MARCO SCATAGLINI
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Deserto o Irlanda?

15/2/2022

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La fotografia di paesaggio inganna, e anche tanto. Vediamo immagini in cui sembra di ammirare luoghi selvaggi, solitari, intatti - e a volte sono davvero luoghi del genere - per poi scoprire che la foto è fatta da un belvedere in ci si parcheggia comodamente e ci sono piattaforme predisposte appositamente per i fotografi. Penso a tanti luoghi dell'Islanda, ad esempio, o anche del Sud America. Oramai tutto è addomesticato, trasformato in fondale utile per gli scatti dei danarosi fotografi occidentali pronti a pagare profumatamente pur di riprendere "quella foto" nello stile di Ansel Adams. E disposti anche ad attendere ore che i cento fotografi arrivati prima finiscano di riprendere il "grandioso paesaggio" e mollare il posto in prima fila.

Diciamocelo: l'errore è tutto nella prospettiva - chiamiamola così - con cui guardiamo ai luoghi, che poi dipende direttamente dalla nostra competenza e dalla nostra cultura. Ne abbiamo esempi anche vicino a noi, magari dietro casa. Infatti, il tipico paesaggio italiano quale potrebbe essere? E' vero, abbiamo alte montagne, scogliere, cascate, ma in effetti quando si pensa al "Bel Paese" il "quadro" che ci viene in mente è più o meno come quelli ripresi dai pittori Romantici: colline, campi coltivati, cipressi e pini, qualche rudere. Dunque è la campagna la nostra "frontiera" visiva. Già i Romani, in fondo, amavano il "locus amenus" (la campagna, bella e piacevole).
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Così abbiamo anche noi i nostri "cliché" e leggendo le riviste di fotografie pubblicate ad esempio negli USA o in Gran Bretagna, spesso si vedono le pubblicità di viaggi organizzati nel "Chiantishire", tra le colline del Senese. E sempre vi compare l'immagine di un colle emergente tra le nebbie con, in cima, un casolare circondato da cipressi. Il corrispettivo visivo di "pizza e mandolino". 
Ovviamente la realtà è invece che i campi coltivati in modo intensivo sono il più delle volte non già simili ai romantici luoghi idilliaci e sereni, ma dei veri e propri deserti biologici. "Steppa agricola" viene definita scientificamente, ma questo quando - oramai è raro - si utilizzano sistemi di coltivazione non chimicizzati e dunque accanto al grano crescono anche le piante della "flora messicola", invece praticamente scomparse su gran parte del territorio, che sempre più spesso è dapprima verde in modo omogeneo e poi, prima del raccolto, giallo in modo uniforme, senza le macchie rosse dei papaveri o viola del fiordaliso. La cosa bella (si fa per dire) è che per molte persone questi paesaggi sono "natura", solo perché sono verdi. Indubbiamente affascinanti e fotograficamente remunerativi, magari, ma di certo se sono natura è una natura morta, il più delle volte.
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La colpa non è certo dei coltivatori, stretti tra le logiche di mercato e le necessità di far quadrare i conti. Le industrie richiedono prodotti "perfetti", e vaglielo a spiegare alla gente che le nocciole così belle e perfette richiedono spargimenti di diserbanti e anticrittogamici in quantità assurde, che poi uccidono i corsi d'acqua e i laghi (come il Lago di Vico) o che visto il costo del grano al quintale è impossibile reggere economicamente con una resa per ettaro che escluda il ricorso a veleni sempre più potenti e mirati e che dunque lasciare spazio ai fiordalisi è una romanticheria d'altri tempi. La colpa è anche nostra, di noi consumatori (che brutta parola...), che non ci fermiamo mai a pensare a come e dove ogni merce è prodotta e su quale sia la sua "impronta ecologica".
A questo - e altro - pensavo mentre qualche giorno fa mi son fermato a fare delle foto alla "steppa". Certo, è affascinante. Sarebbe ancora più bella se in primavera si riempisse di fiori per creare foto come quelle di Franco Fontana degli anni '70 (altro cliché, ma almeno ecologicamente più sostenibile), invece è perfetta, quasi brutale. Lavorata a macchina, priva di imperfezioni, sembra di plastica, sembra una moquette stesa fino a perdita d'occhio e mi sa che per questo piace tanto allo sguardo dell'uomo contemporaneo. Cosa sono tutte quelle imperfezioni dei campi tradizionali? I muretti a secco, i boschetti, le siepi? Roba d'altri tempi, inutili romanticherie.
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Tempo fa, in una polemica sulle pale eoliche che stanno invadendo la Tuscia (provincia di Viterbo) dove abito e dove ho fatto le foto che illustrano questo post, molti hanno definito questo territorio "l'Irlanda d'Italia", come a dire che le verdi colline che si susseguono, in effetti senza particolari scempi edilizi o altre brutture, sono come la nostra brughiera. Un paesaggio naturale da salvaguardare. Ahimé non è affatto una brughiera, di farfalle ne volano pochissime, le api stentano a svolgere il loro grato mestiere. Sono invece l'effetto di uno "progresso" altrettanto sbilanciato e poco lungimirante di quello delle pale eoliche e degli impianti fotovoltaici. Che - naturalmente - non sono un male in sé, ma giocoforza diventano il simbolo di una civiltà energivora, incapace di pensare al "poco ma buono", meno energia, meno spreco, meno veleni, più salute e bellezza.

