MARCO SCATAGLINI
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Il teleobiettivo di Paul Virilio

16/12/2021

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Ogni buon fotografo sa bene che un obiettivo grandangolare "allontana" i soggetti, ma nello stesso tempo ne mette dentro parecchi, mentre un teleobiettivo "avvicina" i soggetti, però li seleziona, inserendone nell'inquadratura molto pochi. Insomma, il grandangolare è descrittivo, il tele è selettivo.

Questo, in fondo, è parte del linguaggio stesso della fotografia, che "parla" anche attraverso precise scelte dell'angolo di campo. Non a caso per decenni i fotografi, soprattutto di reportage ma non solo, amavano il "normale" e spesso utilizzavano solo quello: una buona via di mezzo, che mostrava il necessario senza esagerare. Per "selezionare", poi, bastavano due paia di buone gambe: avvicinarsi o allontanarsi - fisicamente - era lo zoom di una volta.  Una tecnica dimenticata, oramai.
Foto
Ma astraendo dal campo puramente fotografico, ma rimanendo nel settore dell'arte, quello a cui assistiamo oggi, nel XXI secolo, è un progressivo "accecamento", una crescente incapacità di vedere davvero perché si è sempre troppo lontani, sempre collegati attraverso una modalità telescopica. "L'oggettività è diventata una teleobiettività" scriveva già nel 2004 il filosofo Paul Virilio, famoso per i suoi studi sullo sviluppo della tecnologia e i suoi effetti sull'uomo.

"L'arte dell'accecamento" è appunto il titolo del libricino che ho appena letto, districandomi in una prosa a volte sconnessa, difficile da seguire, in cui però emergono intuizioni felici e illuminazioni che mi hanno affascinato. Anche e soprattutto come fotografo, cioè di fatto come operatore di un campo - potremmo definirlo genericamente delle arti visive, ma dominato dai video - che è coinvolto in prima fila da questa evoluzione (se di evoluzione si tratta) della società.

Virilio sostiene che viviamo nell'epoca del "vedere senza andare a vedere", del percepire senza esserci veramente, eppure costantemente intenta a far finta di guardare, a debita distanza telescopica, come nello slogan dell'agenzia Corbis fondata nel 1989 da Bill Gates: "Noi siamo ovunque guardiate. Sempre e in ogni luogo del mondo".

"Dilatazione scopica" la definisce Virilio: senza spostarci dal nostro punto di osservazione, guardare al mondo ed essere sempre presenti, ovunque, in ogni istante, pensando in tal modo di riuscire a "capire", quando invece siamo accecati dalla distanza, anche emotiva, che ci separa da ciò che avviene, spesso anche solo dietro casa. Questo, invece di rassicurarci, ci spaventa: è dai tempi della Guerra Fredda che la società occidentale è una società dominata dalla paura e, come sosteneva Albert Camus, "il lungo dialogo tra gli uomini si è interrotto. Un uomo che non si può persuadere è un uomo che ha paura". Frase particolarmente di attualità in quest'epoca di pandemia. 

Nel corso del tempo, l'arte, il cinema, la letteratura e anche la fotografia hanno alimentato questo senso di "panico" costante, di dissoluzione delle certezze, insinuando il dubbio - mascherato da senso critico - e pilotando la nostra percezione verso gli spazi dell'indeterminato: quel che serviva a rivelare - in senso epifanico - diventa invece una sorta di velo di Maja impossibile da superare.
Foto
A dimostrazione di questa tendenza a guardare le cose da lontano, da un lato per estetizzarle, dall'altro per nasconderne le implicazioni più "umane", Virilio porta ad esempio le riprese, cinematografiche e fotografiche, fatte dall'alto. Già Nadar, alla metà dell'ottocento, riprese Parigi da un pallone aerostatico e da allora la rincorsa a questo guardare verso terra da un punto di vista elevato non ha conosciuto ostacoli, fino ad arrivare ai satelliti.

"Invece di osservare la linea che divide il cielo dalla Terra , si osserva la superficie... come un tempo si contemplavano le stelle" scrive il filosofo francese. Consideriamo che il saggio è scritto in un'epoca in cui non era ancora iniziata la moda dei droni: oggi chiunque può riprendere la superficie dall'alto, scattare fotografie o fare riprese "creative" in cui però il punto di vista è quasi sempre al nadir, direttamente verso il basso. In tal modo non si comprende di più, si vedono solo più cose, spesso semplicemente effetti grafici, o contrapposizioni di colore.

