MARCO SCATAGLINI
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Il mondo e la fotografia secondo Ansel Adams

21/10/2020

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Non c'è dubbio che  Ansel Adams  sia il fotografo di paesaggi naturali (in bianco e nero) più famoso al mondo, il più imitato, anche. Durante la sua lunga carriera ha prodotto fotografie che oramai sono delle autentiche icone, ma si è molto impegnato anche nella divulgazione oltre che nella salvaguardia del patrimonio ambientale statunitense. Insomma, una figura a tutto tondo, inserita tra l'altro in un contesto storico in cui erano attivi - e spesso suoi amici - tutti i maggiori fotografi americani della storia: da Stieglitz a Weston, da Dorothea Lange a Imoghen Cunningham. Scusa se è poco.
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Ovviamente, come fotografo paesaggista (in bianco e nero) sono anch'io un fan di Adams, sebbene abbia un approccio al soggetto profondamente diverso. Sono emerso proprio oggi dalla lunga lettura delle immagini contenute nel libro "400 photographs", una sorta di  "best of" del grande fotografo californiano, e ho letteralmente assorbito ogni singola fotografia, riflettendo a lungo su ciò che poteva insegnarmi.

​Il libro è organizzato in modo cronologico, ed è interessante vedere l'evoluzione nel tempo della sua tecnica e della sua filosofia di ripresa. Ovviamente ognuno può farsi un'idea personale delle fotografia che "legge" e analizza, così non voglio ora certo fare un'analisi critica della sterminata produzione di Adams. Ammesso sia possibile, ci vorrebbe troppo tempo e impegno. Mi piacerebbe però rilevare qualche aspetto che mi ha colpito.
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Oggi viviamo in un'epoca in cui certa fotografia di paesaggio sembra essere vissuta come un puro "atto eroico": levatacce, lunghi sentieri percorsi al buio e a rischio di precipitare, luoghi esotici e lontani, difficili da raggiungere, in cerca della situazione più incredibile e spettacolare. Roba per eroi, mica per gente comune.

Perciò è singolare che il più grande fotografo di paesaggio della storia (Adams) abbia scattato la stragrande maggioranza delle sue foto più famose a pochi metri dalla sua auto, a volte direttamente dal tetto della stessa, dove aveva sistemato un'apposita piattaforma! In molte fotografia si intravede in effetti la presenza della strada. Solo negli anni '20 e '30 realizzò delle foto durante dei trekking (ad esempio "Monolith"), ma in genere preferiva posti comodi, anche perché utilizzava pesanti fotocamere a banco ottico. 
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Le strepitose fotografie di Yosemite, come quella sopra, vennero realizzate da "New Inspiration Point", un belvedere ancora oggi molto frequentato e praticamente lato strada. Il punto è talmente circoscritto che foto realizzate anche ad anni di distanza presentano un'inquadratura quasi identica, pur essendo diverse per luce e condizioni atmosferiche. La famosissima "Clearing Winter Storm" (sotto) è stata scattata praticamente dallo stesso punto della foto sopra, realizzata però un anno dopo (1945).
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In verità, si può dire che di rado Ansel Adams abbia lasciato la sua amata California per fotografare altrove: fece un tour dei Parchi Nazionali americani per un progetto specifico, viaggiò in Canada e fece qualche raro viaggio all'estero, ma nel complesso tutta la sua opera è stata portata a compimento in aree che ben conosceva, frequentava assiduamente e fotografava ripetutamente. Yosemite e la High Sierra soprattutto.
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Ora, è vero che sono posti straordinariamente spettacolari, ma ve l'immaginate un fotografo di paesaggio contemporaneo che costruisca una carriera scattando le proprie foto solo (per esempio) nel Parco Nazionale d'Abruzzo, e al più effettuando qualche "scappatella" sul Gran Sasso e la Maiella, oltretutto senza lunghe e complicate escursioni in quota, ma sfruttando solo dei precisi "vantage points" ben posizionati? 
La lezione da imparare, insomma, è che è lo sguardo e la sensibilità del fotografo, ancor prima della tecnica (seppur sopraffina) a fare davvero "grande" un fotografo.
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Questo mi da anche l'occasione di osservare quanto sia cambiato il modo di fotografare, e di guardare al paesaggio, negli ultimi anni. Ho analizzato per bene le foto di Adams, e letto le sue dichiarazioni.
In pratica non utilizzava mai dei veri e propri grandangoli, anche perché il banco ottico da questo punto di vista non offriva molte possibilità. Solo quando avviò la collaborazione con Hasselblad ebbe a disposizione un 55 mm (che sul 6x6 cm è un bel grandangolare), che utilizzò di rado. Tutta la sua "poetica visiva" è basata su obiettivi con una angolo di campo che va dal "normale" al moderato teleobiettivo. Lo scopo era ottenere immagini "naturali", senza deformazioni, e in cui erano la composizione e la scelta del punto di vista (oltre che la luce) a fornire spettacolarità alla scena. Non a caso amava fotografare le montagne e i paesaggi ariosi, e solo nelle foto di architettura "allargava lo sguardo" con obiettivi più corti.