Quante volte senti parlare, nel dibattito sui mutamenti climatici, del risparmio energetico? La logica è come continuare a sprecare energia come oggi, solo producendola con sistemi che non emettano CO2. Ecco, con l'agricoltura è la stessa cosa. Se acquistassimo prodotti di qualità, magari biologici o almeno coltivati con metodi integrati, sprecassimo meno cibo, pretendessimo cibi non industrializzati pieni di sale e di zucchero e così via, i campi tornerebbero forse a macchiarsi di viola, di rosso, di giallo, di bianco. Che festa per gli occhi sarebbe! Come ancora accade, per fortuna, nei pascoli o nelle aree dismesse, quelle che l'uomo dimentica o abbandona.
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Che valore ha la bellezza? Un valore immenso, che però nessuno può tradurre in ricchezza concreta, in euro o dollari. Per questo, in verità, siamo tutti più poveri.
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Il fotografo viaggiatore

10/9/2021

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Questo presumo sarà il post più impopolare che abbia mai scritto. Fa niente, in tutta coscienza il mio scopo è offrire spunti di riflessione, poi ognuno - come sosteneva Henry David Thoureau - "è garante di se stesso". 

Il punto di partenza del mio ragionamento è che i fotografi - in larga maggioranza - pensano che per fare belle fotografie occorra viaggiare.

Alcuni di loro scattano fotografie solo quando sono altrove rispetto alla propria abitazione, possibilmente molto, molto lontano. Il fenomeno non è certo nuovo, ma solo oggi deve fare i conti con il costo ambientale di simili pratiche.
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Pensare a progetti fotografici che impongano di viaggiare da un capo all’altro del mondo dovrebbe anche spingere a fare due calcoli. 
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Un aereo immette in atmosfera (oltretutto in quota) quantità immense di idrocarburi e gas serra. Si calcola che ogni singolo aereo in volo inquini come 600 auto Euro 0. Dal 2025 il traffico aereo da solo immetterà in atmosfera, ogni anno, 1,4 miliardi di tonnellate di Co2.

Dunque diventa particolarmente ironico che spesso simili progetti fotografici sono concepiti appunto per denunciare i mutamenti climatici o le problematiche ad essi correlate. In pratica è come se un fotoreporter si mettesse a lanciare un po’ di bombe in uno scenario di guerra prima di scattare.

Eppure di progetti simili ne vedo parecchi, e pochi di loro assumono una rilevanza tale da diventare decisivi quando si tratta di ottenere dei risultati concreti, ad esempio presso i politici. Altri tempi quando grazie alle proprie foto Ansel Adams riusciva a creare aree protette o a salvare luoghi incontaminati!

Mi sono sempre chiesto, ad esempio, perché simili progetti non possano essere ideati mettendo in rete i fotografi locali: se intendo testimoniare gli effetti della desertificazione, posso contattare fotografi in ogni parte del mondo che sia colpita dal fenomeno - non è questo il bello di Internet? - creando poi un progetto collettivo. 

Ciascun fotografo viaggerebbe a corto o medio raggio, restando comunque all’interno della propria “area di competenza”. Questo, oltretutto, permetterebbe a ciascun autore di realizzare foto con molta più calma e partecipazione. Ma lo so, il fotografo “vuole fare da se” ciascuna fotografia, anche se non necessario, specialmente per progetti ad alto contenuto giornalistico. 
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A onor del vero ci sono numerosi artisti – e molti di loro è dura definirli fotografi sebbene utilizzino la fotografia – che sfruttano l’enorme massa di immagini disponibili online per concretizzare le loro idee, divenendo dunque “catalogatori” o “rivelatori di senso” e rinunciando all’aspetto manuale, artigianale della pratica artistica.

In fondo ci sono miliardi di fotografie che ogni anno si aggiungono nell’immenso archivio virtuale di Internet. Davvero c’è bisogno di aggiungerne altre? sembrano chiedersi questi autori, o piuttosto non è preferibile cominciare a “utilizzarle” secondo quel processo che molti definiscono “appropriazione” ma che il fotografo, curatore e artista Joan Fontcuberta chiama piuttosto “adozione”?

