Questo post è in modalità ironica nonché acida. Lo dico prima e il perché si chiarisce più avanti. Almeno spero. Ma mi sa di no. Come si usa fare oggi nei post seri (e questo chiaramente non lo è) anticipo il senso di quanto articolerò in modo confuso qui sotto, cosicché tu possa leggere solo queste quattro righe e poi andare altrove, se vuoi. Dunque quello che vedremo tra poco è come la fotografia sia molto cambiata, resa più semplice e a prova di errore dalla tecnologia: di conseguenza chiunque, oggi, può scattare una "bella foto". Al povero fotografo "serio" non resta che affidarsi alle idee. Ma visto che la tecnologia ci sta rendendo tutti un po' pigri (per non dire altro), anche delle idee si può fare a meno: basta far finta di averle (avute), in modo da rendere potabile anche il più inguardabile guazzabuglio di immagini che ovviamente avremo denominato Portfolio 1 o meglio ancora Opus #1. Ecco, è tutto. Ora se hai voglia che ti renda meno chiaro e più complicato quanto ho appena detto (che poi non è certo la scoperta dell'America), puoi anche continuare a leggere, a tuo rischio e pericolo. Secondo la legge di Murphy se una cosa può andar male, di certo lo farà. Così - ad esempio - se una fotografia si può sbagliare, ci sono ampie possibilità che risulterà proprio sbagliata: fuori fuoco (e non leggermente), male inquadrata, male esposta, insignificante. E visto che le cose spesso procedono (o almeno procedevano una volta) in questo modo - e la fotografia sembra un campo in cui la legge di Murphy e i suoi corollari impazzano - ecco che l'Industria ha intuito che su questo si poteva lavorare e, s'intende, guadagnare bei soldoni. Così, pian piano, sono nate delle fotocamere "Murphyproof", a prova di (legge di) Murphy. Che oggi sono costituite principalmente da quelle contenute negli smartphone, con cui sbagliare è questione di talento, quello vero. Oggi dire a qualcuno che una sua foto è sbagliata vuol dire quasi fargli un complimento. Bei tempi quelli in cui mi capitava di ammirare - sdegnato, allora - foto completamente sbagliate, ma di brutto. Quasi ho nostalgia di quei tempi in cui l'errore imperava, e la crescita culturale di un fotografo consisteva nel saper sfruttare adeguatamente tali errori, o nell'evitarli. Oggi sono diventato un malefico cercatore di peli nell'uovo, almeno quando esamino le foto altrui. Magari la foto è un po' "grigiastra" (o "grigietta" se mi piace minimizzare), o la messa a fuoco non è perfetta, o l'inquadratura un po' così. Ma poi lo sanno tutti che con un "crop" e un colpo di curve e qualche app tutto si mette a posto. E che Murphy si fotta. E' evidente che il focus si sia spostato molto, ma molto di più su cosa ci fai con quelle foto "non sbagliate". La fotografia è morta, magari, ma non la capacità di comunicare attraverso di essa. Potrebbe addirittura essere che questo fenomeno di cui sto discettando sia qualcosa di buono, e di vantaggioso. Perciò la mia proposta è sempre stata quella di evitare di ricadere sempre nel mito superato della perfezione tecnica, che oramai è alla portata di tutti e si può apprendere nel tempo di un tutorial su YouTube. Davvero. Poi si può limare un po' lì e un po' di là, ma insomma, che ci vuole? Ho visto bambini quasi in fasce prendere lo smartphone della madre e in cinque minuti fare fotografie perfette. Migliorabili per l'inquadratura, si potrebbe dire, ma con oltre 100 megapixel hai voglia a croppare e a creare il giusto "taglio" secondo le regole corrette.