Oggi invece c'è la corsa al grandangolo più spinto possibile, e non è un fatto meramente tecnico: questi obiettivi permettono più facilmente di creare composizioni in cui si ha un elemento in primo piano che risulta inserito nel contesto e che crea un effetto tridimensionale, spingendo lo sguardo dello spettatore direttamente dentro la scena. E' un male? No, anzi: ma è un bello stacco rispetto alla metodologia di Adams e degli altri fotografi di quel periodo storico.
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Inoltre, era assai difficile, allora, esagerare inseguendo la spettacolarizzazione forzata, mentre oggi questi obiettivi straordinari possono portare a eccessi davvero insopportabili. Se ripenso alle 400 foto di Adams che ho appena studiato, posso dire che solo poche (in effetti le più famose) possono essere definite "spettacolari", le altre sono "solo" grandi foto, molto più tranquille, per così dire.

E questo ci porta all'ultimo elemento che mi è saltato agli occhi: la luce. Complice l'uso della pellicola bianco e nero, e il controllo che sapeva farne grazie al Sistema Zonale, Adams non scattava affatto sempre all'alba o al tramonto, come sembrano essere "obbligati" a fare i fotografi di oggi. Ci sono foto scattate anche a mezzogiorno, e una larga parte sono realizzate in orari "normali", magari in tarda mattinata o primo pomeriggio. 
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Non solo: ci sono molte foto di "backstage" che dimostrano che Adams fotografava spesso con il sole, non per forza in giornate tempestose. Come dico sempre, la giornata è di 24 ore, e di certo ci sono almeno 6-8 ore di luce adatta a fotografare senza problemi particolari: perché accidenti limitarsi all'alba e al crepuscolo? 

Ad esempio molte delle foto che Adams ha realizzato nei boschi (famose le sue betulle) sono state scattate in giorni di sole, avendo l'accortezza di trovare aree immerse nell'ombra. Basta sapere quel che si vuole ottenere. Insomma, Adams non era affatto uno a cui interessava complicarsi la vita, tutt'altro.

Basta confrontare le pacate immagini di Adams all'opera dietro la fotocamera, con la sua giacchetta e il cappello a falde larghe e l'intramontabile esposimetro Weston al collo con gli autoritratti di certi (famosi) fotografi di oggi, con il loro vestiario tecnico in Gore-Tex, gli occhiali a specchio, mentre se ne stanno appollaiati su una cima impervia... per capire che le cose sono davvero cambiate. Non è detto per il meglio.
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Il fascino della semplicità complessa (e quel che le foto non possono dire)

17/10/2020

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Guarda la foto qui sopra. Come analizzarla? bene, ti posso dire che è stata scattata con una vecchia fotocamera degli anni '50, una Vredeborch Felica 6x6, e a questo si deve l'aspetto particolare della foto stessa. D'altra parte la fotocamera possiede una lente a menisco e dunque rende bene al centro ma ai bordi molto meno. Ma a me questo piace.

Potrei aggiungere che si tratta di un dettaglio significativo, a livello geologico, dell'area di Ferento, a Viterbo, nota per il sito archeologico dell'antica città. Ma detto questo, ti resterebbe il dubbio sul perché, alla fine, abbia scattato la foto.

Mi verrebbe da fare come Michelangelo con la sua statua, gridando "perché non parli?!". E dillo quel che hai da dire, accidenti! Ma niente, se non ti spiego le motivazioni dietro la foto - che sono tutte nella mia testa - tu non potrai mai capire. 