«Appropriarsi di qualcosa significa “catturarlo”, adottarlo significa invece “dichiarare di aver scelto”. Nell’adozione prevale l’atto dello scegliere su quello del privare. Adottare, quindi, mi sembra un proposito genuinamente postfotografico: non si reclama tanto la paternità biologica di un’immagine, quanto la sua tutela ideologica (cioè la prescrizione di senso)» scrive Fontcuberta in “La furia delle Immagini”.
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Ma anche i progetti realizzati "ex novo", specialmente se molto creativi, di rado richiedono grandi viaggi, come dimostrano le esperienze dello stesso Adams, o di Weston o di Minor White che spesso nemmeno usciva di casa, così come di Josef Sudek, che realizzava i propri capolavori in cucina o in giardino, o nella propria città, Praga (lo stesso vale per Atget e Parigi). 

Indubbiamente il fotogiornalista che insegue i fatti di cronaca fa eccezione, ma quanti ne conosci? La stragrande maggioranza dei fotografi potrebbe viaggiare pochissimo e ottenere risultati migliori: anche questo è impopolare ma, se ci pensi, è così. Viaggiare è piacevole e divertente, ma in un’epoca di crisi climatica dovremmo almeno pensarci su, se non altro per ridurre drasticamente i viaggi in aereo, accorciando le distanze. 

A un’ora dalle grandi città ci sono luoghi incredibilmente belli, tutti da esplorare. E i luoghi più lontani possono essere raggiunti in treno, ovviamente stabilendo una durata più lunga del viaggio. Ma uccidere il pianeta per fare un weekend lungo a Parigi, Londra o addirittura New York – approfittando dei voli LowCost – è una follia che non possiamo più permetterci (come quella dei pacchi che arrivano in un giorno con le merci ordinate online, di cui forse parlerò in un prossimo post).

Vorrei sottolineare anche un altro fenomeno: oggi i posti “belli” sono sempre considerati da un'altra parte.

A volte è solo un’illusione, ma spesso è vero. Nel senso che la gran parte della popolazione vive in città di cemento e asfalto, soffocate dal traffico e sovrappopolate. Ovvio che si abbia il desiderio di “evadere”. Si è talmente convinti che oramai a due passi dalla città non ci sia nulla che valga davvero la pena di vedere, che si finisce per non muovere un dito quando questi luoghi - che invece esistono, eccome - vengono messi in pericolo o distrutti dallo sviluppo edilizio o dalle speculazioni agrarie. Uno si aspetterebbe che ci vive, in certi quartieri, faccia una rivoluzione quando l'area verde più prossima è in pericolo, ma la verità è che molti dei residenti conoscono magari un bosco a duecento chilometri di distanza, ma ignorano quello a due chilometri da casa! Dunque conoscere, apprezzare e fotografare i luoghi più prossimi è già di per sé un impegno civile e ambientale di alto valore. 
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Quando abitavo vicino Roma ero ben consapevole di questo fenomeno. Per questo ho realizzato un ampio progetto – diventato una mostra finanziata dalla Regione Lazio – sulla Campagna Romana (e un  libro dal significativo titolo “Tutt’Intorno Roma”) facendo perno sul Foro Romano e descrivendo una circonferenza col raggio di 90 Km, per poi fotografare i luoghi interessanti e spettacolari all’interno di questo spazio, ovviamente escludendo la città vera e propria.

Con mia sorpresa (e sorpresa di chi poi ha letto il libro e visto la mostra) ci sono davvero località incredibili, addirittura selvagge, con resti archeologici quasi dimenticati. Molto più interessanti di quelli che molti fotografi raggiungono facendosi due ore di auto (di più al ritorno, trovando il traffico del “rientro”).

E’ solo un esempio, sicuramente Milano, Torino, Napoli o Palermo hanno situazioni simili. Basta cercare. 

Ma vorrei anche far presente che i luoghi ancora più o meno intatti (storici, naturalistici, archeologici) non possono a lungo sopportare la pressione antropica che specialmente in certe stagioni li assale. Per questo bisogna da un lato ridurre l’assalto, ma dall’altro fare in modo che tutto il “mondo” sia bello e piacevole, almeno un po'. Queste aree più "quotidiane" potrebbero fare da cuscinetto, assorbire una parte dell'impatto legato alla voglia di "vita all'aria aperta" della gente, riducendo la pressione sui siti più preziosi. Impossibile? Difficile, forse, ma non impossibile.
 
Ci sono mille esempi di restauro paesaggistico e naturalistico, e mi viene in mente il meraviglioso CHM della LIPU a Ostia: dove c’era solo degrado, rifiuti e capannacce, oggi c’è un’area umida dove i fotografi possono realizzare facilmente foto - anche a specie animali rare - che un tempo richiedevano lunghi spostamenti. Senza nemmeno uscire da Roma!