E l'arte contemporanea questa ricerca della distanza l'aveva già iniziata da tempo, come scrive Marek Halter a proposito di Jackson Pollock: "il primo ad aver abbandonato il cavalletto, una volta posta la tela per terra per cogliere il quadro dall'alto. E' come un paesaggio visto dall'aereo".
Foto
Il punto è, come sottolinea Virilio, che oggi le persone non vogliono vedere, ma essere viste, e dunque la fotografia - nel nostro caso - diventa il mezzo per farsi notare, per cercare di emergere dalla massa, cosa ottenibile principalmente attraverso immagini che non siano controverse, rivelatrici, significative, ma semplicemente estetizzanti, e che anzi, come certa architettura contemporanea fatta di vetri e trasparenze, di cavi e superfici sottili, diventino quasi invisibili, puro supporto per effetti in grado di "colpire" lo spettatore. Di fatto rinunciando al ruolo che la fotografia, e l'arte in generale, ha sempre avuto, di essere "sguardo reso materia", dunque qualcosa di rivelatore.

​I fotografi erano quelli che rendevano visibile l'invisibile, oggi spesso si limitano a rendere più bello quel che è sotto gli occhi di tutti.
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Fatti non foste a viver come bruti...

1/11/2020

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Le recenti proteste del mondo dello spettacolo, dell'arte e della cultura (a cui in fondo sento di appartenere) mi hanno fatto molto riflettere. Durante questa pandemia, il ruolo della cultura è stato narrato senza il solito velo di ipocrisia. Se ci sono stati ministri che hanno potuto dichiarare che "con la cultura non si mangia" - con conseguenti polemiche - oggi vediamo che alla fine anche chi contestava quelle assurde affermazioni - in fondo, in fondo - le condivideva in gran parte.

Infatti, la cultura non è vista come un settore economico (una vera e propria industria) di fondamentale importanza (e già questo è grave), ma nemmeno per quello che è davvero: la "cosa" più importante che abbiamo. Se si cerca di salvare palestre e centri estetici, discoteche e sale giochi, non altrettanto si fa con cinema e teatri, e con tutti quei luoghi o quelle iniziative legata appunto alla cultura. In fondo, si pensa, non sono "beni indispensabili" come il benessere del corpo o il divertimento ma soprattutto l'industria, l'economia, il "consumo".

Nella migliore delle ipotesi, visto che la gente deve restare a casa, la cultura diventa "un passatempo", qualcosa che serve a non annoiarsi troppo, un'alternativa (ma secondaria) ai videogiochi.

Questo fa a pugni con la mia profonda convinzione che la cultura nelle sue molte sfaccettature sia invece la ragione stessa della nostra vita, quel che la rende degna di essere vissuta, il filtro attraverso cui possiamo guardare al mondo, alla bellezza della natura o alla bellezza del pensiero, con la possibilità se non di comprenderlo, almeno di accettarlo e farlo nostro.
Foto
Così, mi è venuta in mente una poesia che avevo scritto qualche anno fa. In vita mia ho pubblicato una sola raccolta in versi ("Storie in punta di piedi"): si tratta di poesie che narrano di alcuni luoghi che ho visitato per il mio progetto fotografico "Una Momentanea Eternità" e che mi hanno ispirato delle storie, anzi mi hanno fatto percepire delle "presenze", quelle dell'ultima persona che è andata via dal luogo stesso e che - nella mia immaginazione - viene condannata a rimanervi come spirito. Si tratta di località della Tuscia, alcune famose altre molto meno, alcune insignificanti, come quella legata alla storia del "Giardino di Eleonora".

Durante i miei giri in bici sono spesso passato davanti al rudere che vedi nella foto in alto (una fotografia stenopeica) che, in primavera, è circondato da una folta fioritura. E mi è nata l'idea di questa bambina, che viveva col padre nel casale quando era ancora in piedi, e che aveva la passione di coltivare fiori, in un'epoca e in contesto in cui solo ciò che aveva valore economico (di sussistenza) poteva avere un significato.

Nella mia mente Eleonora rappresenta la parte di noi che sa bene che senza pane si potrebbe morire di fame, ma che senza bellezza si vivrebbe invano. Mi sembra una storia appropriata, e dunque la propongo qui sotto, dedicandola a tutti coloro che vivono di cultura, che la amano, che la apprezzano, che ne riconoscono il valore, e che ora soffrono più di altri a vederla considerata così poco.

​
Il giardino di Eleonora
 
Nel pallore esangue
di un’esausta primavera,
guardavi con intensità
le farfalle posarsi
di corolla in corolla
come fiori volanti
tra i fiori del tuo giardino,
Eleonora.
 
E avevi nome da regina,
sebbene il tuo regno
non avesse per confini
che quel piccolo
quadrato di terra
colmo di rose e violette,
garofani e gigli candidi,
dove solo le fate
potevano contestare, forse,
il tuo dominio.
 
Accanto al casale arcigno
coltivavi insieme ai fiori
anche i tuoi sogni,
ed entrambi crescevano floridi,
all’ombra d’un destino incerto.
 