La foto rappresenta una bancata di roccia che un tempo era sotto la superficie del mare, come si può capire dai fori - che nella foto si intravedono - creati dai molluschi che vivevano nascosti in gallerie, i cosiddetti "datteri di mare". Poi ovviamente si nota una galleria, forse etrusca, che serviva a drenare il pianoro soprastante. Milioni di anni di storia in una fetta di roccia sedimentaria, insomma: dalle antiche ere geologiche di quando la Tuscia nemmeno esisteva ed era sott'acqua, alla Storia vera e propria, con la S maiuscola...
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La foto successiva in qualche modo si connette alla precedente. siamo sempre a Ferento, stessa bancata rocciosa (anche se in un altro punto) che qui è stata scavata per ottenere un'abitazione rupestre, divisa in più vani. L'ambiente che vediamo era una stalla (lo si intuisce dalla mangiatoia a sinistra). L'atmosfera fumosa e umida (era in corso un fortissimo temporale) diffonde la luce e riporta ai tempi passati (uno, due secoli fa) quando qui fervevano le attività agricole. 

Queste due foto rappresentano alcuni aspetti del geosito "Ferento" (proposto ufficialmente per il Geoparco della Tuscia), raccontandoci sia la tipologia rocciosa sia l'uso che l'uomo ne ha fatto nel corso del tempo, ma senza questa mia spiegazione non avresti mai potuto saperlo, o intuirlo.

Potevi al massimo comprendere il perché abbia scattato le foto con la Vredeborch: per suggerire qualcosa del passato, qualcosa di antico, di senza tempo. La verità è che le foto non parlano, se non per quel che rappresentano, letteralmente. La storia da narrare deve essere per forza dentro la foto stessa, altrimenti serve un intervento esterno: la didascalia, o il testo di accompagnamento. E' questa la dannazione di tanti fotografi, che trovano questa limitazione insopportabile.
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Io francamente non la vedo così: trovo che questo supposto "silenzio" delle fotografie sia invece la loro vera voce, e dovremmo lasciarle parlare liberamente, anche se a volte non dicono esattamente quel che vogliamo. La lettura va lasciata allo spettatore, giocoforza, e noi possiamo solo sperare che quanto inserito nelle foto sia sufficiente a rendere il tutto comprensibile in maniera sufficiente. Ma se anche così non fosse, ma le foto vengono comunque apprezzate... beh, va bene lo stesso!

Anche perché possiamo sempre lavorare con più foto, che pian piano vanno delimitando il quadro, rendendolo più comprensibile. 

Ancora una foto fatta a Ferento con la Vredeborch, stavolta è il basamento di una chiesa medievale sul pianoro della città. Ancora protagonista la roccia - anche se diversa - ancora il tempo, la storia, il passato, la malinconia. Ma le tre foto - messe assieme - sono già una descrizione, raccontano un aspetto minimo, ma pure importante, di una realtà territoriale, possono costituire la base per un racconto più ampio.
​
E di certo qualche didascalia ben fatta può comunque esplicitare il nostro pensiero così che alla fine la nostra voce può unirsi a quella delle foto. L'importante è non darlo mai per scontato.

La fotografia, se vuol farsi narrazione - o almeno descrizione più o meno accurata e partecipata - richiede impegno e mente aperta. Insomma, fare click è davvero l'ultima delle nostre preoccupazioni!
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Di motociclette e fotocamere

7/9/2020

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Se non sai quale fotocamera acquistare, forse è perché non hai le idee chiare: non sulle fotocamere, ma sulla fotografia in generale, sulla tua fotografia.

Quello che sto per scrivere in questo post farà arrabbiare qualcuno e deluderà qualcun altro, ma lo considero profondamente vero. 
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Quando ho deciso di rinunciare all'auto per passare a una motocicletta come mezzo di trasporto motorizzato, mi sono ritrovato nella stessa situazione in cui si trovano tanti principianti che chiedono consiglio a me su quale fotocamera acquistare. In realtà hanno già deciso cosa desiderano (anche se non va bene per loro), ma vorrebbero avere conferma che la loro scelta sbagliata sia invece giusta. Vorrebbero sentirselo dire da me, intendo. E io li deludo sempre, mannaggia.