Perciò, volendo, si può fare.

Ora ti spiego perché ho sempre avuto questa “fissa” dei viaggi brevi. Quando ero ragazzino, vivevo con la mia famiglia ad Anzio Colonia, una frazione della cittadina balneare a sud di Roma. Un luogo – francamente – bruttino, senz’anima. E mi ricordo mio padre che mi raccontava – lui, classe 1914 – di quando con gli scout, intorno agli anni ’30, andavano dal centro di Anzio (allora un meravigliosa cittadina di pescatori, con villette stile liberty frequentate dalle stelle del cinema) – a piedi – sino a dove era ora la nostra casa (e centinaia di altre palazzine anonime), piantando le tende nelle radure del bosco, che vegetava sulla scogliera a picco sul mare. La scogliera c’è ancora, ma sotto, sulla spiaggia, hanno costruito altri villini: ognuno vuole avere casa la più vicina possibile al mare!

Da allora, quei racconti, hanno creato in me la nostalgia di un mondo in cui, uscendo di casa anche a piedi, si può varcare una sorta di soglia ed entrare nella natura e nella bellezza. Certo, sono consapevole che non sarebbe stato possibile mantenere tutto come allora, ma sono altresì certo che si sarebbe potuto gestire il tutto in maniera oculata, ad esempio vietando le costruzioni a ridosso della costa, e studiando il loro inserimento nel paesaggio, per ottenere oltretutto quartieri verdi e vivibili. Insomma, senza lasciare mano libera alla più bieca speculazione edilizia. Non credo sia un caso se gran parte dei politici locali di mestiere faccia il costruttore!

Oggi, grazie alla diffusione delle automobili, ci hanno convinto che non importa vivere in luoghi poco attraenti, con un’ora di guida si può andare “altrove”. E mi sono sempre chiesto: se la bellezza fosse a portata di mano, perché andare altrove?

Viaggiare è bello, e non sono certo contro il viaggio, se ben concepito. Ma oggi ci si sposta continuamente, magari solo per un fine settimana, o per un rapido viaggio di una o due settimane. Non sarebbe meglio organizzare qualcosa di più significativo – per noi fotografi, anche dal punto di vista delle realizzazione di un progetto – e viaggiare solo quando le condizioni sono quelle giuste, prendendo magari un mese di ferie (o un anno sabbatico) e fermandosi nei luoghi a lungo, in modo da ottenere davvero delle fotografie profonde e vissute? Era esattamente quel che faceva Ansel Adams, che durante l’anno lavorava come fotografo commerciale per racimolare i fondi per stare poi anche due-tre mesi nel parco di Yosemite, inseguendo le sue immagini.

Insomma, viaggiare meno, ma meglio. Avendo più tempo, si possono utilizzare mezzi più lenti, come il treno, appunto, ricorrendo all’areo solo per le località davvero troppo lontane, sebbene viaggiare una decina di giorni su una nave che attraversi l’oceano (come fece Stieglitz, cosa che gli permise di realizzare “The Steerage”, il ponte di terza classe, la sua foto più famosa) possa offrire spunti niente male! 

Penso anche ai viaggi che Roberto Salbitani faceva, e fa tutt’ora, su treni e autobus. Recentemente l’ho incontrato a SorianoImmagine e raccontava che volevano andarlo a prendere alla stazione di Viterbo per portarlo nella cittadina dove si svolgeva il festival, ma lui si è opposto decisamente: voleva prendere l’autobus per fare esperienze interessanti, conoscere gente, vedere il mondo vero, non quello che si scorge oltre il vetro di un parabrezza.
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Ci sarà un motivo per cui tutti questi fotografi li consideriamo maestri, esempi da seguire, o no? 

Ti lascio con un piccolo regalino: un piccolo ebook "contro il turismo". Ovviamente è ironico, ma spero serva comunque a far riflettere!

a_un_tiro_di_schioppo_marco_scataglini.pdf
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Ecosofia fotografica