E quando i contadini passavano,
ti canzonavano allegramente:
carciofi e non gigli,
cavolfiori e non violette,
pomodori e non garofani
dovresti coltivare, Eleonora,
che la bellezza non si mangia
e la terra a questo serve,
a riempire stomaci vuoti,
non anime sensibili!
E tu sorridevi timidamente
e carezzavi i petali morbidi
ben sapendo in cuor tuo
che senza cibo si può morire
ma senza bellezza
invano si vivrebbe.
 
Tuo padre affidava ai solchi
i semi del suo rimpianto,
che producono frutto,
ma solo al prezzo
d’una dolente solitudine.
E non aveva coraggio
di sottrarti quel rettangolo di colori
anche se sarebbe stato necessario:
vi girava attorno con la zappa,
e non lo violava.
Di tua madre,
quello solo restava:
il profumo delle rose
che si spargeva
tra le piante di fagiolo
e le zucchine.
Prosa e poesia
di sere sempre uguali.
 
Ma poi,
nella stagione dei cieli grigi,
arrivò il momento d’andare via.
Nessuno sa perché,
ma tutti sanno come,
e quanta pena costa.
Lui non disse una parola:
custodì come cosa preziosa
la tua mano bambina
tra le dita ruvide da mezzadro
e ti portò via.
 
Attraverso il velo delle lacrime
vedesti per l’ultima volta
il tuo giardino, Eleonora:
e quello che venne con te
fu solo uno sfocato ricordo.
Il tuo giardino abbandonato,
sopravvisse solo qualche mese,
prima che le fate
venissero scacciate
con trattori e aratri.
 
Ma da allora,
ogni anno, i fiori selvatici,
il tasso barbasso e il cardo,
la margherita e l’elicriso,
sbocciano dov’era un tempo
il tuo piccolo eden…

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La fotografia è un'attività costosa?

22/9/2020

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Foto
Scommetto che ti hanno sempre detto che la fotografia è una passione costosa, che per ottenere risultati davvero eccellenti non puoi non possedere una fotocamera di alto livello e "lenti" altrettanto di qualità.

E se ti dicessi che è assolutamente falso?

La mia fotocamera più "performante" (in termini meramente numerici) è una APS-C da 20 megapixel, consente di ottenere files stampabili senza problemi anche nel formato 70x100 cm e più, ha tutto quel che serve per gestire nel miglior modo possibile i parametri della ripresa, un display OLED touchscreen davvero comodo, e oltretutto è compatta e abbastanza leggera. Con il suo 16-50 mm riesco a ottenere foto di cui sono pienamente soddisfatto, specialmente quando penso a quanto l'ho pagata: 70,00 € (solo corpo), naturalmente usata!

Dirai: com'è possibile? Semplice, si tratta di una mirrorless Samsung del 2013 (la NX300), e visto che la casa coreana è uscita dal mercato strettamente fotografico già da qualche anno, le sue fotocamere (di altissima qualità, basta leggere le recensioni pubblicate a suo tempo sui vari siti online) hanno subito un rapido deprezzamento. Inoltre il mio esemplare ha un piccolo difetto: la rotellina che serve a cambiare i parametri è rotta, sebbene sia possibile utilizzare per lo stesso scopo il display touchscreen, e questo ne ha ulteriormente abbassato il "valore". 

Molti fotografi non accetterebbero mai di avere un modello obsoleto (anche se assolutamente valido), tanto meno un esemplare difettato. A me invece non importa e nel tempo ho acquistato diverse fotocamere a prezzi stracciati, che utilizzo col cuore leggero concentrandomi assai di più sui soggetti che alle specifiche tecniche della fotocamera stessa. Ma non voglio certo convincerti a fare lo stesso. Se desideri e puoi permetterti una "Super Full Frame" del valore di diverse migliaia di euro va benissimo lo stesso, ma il punto vero è: se disponi anche solo di 100,00 € puoi avere comunque una buona fotocamera, non top di gamma ma sufficiente per la gran parte degli utilizzi. In ogni caso non è lei a fare le foto: sei tu!

Insomma, come ho scritto nel post della settimana scorsa, per imparare a fotografare in modo adeguato ti serve ben altro che una fotocamera: ti serviranno fantasia, impegno, ironia, curiosità, competenze... tutte cose che purtroppo non puoi comprare, sebbene tu possa magari avvantaggiarti seguendo un corso (come il mio corso "Smettere di Essere Principiante" realizzato assieme a Reflex-Mania) o leggendo dei libri (anche in questo caso ti consiglio di dare un'occhiata alle mie pubblicazioni).

Sono strumenti in grado di accorciare i tempi ed esaltare le tue capacità, ma comunque la gran parte del lavoro spetta a te. E davvero questa è l'aspetto più intrigante della fotografia!
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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