Comunque, ora ero io il principiante assoluto: ho sempre amato le motociclette ma non ci capisco nulla. Inoltre il mio budget era molto limitato, cosa che complicava ancor di più la scelta. Dunque ho utilizzato le regolette che invito gli altri ad applicare quando si tratta di scegliere una fotocamera.

Dopo aver analizzato le mie necessità e capacità ho stabilito che la moto da acquistare dovesse avere queste caratteristiche:
  • essere economica, date le mie disponibilità, ma comunque di qualità accettabile;
  • essere parsimoniosa nella gestione (bollo, assicurazione, tagliandi, ecc.) e nei consumi, anche per motivi ambientali;
  • essere leggera, agile, poco impegnativa e facile da portare, visto che sono oltre 35 anni che non guido una moto, e allora era solo una piccola 125 cc;
  • essere adatta a terreni misti, visto che vado spesso su strade sconnesse e di campagna.
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Alla fine sono riuscito a trovare il giusto compromesso. Visto che utilizzo la moto tutto l'anno, anche in inverno, anche con la pioggia, ho preferito una moto "crossover", con un minimo di protezioni e il motore abbastanza alto da terra, di piccola cilindrata (250 cc) visto che non intendo farci viaggi molto lunghi o correre a 200 all'ora, ma invece realizzare viaggi brevi (in genere tra i 90 e i 180 km a/r) ma frequenti, è di costo basso ma ben costruita (la trovo anche bella), e così via. E dopo un anno, nonostante qualche incertezza e ripensamento, credo di aver scelto bene. Il "metodo Scataglini" funziona.
​
Molti di coloro che acquistano una motocicletta fanno invece un ragionamento diverso: vogliono il mezzo più grosso, potente, "cattivo" e figo su cui possono mettere le mani, anche se lo useranno solo nella bella stagione e per girare in città. Al limite per fare un viaggio una volta l'anno. Non è un caso che la moto più venduta in Italia sia la BMW 1200 GS, non proprio una motoretta, mentre la mia è solo 48° in classifica! 

Il punto è che a me 25 Cv bastano (anche se forse averne qualcuno in più a volte non guasterebbe), e che per quello che debbo farci la mia Benelli è adattissima. Ma soprattutto, come principiante, posso fare pratica senza rischiare e senza troppe difficoltà e magari, in futuro, passare a qualcosa di più "performante", ma a quel punto con la piena consapevolezza delle mie nuove necessità.
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Ecco, ora passa dalla motocicletta alla fotocamera e ragiona nello stesso modo. Se non sei esperto, una fotocamera evoluta e giocoforza complessa ti renderà la vita difficile, ti farà arrabbiare perché non la "capisci", non trovi mai il comando che ti serve, o sbagli addirittura regolazioni, e il vantaggio di avere una fotocamera "Top" viene meno. Scegli piuttosto una buona "entry level", assolutamente in grado di darti gli stessi risultati 9 volte su 10, a una frazione del costo e dell'ingombro, e soprattutto senza troppe complicazioni.

Chiediti: che uso intendo fare della fotocamera? Se devi realizzare spesso foto 300x400 cm, ok, una medio formato digitale fa per te, ma se più banalmente le foto le utilizzerai per progetti meno impegnativi, tieni conto che una fotocamera da 12-20 megapixel è più che sufficiente per avere stampe molto grandi, anche 70x100 cm. E parlo per esperienza.

Quante foto notturne realizzi all'anno? Se è uno sfizio da togliersi una tantum, che senso ha puntare su fotocamere Full Frame in grado di scattare a 6400 ISO senza rumore? Tieniti un po' di rumore e divertiti lo stesso!
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Viviamo in una società in cui si crede (ci fanno credere) che per ogni esigenza ci sia una specifica risposta, e che tale risposta sia sempre e comunque la più costosa, la più dispendiosa, la più impegnativa. Laddove basterebbe una microcar ti consigliano un SUV, dove sarebbe ampiamente sufficiente una casa di 60-70 mq ti spingono a fare un mutuo a vita per una villetta di 200 mq con giardino (che poi dovrai curare), per non parlare del vestiario, per cui anche per fare una passeggiata devi esibire camicie e pantaloni da top-model.