31/8/2021

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Nato nel 1912 (e morto nel 2009), Arne Naess è stato uno dei maggiori filosofi (e alpinisti) norvegesi, ideatore della cosiddetta “Ecologia Profonda” (Deep Ecology) che non cerca soluzioni facili (e spesso inefficaci) ai problemi ambientali, ma ricerca un cambiamento nel pensiero e nei modi di vita che si adattino ai ritmi del pianeta, per consentirne la sopravvivenza. 
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Per la cosiddetta “ecologia superficiale” il metro di riferimento è sempre l’essere umano: dobbiamo avere atteggiamenti meno impattanti per salvare noi stessi. Per l’ecologia profonda, invece, occorre salvare tutte le forme di vita e gli ecosistemi e questo giocoforza porta alla sopravvivenza della nostra specie. Noi non siamo il metro di tutto, la natura lo è. Per salvare il mondo non possiamo solo "fare i bravi", dobbiamo cambiare completamente approccio, e anche il sistema economico e sociale.
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Leggendo il libro di Naess “Siamo l’aria che respiriamo” mentre mezzo mondo andava a fuoco (e poco tempo dopo che l’altro mezzo mondo era andato sott’acqua o veniva colpito da grandinate violentissime), mi sono reso conto che il filosofo norvegese è stato un inascoltato profeta. Già negli anni in cui scriveva i suoi saggi (tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90) si sono presentate tangibili evidenze dei mutamenti che il pianeta stava subendo, a cui – allora come oggi – si opponeva una stolta fiducia nella tecnologia (eccola, l’ecologia superficiale!) che avrebbe risolto magicamente ogni problema. Le magnifiche sorti e progressive, insomma.

Il messaggio di Naess era ed è chiaro: ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, fare pressioni affinché cambi profondamente l’approccio sia politico che economico alle questioni ambientali, che dovrebbero essere prioritarie su tutto, ma anche cambiare l’atteggiamento personale, che poi finisce per influenzare il “mercato”, dunque le scelte del “Capitale”.
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Cos'ha a che fare questo con la fotografia?
Potremmo dire che come fotografi abbiamo un potenziale duplice ruolo: da un lato quello di essere testimoni delle questioni legate ai mutamenti climatici e alle questioni ecologiche in generale, dall’altro scegliere di essere più parsimoniosi e oculati nelle nostre stesse scelte di acquisto.

Ora, se progettare veri e propri reportage su tematiche ambientali – ad esempio raccontando lo sciogliersi dei ghiacciai mettendo a confronto foto d'epoca e foto contemporanee, come fatto dal fotografo Fabiano Ventura - può essere considerato qualcosa di stimolante e creativo, insomma qualcosa di piacevole, evitare di cadere nella GAS (Gear Acquisition Syndrome, Sindrome dell’acquisto compulsivo) o comunque ridurre il proprio impatto ambientale come consumatori di prodotti elettronici è decisamente più complicato.

​Un fotografo utilizza strumenti altamente tecnologici: fotocamere digitali o analogiche (e dunque pellicole e sviluppi), obiettivi dotati di vetri per la cui realizzazione si utilizzano risorse preziose (come le terre rare) e molta energia, computer e monitor, oltre a batterie di ogni tipo. Un bel po’ di roba a notevole impatto ambientale!
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Chi si è mai posto il problema dell’impronta ecologica della fotografia?

In verità la questione è stata già sollevata nel passato recente. In un articolo del 2020 su Jumper.it, ad esempio, Luca Pianigiani scriveva: "una politica ambientalista nella produzione fotografica potrebbe essere un approccio da prendere in considerazione: la meravigliosa luce naturale (che belle le nuove fotocamere che hanno sensori in grado di riprendere quasi al buio con risultati incredibili), meno viaggi che creano grandi emissioni di Co2, questo per esempio significa usare una bicicletta invece che un’automobile, e questo porta ad avere delle attrezzature leggere, semplici, facilmente trasportabili senza casse e valigione. E, per estremizzare, significa scattare meno: ogni immagine occupa spazio, sui computer, poi sui server, che hanno bisogno sempre di più di alimentazione, ma il tema è ancora più profondo: dobbiamo comprendere (possiamo farlo, se ci impegniamo) che “tanto è peggio di poco”, che meno si produce  (anche se “virtuale” perché non c’è nulla di virtuale: i dati sono reali, occupano spazio, hanno bisogno di reti per essere trasmessi, “pesano”… smettiamola di credere che siano privi di una “fisicità”) e meglio sarà il prodotto che offriremo: vince il minimalismo, non l’abbondanza, la selezione e non l’eccesso, la sintesi e non l’essere prolissi".

Ecco, in queste considerazioni c'è già un po' tutta quella che potrebbe essere la nuova modalità di intendere la fotografia professionale (perché di quella si occupano Pianigiani e Jumper), sebbene la stessa logica si possa applicare a quella amatoriale.