Io me lo ricordo quando, ai tempi della pellicola, la gente andava dal negoziante anche solo per inserire il rullino nella fotocamera compatta, visto che la volta precedente non si era agganciato e non era venuta nemmeno una foto. Ah, come avrebbe goduto il buon Murphy! Mi sovviene però che alla legge di Murphy ci sono innumerevoli corollari che vanno a esaminare ogni remoto recesso della sfiga che - com'è noto - ci vede benissimo, ti cerca attivamente e quasi sempre ti trova. Uno di questi corollari è definito "terza legge di Chisolm" (le due che la precedono ci interessano meno): "le proposte sono sempre capite dagli altri in maniera diversa da come le concepisce chi le fa". Urca. Dunque sono consapevole che l'ironia (spero anche l'autoironia) con cui sto scrivendo queste note sconclusionate, venga percepita nel modo sbagliato. Ma nonostante questo, vado avanti e che la buona sorte mi assista. La citata legge a sua volta ha ben tre corollari: "se si spiegano le cose in maniera tale che nessuno possa non capire, qualcuno non capirà" è il primo, e temo che stavolta anche tu abbia capito fischi per fiaschi. Ma anche questo potrebbe non essere grave, visto che sono stanco anche di gente che dice sempre d'aver capito tutto, dai vaccini alla fisica quantistica, dall'istogramma di Lightroom alla conta dei megapixel. Il secondo corollario recita:"se si fa qualcosa con l'assoluta certezza dell'approvazione di tutti, a qualcuno non piacerà" e scommetto che su questo concorderai anche tu che capita praticamente sempre. Realizzi il tuo bel progettino fotografico "furbetto" fatto apposta per raccogliere consensi e approvazione, poi vai alla "Lettura Portfolio" e te lo smontano in due secondi, per lodare magari quello accroccato in modo incomprensibile dal tizio dopo di te, che vincerà un premio per una serie di immagini "di rara intensità". Il terzo corollario afferma con una certa sicumera che "se si vuol mettere qualcuno di fronte al fatto compiuto, il fatto non si verificherà". Mi sa che a questo punto siamo fregati. Ma consoliamoci: oggi come oggi la fotografia è diventata "liquida" per utilizzare un termine in voga, e c'è stato un generale tana libera tutti e ognuno va per conto suo, secondo il motto "l'errore non esiste", o con lo slogan "le regole sono morte" e così via. Il che dal mio punto di vista significa appunto cercare di mettere lo spettatore dinanzi al fatto compiuto - l'aver scattato la foto a casaccio e senza nemmeno un'idea, ma vedi quant'è figa? - solo che il fatto fondamentale (l'aver invece scattato una foto significativa) non si è affatto avverato. Ma con un po' di ragionamenti contorti, si riesce a ingannare chiunque, specialmente gli altri fotografi, che in tal modo si sentono liberi di fare altrettanto. In altre parole: un'idea confusa (o inesistente), una serie di foto inconcludenti che sembrano seguire quell'idea (vabbe') e una paginetta di Word in cui si spiega le contorsioni dell'anima autoriale nel cercare di rappresentare ciò che "non potrebbe essere rappresentato", e l'Opus #1 è pronto. Poi devi solo giurare sulle Sacre Tavole che questo progetto è costato mesi - anni, forse l'intera vita - per essere portato a compimento. Come potresti tu, spettatore, non apprezzarlo? Peggio: non comprenderlo? E' insomma un modo per infrangere la legge di Murphy della fotografia di cui parlavo all'inizio. Non ha alcuna importanza come verrà la foto, se nitida o sfocata, se mossa o bella ferma, esposta correttamente o bruciata: conta appunto l'idea. Che è una gran cosa, sono anni che ci batto su questo concetto. Solo che - mannaggia la paletta - l'idea occorre averla, e magari averla prima di scattare la foto. E l'idea è qualcosa di profondo e complesso, qualcosa che va gestito, organizzato. Mentre spesso è appena abbozzata e, dopo aver fatto tutte le foto, ci si arrangia con un ragionamento stiracchiato più o meno incomprensibile, spacciato per profonda riflessione esistenziale. Invertendo il secondo corollario, infatti, se si fa qualcosa con l'assoluta certezza di suscitare disapprovazione, a qualcuno il tuo bel progettino piacerà, sicuro. Specialmente alle persone giuste. Potresti chiederti cosa mi sia successo per tenere questo atteggiamento effettivamente un po' acido. Nulla. Mi capita, quando sfoglio qualche rivista di fotografia, di ondeggiare tra il senso di colpa per non "capire" certe fotografie e il senso di fastidio che provo nel guardarle, oltre a un certo bruciore di stomaco che spesso - se mi capita - sfogo scrivendo...
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