E' ovvio che chi produce e vende queste merci abbia tutto l'interesse a convincerti che per conseguire degli obiettivi avrai bisogno di attrezzature "adatte" ma credimi: solo tu puoi sapere davvero cosa ti serve, se solo fai un'analisi ponderata e scevra da condizionamenti.

Ricordati un'ultima cosa: un tempo, acquistavi una fotocamera e delle ottiche ed erano per sempre.Beh, quasi.

Dunque, investivi nella migliore Leica possibile, o in una Nikon o Canon, o Pentax di altissima gamma, sapendo che quell'attrezzatura magari l'avresti passata ai nipoti.

Oggi purtroppo non è più così. La tecnologia digitale non dura e non è facilmente riparabile: se capiti nel mio garage ti faccio vedere la piccola serie di Nikon che hanno deciso di suicidarsi, dopo un intenso uso (è vero) ma comunque senza particolari maltrattamenti. Ho anche un'Olympus il cui display è morto da tempo. E ricordo una volta che ho avuto un problema con una Canon G9: ripararla costava più che sostituirla e dunque è diventata un bel soprammobile.
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Il punto debole di ogni fotocamera - analogica o digitale - dovrebbe essere l'otturatore ma a me non è mai capitato che una tendina si bloccasse, si è sempre trattato dell'elettronica. Lo so che molti sostengono che l'elettronica sia più affidabile della meccanica, ma io ne dubito, soprattutto quando hai a che fare con umidità, sbalzi di temperatura, polvere e cose del genere. 

Insomma, non voglio per forza passare per il solito pauperista nemico della tecnologia e delle fotocamere costose (anche se un po' lo sono, sapevatelo), vorrei solo spostare l'attenzione dallo strumento al fine da conseguire.

Avere meno aspiranti "Pro" e più "Autori", ecco. Ed è questo che dedicherò i prossimi post, dunque se la pensi come me, come si dice, "stai connesso".

E per "piccolo spazio pubblicità" ti ricordo che di questo parlo da anni con e nei miei libri, che puoi trovare su Amazon o nella pagina Libri di questo sito!


     Le foto che mostrano me stesso all'opera sono di Roberto Maldera e Andrea Bovo
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Estetica e stereotipi, dalla moda alla fotografia

1/9/2020

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Il "caso" della modella armena Armine Harutyunyan sta agitando il mondo dei "social" con polemiche francamente stucchevoli, ma che fanno riflettere.

Infatti si assiste a uno scontro - a suon di insulti, con tanto maschilismo, misoginia e razzismo bell'e buono - tra chi sostiene che la bellezza femminile (almeno nella moda) debba corrispondere a dei canoni ben precisi, e chi invece la pensa in modo opposto (come me) e saluta con piacere questa novità (che poi la modella sfila per Gucci sin dal 2019...). Polemiche simili, in fondo, erano nate per la modella con la sindrome di Down e per quella "curvy".

I sostenitori del modello "canonico" ritengono che, come nell'antica Grecia, sia possibile stabilire a priori- anche con delle misure e delle proporzioni precise - cosa sia esteticamente accettabile e cosa invece ricada nella categoria del "brutto", che dunque dev'essere escluso da un mondo, quello della moda, geneticamente dedito al "bello".
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Per definizione le donne davvero belle, le top model, sono rare e assolutamente perfette. In genere longilinee, con gambe lunghe, vita sottile ma non troppo (il "vitino da vespa" è passato di moda), seno importante ma non abbondante e così via; se sono bianche in genere le si preferisce bionde, se di colore è comunque meglio abbiano i capelli lisci, come Naomi Campbell, per dire, sebbene questo sia poco naturale per una afro-americana.
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Non debbono sembrare, nemmeno lontanamente, donne reali, ma astrazioni, lontane dall'umano per diventare quasi divinità, e non a caso la Campbell venne soprannominata "la Venere nera". Ma c'è anche chi trova che questa bellezza canonica, evidente, senza alcuna sorpresa alla lunga finisca per annoiare. E tuttavia quasi nessuno sembra riuscire a farne a meno.

Nemmeno i fotografi - professionisti e amatori - che si dedicano al "glamour" e sborsano bei soldoni per avere modelle "sexy" e perfette. Quando scelgono un'amica disponibile, e generalmente "difettosa" (insomma, umana), subito i puristi si ribellano, evidenziando la troppa "ciccia" o le gambe non tornite in modo adeguato, nemmeno stessimo al mercato degli schiavi di triste memoria.