D’altra parte occorre anche osservare che il mercato della fotografia sta cambiando molto e in verità il settore delle fotocamere è in netta crisi: c’è stato un calo delle vendite del 40% e oggi solo Canon e Sony (che da soli rappresentano il 70% del mercato) riescono a rendere più o meno redditizio il loro impegno nel settore. Nikon, che un tempo era il numero uno, oggi naviga in bruttissime acque con appena il 14% del mercato.
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Tutta questa fuga dal settore fotografico è andata a vantaggio dell’industria degli smartphone, che oramai sono lo strumento fotografico ampiamente predominante. Gli smartphone, a differenza delle fotocamere, vengono sostituiti molto più spesso (la media negli USA è di 26 mesi!) e sono un problema ambientale enorme: la loro produzione è fonte di squilibri geopolitici (soprattutto per l’estrazione di terre rare e del Coltan in particolare), di sfruttamento delle popolazioni, origina guerre e inquinamento delle acque e dell’aria. 
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Come scrive il sito Green.it, "l’estrazione dei metalli preziosi – un cellulare attualmente contiene circa 60 materiali diversi – oltre che essere molto spesso inquinante per l’ambiente circostante, è caratterizzata talvolta da condizioni di lavoro disumane. Oltre a questo, poi, il controllo delle miniere è uno dei motivi principali dei continui conflitti armati che sconvolgono luoghi come la Repubblica Democratica del Congo. Ma non è tutto qui: anche gli stadi successivi della produzione degli smartphone nascondono delle minacce per la salute umana, con l’esposizione degli operai a pericolosi agenti chimici".

Eppure non esitiamo un attimo a passare da un modello recente a uno ancora più nuovo, e questo non perché quello che abbiamo sia davvero obsoleto (cioè non più in grado di fare quel che ci serve) ma solo per il desiderio di avere la “novità elettronica”. Un desiderio che prende la forma evanescente del “bisogno”, che è un inganno bello e buono, spesso indotto. Tutti ci siamo cascati, volenti o nolenti. Mandiamo in malora il pianeta per qualche megapixel in più - dato che come fotografi è questa la caratteristica che ci attira maggiormente - sebbene serviranno comunque a fare le stesse foto scadenti (e non per colpa dello smartphone) di prima.

E’ vero che stanno partendo progetti di recupero e riciclaggio, ma è anche vero che occorre cercare soprattutto di ridurre l’impronta ecologica di tutte le merci, e dunque anche dei nostri amati “device”. Ovviamente gli “sviluppisti” utilizzeranno la classica leva del ricatto occupazionale: se non si acquistano nuove auto, nuove case, nuovi smartphone, nuove fotocamere ci saranno posti di lavoro in meno, le industrie chiuderanno, le famiglie finiranno a fare la fame, eccetera eccetera. Ma se teniamo conto che non fare nulla potrebbe invece portare a una crisi ambientale senza precedenti, è del tutto ovvio che la questione occupazionale deve venire dopo e può comunque essere affrontata attraverso serie politiche di conversione ecologica, ma reale, in cui si produca ciò che serve, non ciò che è utile a far arricchire gli “investitori”!

In un capitolo del suo libro Arne Naess fornisce alcuni consigli su come riorientare in senso ecologico profondo la propria vita. Non li riporto tutti, solo quelli che possono essere utili al fotografo, con un mio commento.

1 – “Utilizzo di mezzi semplici. Evitare strumenti complicati, non necessari e simili”. Quanti di noi hanno fotocamere che sono ben superiori alle proprie necessità? Pensaci: avere fotocamere che producono file pesanti significa dover acquistare computer più potenti, Hard Disk più capienti, obiettivi e accessori più complessi. Come scrive Pianigiani su Jamper, è una pia illusione credere che una foto digitale non sia "corporea" e non consumi risorse. Come è un'illusione credere che Internet stesso (meta finale di gran parte delle fotografie scattate) non assorba enormi risorse energetiche: la sola gestione dei Bitcoin (nemmeno l'unica struttura a utilizzare le blockchain) richiede 80 Terawatt/ora, con un consumo annuale di energia pari a quella di una nazione come il Cile o La Nuova Zelanda! La Rete Internet è la quarta "nazione" al mondo per consumo energetico, assorbe il 7% di quella prodotta a livello globale, introducendo in atmosfera quasi 11 miliardi di tonnellate di Co2. Da solo lo streaming video immette 300 milioni di tonnellate di gas serra, e la fotografia non è distante da queste cifre. Condividere meno fotografie online, utilizzare più accortamente i Social, porterebbe a una riduzione delle emissioni "avvertibile", insomma significativa.

Ma non è solo questo: anche evitare continui "upgrade" delle fotocamere è importante. Se pensi che l’intero settore della fotografia analogica oggi vive ricorrendo all’usato, visto che non si producono più fotocamere a pellicola, ti renderai conto che alla fine rimettere sul mercato fotocamere non più in uso rappresenta una scelta in grado di sostenere le esigenze di molti fotografi e ridurre - e di molto - l'inquinamento complessivo. Dirai: ma le fotocamere digitali si sviluppano molto più in fretta! Vero, ma a te cosa serve davvero? Io utilizzo ancora fotocamere di 13-14 anni fa, e quando me ne serve una particolare, vado sempre sull'usato. Possiedo una sola fotocamera acquistata nuova, il resto – obiettivi compresi –  l'ho preso come usato. Ci sono milioni di fotocamere ferme nelle case delle persone, che potrebbero tornare sul mercato e trovare nuova vita, e lo stesso vale per gli smartphone. Ci sono siti, come ReBuy, che garantiscono l’usato e ne specificano il risparmio ambientale. Dal punto di vista tecnologico, le fotocamere anche di dieci anni fa hanno prestazioni ampiamente sufficienti per la stragrande maggioranza degli utilizzi! 

