un obiettivo “vintage” di scarsa qualità, in modo che certi “difetti” siano presenti nella foto sin dall’inizio, ma non è indispensabile. Per questo esempio ho scelto una foto molto “romantica”: un faggio “bucato” immerso nella nebbia. Nel tutorial qui sotto ti mostro come elaborare la foto per ottenere un risultato pittorialista. Molti software consentono di lavorare con i livelli. La metodologia illustrata qui in ON1 Photo RAW si ritrova identica in Photoshop e numerosi altri software di postproduzione. Ed ecco qui sotto la foto trasformata completamente, quasi l’avessimo trovata in cantina tra le gli impicci del nostro bisnonno. Rovinata, graffiata, con distacchi della superficie sensibile ma ancora leggibile. Intrigante, non trovi? C’è tutto un proliferare di questo tipo di fotografie, specialmente online, ma considera una cosa: non è la tecnica a essere “creativa” oppure “giusta” o “sbagliata”, è l’uso che se ne fa.
Se dietro una fotografia neopittorialista o postprodotta c’è un’idea forte, ad esempio la voglia di raccontare il passato riproducendone i simboli, tutto è legittimo e accettabile. Se invece l’applicazione di queste tecniche è fine a se stessa e serve solo ad attirare l’attenzione, allora di certo i risultati saranno stucchevoli. Sta a te decidere. |
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