Perché la bellezza canonica è rassicurante e funziona: stranamente gli stessi stilisti rischiano molto presentando collezioni di vestiti ai limiti del fantascientifico (e dell'utilizzabile), ma quando si tratta di scegliere chi deve portarli in passerella preferiscono "il classico" o, se proprio si rischia, lo si fa scegliendo modelle filiformi e anoressiche, che è una cura peggiore del male.
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La casa di Moda Gucci ha deciso di cambiare le carte in tavola preferendo una modella non canonica e inserendola oltretutto nella lista delle "100 donne più belle del mondo". Ora, che esista questa classifica lo trovo un po' deprimente, e di certo opinabile (mi ricordo che io ho sempre trovato la Schiffer francamente poco attraente, ma de gustibus), ma che vi venga inserita una donna "non canonica" è un segnale.

Che per i fotografi rappresenta una sfida niente male, che andrebbe raccolta. La foto sopra della Campbell sembra la foto per la patente, non trovi? Ben illuminata, ci mancherebbe, ma con un volto così ti basta mettere la modella sul set e scattare a caso. Nessuno guarderà la foto, guarderà solo la modella, talmente vera che in effetti sembra finta.

Ma lo scopo di un bravo fotografo (anche di Moda, considerato un genere molto commerciale) dovrebbe essere quello di tirare fuori il meglio da ogni persona ritratta, perché in ognuno c'è della bellezza, e non solo in senso estetico.Anzi soprattutto non in senso estetico.

​Cercando online le foto di Armine per questo post mi son reso conto di quanto questa ragazza sia multiforme: appare diversa in ogni scatto, compresi i selfie che si scatta da sola. Ha un viso "malleabile", può sembrare quasi mascolina come profondamente femminile, sensuale come distante. E' come certe attrici che non possono essere definite "belle" secondo i canoni che abbiamo visto (tipo la Magnani, foto sotto), ma in grado di catturare la tua attenzione e di smuovere qualcosa di più profondo. Purtroppo molta Moda (e molti fotografi) sono rimasti legati all'idea del "bel faccino" che, in effetti, facilita il lavoro.
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Vorrei dire che questo atteggiamento di "estetica superficiale" affligge quasi tutta la fotografia: da sempre, ma oggi più che mai. Se non rispetti determinati canoni, le tue foto non sono "belle", o almeno non sono giudicate tali dal pubblico generalista, che comunque rappresenta il 95% almeno dei fruitori potenziali di un'immagine.
Un paesaggio dev'essere selvaggio e perfetto, senza fili dell'alta tensione o elementi di disturbo, preferibilmente dev'essere anche molto colorato e spettacolare. Un "paesaggio-Schiffer" chiamiamolo così. Eppure, quanti "paesaggi-Armine" hai veduto che ti hanno davvero coinvolto e colpito? Mi basta citare Giacomelli, ma ce ne sono tanti altri. Mi torna in mente anche l'ossessione di Ugo Mulas per le foto "buone" e il suo disprezzo per le foto "belle".
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Ecco, in ogni genere fotografico credo che questa regola dovrebbe valere: Armine è una modella che funziona, è reale, vicina, è la ragazza che puoi incontrare al bar o al parco mentre porta a passeggio il cane, è la donna con cui puoi parlare di arte (sia lei che il padre sono artisti affermati), di libri o di cinema, e poi magari anche di cose stupide, ci mancherebbe.
 

Fatto sta che accanto alla rappresentazione idealizzata e distante di una donna (ma il ragionamento vale anche per gli uomini) sarebbe davvero auspicabile che si torni a guardare la realtà, ad apprezzarla, a narrarla, a ritenerla degna della nostra attenzione.
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I sogni sono certamente piacevoli, ma terminano al sorgere del sole. Sarebbe ora che il mondo della moda (e non solo) inizi seriamente a svegliarsi. E che intanto, sui Social, si possa anche commentare l'operato di una persona (soprattutto se di sesso femminile) che svolge un lavoro "pubblico" (dalla politica alla moda) senza offenderla e senza insultarla, che sarebbe già molto.
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Minima Localia

25/8/2020

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Sono sempre stato affascinato dai "paesaggi intimi", come quelli realizzati dal grande fotografo americano Eliot Porter. In verità ero - e sono - affascinato dal fatto che li si consideri appunto..."paesaggi", sebbene non abbiano alcuna caratteristica che li faccia sembrare tali.