2 – “Anticonsumismo”. Credo di aver esplicitato questo aspetto abbastanza ampiamente nel punto precedente. Si tratta di un atteggiamento che deve prevalere in ogni aspetto della nostra vita. Smettiamola di essere “consumatori”, cerchiamo di essere parte attiva della catena decisionale, a cominciare da ciò che acquistiamo. Già lo diceva Erich Fromm in “Avere o Essere”. Non siamo le cose che possediamo, siamo quel che abbiamo consapevolezza di essere. Un bravo fotografo è tale non certo grazie alla fotocamera che sceglie!

3 – “Assenza o basso grado di novofilia – amare ciò che è nuovo semplicemente perché è nuovo”. E anche qui Naess ribadisce il concetto del punto uno. La nuova fotocamera è davvero (davvero davvero) necessaria, ci dà accesso a qualcosa che sinora non siamo riusciti a utilizzare? Oppure è solo più “figa” di quella che abbiamo (o potremmo acquistare usata online)? Come scrive Naess “da un punto di vista ecosofico, quale sia il meglio per qualcuno dipende dalla sua visione del mondo. Quando, per esempio, diciamo che una certa macchina fotografica è migliore della vostra, non è detto che invece non sia un modello molto meno adatto a voi. Comprarlo potrebbe rivelarsi una scelta poco sensata, e quindi non si vede perché un ecosofo dovrebbe sentirne la mancanza”!

4 – “Evitare un tenore di vita troppo diverso – e troppo superiore a – quello degli indigenti (solidarietà globale dello stile di vita)”. E qui entra in gioco la consapevolezza di essere parte di una famiglia che deve contenere anche i popoli meno “fortunati”. Non so te, ma io penso spesso che con quello che spendiamo per una fotocamera ultimo modello, una famiglia in certe zone del mondo potrebbe camparci per un anno o più! Significa per forza dover fare una vita di rinunce? Magari no, ma evitare gli sprechi assurdi forse si, ricordandoci che l’1% della popolazione mondiale detiene una ricchezza pari al doppio di quella posseduta dal 90% della restante popolazione…

5 – “Preferire la profondità e la ricchezza dell’esperienza piuttosto che l’intensità”. E questo secondo me ha anche un riferimento alle scelte tecniche che si fanno. Riuscire a realizzare le foto notturne con tutte le stelle in cielo, o certe immagini complicatissime, richiede un grosso investimento economico in fotocamere performanti e ottiche di alta qualità. Non a caso nelle pubblicità è su questo che si insiste molto. Ma davvero sono fotografie utili, interessanti e buone? Davvero vale la pena utilizzare risorse importanti (e parlo dell'impatto complessivo, compresa la messa in rete sui Social) per l'ennesima fotografia "spettacolare" dell'islanda o delle Dolomiti di Brenta? Davvero in quel momento non è l’impegno tecnico a prevalere piuttosto che quello meramente esperienziale? Personalmente, nel corso del tempo, mi sono reso sempre più conto di quanta importanza abbia invece la fotografia semplice, senza fronzoli, che nel momento in cui la si realizza consente di concentrarsi solo sull’esperienza che si sta facendo, che non metta in mezzo vincoli tecnici di chissà quale complessità. E’ la fotografia che ha dominato la nostra arte per oltre un secolo, e che oggi sembra venir dimenticata. Per questo chi guarda a una foto di Guido Guidi o Luigi Ghirri le trova “banali” e poco interessanti, quando invece sono la prova di quanto quel che conta davvero sia lo sguardo, non la tecnologia fine a se stessa.

6 – “Sforzarsi di condurre una vita complessa – non complicata: cerca di realizzare quanti più aspetti possibili di esperienze positive in ciascun intervallo di tempo”. La fotografia deve essere un amplificatore delle esperienze nel momento in cui sono vissute, non essere l’esperienza in quanto tale, quasi a prescindere da ciò che si sta fotografando. Occorre partire dal vedere davvero il soggetto, fotografarlo nel modo più semplice possibile e lasciarsi coinvolgere da tutta l’esperienza, nel suo compiersi. Vedo sin troppi fotografi che pensano solo alle giuste regolazioni della propria fotocamera invece di perdersi a guardare come suggeriva Jodice. Una foto deve cambiare il tuo modo di percepire il mondo – anche se di pochissimo – altrimenti è inutile.

7 – “Tentare di vivere nella natura piuttosto che limitarsi a visitare posti belli”. Anche in questo caso la questione è spinosa: per troppi fotografi il gesto di scattare una foto è legato al viaggio, se non al turismo. Invece frequentare la natura più prossima o comunque i luoghi in cui viviamo è di fondamentale importanza per realizzare fotografie davvero significative. Il turismo poi – specialmente quello realizzato con aerei e navi da crociera – rappresenta un potente attacco all’ambiente e agli ecosistemi. Forse non ci si pensa mai abbastanza. Ci sono luoghi che hanno subito un pesante impatto ambientale solo per la voglia dei fotografi di fare - per l'ennesima volta - quella foto così bella! Questo video lo mostra in modo chiaro e francamente imbarazzante (da fotografo). E' folle inseguire luoghi sempre più lontani per fare foto che crediamo valide, quando a due passi da casa abbiamo un mondo di soggetti a cui noi - come autori - possiamo dar valore!
So che molti dei miei lettori troveranno questo post esageratamente apocalittico o pretenzioso. Tuttavia sentivo il bisogno di esprimere queste idee, e proprio in questo momento storico, in cui il tempo stringe. Potete anche definirmi un "Gretino": ne vado fiero. Da sempre ho cercato di avere un atteggiamento “a basso impatto ambientale”, a cominciare dalla scelta vegetariana fatta quarant'anni fa (più che per motivi filosofici proprio per ridurre l’impatto ambientale, altissimo nella produzione della carne e derivati). Ovviamente con le mie incoerenze, e anche qualche ipocrisia, che Naess stesso riteneva inevitabili visto che siamo umani e viviamo in una società che ti spinge sempre nella direzione del consumo.

Ma credo anche che sia proprio nell’avere la mente pronta a valutare la portata delle nostre azioni – accettando gli inevitabili errori – che sta il valore dell’ecologia profonda. Senza inutili sensi di colpa e autoflagellazioni, porsi sempre nella condizione di attribuire le giuste priorità nella nostra vita, questo è importante. A cominciare appunto dalla nostra amata fotografia.
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Una linea ben dritta

21/8/2021

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Con il post che uscirà tra qualche giorno inizierò una nuova stagione del mio blog, che sarà sempre più dedicato (anche se non in modo esclusivo) a tematiche fotografico-ambientali, non tanto perché parlerò di fotografia naturalistica o simili, quanto perché approfondirò quelle tematiche che permettano di ridurre il nostro impatto "fotografico" sul pianeta, in ogni senso. 
Magari sembrerà strano pensare che acquistare una determinata fotocamera piuttosto che un'altra abbia conseguenze a livello planetario, eppure è così. 

Ricordo ancora le polemiche nate a seguito di un mio articolo sulla rivista dell'AFNI (Associazione fotografi naturalisti italiani) "Asferico" in cui lamentavo la sponsorizzazione che la Nikon fa (o faceva allora, almeno) dei tornei di caccia ai predatori o "predator derby" (lupi e coyote in particolare), negli USA, in cui vinceva chi ne uccideva di più. 
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E pensare che un marchio di prodotti fotografici (ma anche di mirini per fucili di precisione) potesse sponsorizzare simili nefandezze era davvero una cosa ributtante. Ma potremmo anche parlare di come molti marchi del settore fotografico siano impegnati anche in quello militare (da sistemi di guida di missili a puntatori laser e via elencando), o abbiano comportamenti poco etici nei confronti dei lavoratori, o collaborino con regimi che opprimono i popoli, e così via.
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Non intendo di sicuro fare post di tipo "giornalistico" o simili: era solo per sottolineare che quando utilizziamo una fotocamera non dovremmo essere all'oscuro delle implicazioni che questo comporta, e semmai dovremmo sfruttare la nostra arte e capacità di narrare fotograficamente proprio per sottolineare determinate storture. Infatti, se le attrezzature fotografiche possono anche avere un impatto pesante sull'ambiente, e non solo, è anche vero che il loro utilizzo può servire a rendere efficaci - e auspicabilmente vincenti - certe battaglie per la salvaguardia della Terra. Per questo intendo anche proporre il lavoro di fotografi che su questo si stanno impegnando molto, o lo hanno fatto in passato.​
​

So che magari alcuni argomenti non saranno popolari - di certo non come spiegare per la milionesima volta cos'è la profondità di campo o come si realizza un HDR - ma in fondo di blog che spiegano come si fanno "belle foto" ne puoi trovare quanti ne vuoi, perciò preferisco concentrarmi su come realizzare fotografie "buone". Buone  da ogni punto di vista!
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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