Sono infatti dettagli, particolari, campi stretti, piccoli soggetti che non hanno la vastità e l'importanza di una vero "paesaggio" come tendiamo a considerarlo normalmente. Ma in verità credo che ci siano molti equivoci su questa parola.

Perché ci sia un paesaggio, e questo è oramai accettato da tutti gli studiosi che si occupano della materia, occorre che ci sia uno spettatore. In pratica l'equazione è territorio+spettatore=paesaggio.

Ma secondo molti non basta ancora, occorre anche che lo spettatore riconosca e si riconosca in questo paesaggio, non necessariamente che lo trovi "bello" (può anzi trovarlo orribile), quanto che lo identifichi non già come "natura", "ambiente" o altro, ma come un insieme coerente di attività umane e matrice territoriale. 
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"Tutto il paesaggio da noi conosciuto come naturale è un paesaggio plasmato dall'uomo: è natura a cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza però distruggerlo in quanto natura" scriveva nel 1973 Rosario Assunto.
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D'altra parte la stessa parola "paesaggio" è relativamente moderna nella cultura occidentale.

Compare tra la fine del '400 e la prima metà del '500 in Francia per indicare un tipo di pittura, detta appunto "paysage"; poco dopo il termine entrerà nell'uso comune anche in Italia. Nei paesi di lingua tedesca si usano termini derivati dalla parola "land" (come Landscape), che è molto più antica di "paesaggio", ma che originariamente indicava solo "una porzione di territorio".

Insomma, noi europei non avevamo nemmeno un termine per definirlo, il paesaggio, figuriamoci averne la consapevolezza. Quella che ad esempio avevano Cinesi e Giapponesi, che da due millenni hanno non solo una parola, ma più parole per indicare questo concetto!
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Ma - per arrivare al punto - date queste considerazioni, un "paesaggio intimo", cioè un dettaglio di territorio, una fronda d'albero come nella foto qui sopra, o una formazione di mixomiceti su un tronco o dei legni portati dal mare (foto più in alto) può davvero essere un "paesaggio"?

Cominciamo col dire che le foto di Eliot Porter - pur magnifiche - difficilmente possono essere considerate paesaggio, se non altro perché non riprendono situazioni in cui sia evidente l'opera dell'uomo, anzi sono decisamente foto puramente "naturalistiche". Questo ovviamente se accettiamo l'idea che possa essere paesaggio solo il "paesaggio culturale", quello curato dall'uomo.

Le mie che vedi qui magari potrebbero anche essere considerate "paesaggistiche" perché i luoghi ripresi - assai meno selvaggi di quelli di Porter - hanno impresso "il segno dell'uomo", anche se apparentemente invisibile: il tronco con i mixomiceti è stato tagliato, i legnetti portati dal mare e la costa in erosione sono frutto delle attività umane, e gli alberi nella forra sono sopravvissuti a operazioni di taglio che hanno alterato il bosco circostante.
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Naturalmente il termine "paesaggio intimo" è solo un aggettivo creato per descrivere fotografie che non sono solo naturalistiche e nemmeno solo di "landscape". Ma è interessante notare quanto il termine paesaggio sia sfuggente, e spesso utilizzato a sproposito. Anche se, come osserva Assunto, in effetti è oramai impossibile - almeno in gran parte d'Europa - trovare un luogo in cui l'azione dell'uomo non sia giunta. Dunque se la longa manus della civiltà è giunta ovunque, ogni luogo è anche - per questo aspetto - un paesaggio? Forse, chissà.

Oltretutto la fotografia afferma in modo indiscutibile la presenza di uno spettatore, il fotografo stesso, ed è dunque difficile non notare che l'equazione iniziale sia perciò rispettata in pieno.

Ma non solo: se ab origine il termine "paesaggio" si riferiva a territori comunque antropizzati, oggi si tende ad accettare una definizione meno restrittiva, e infatti nei concorsi di fotografia naturalistica (come quello organizzato dalla BBC o il concorso di "Asferico"), nella categoria "paesaggio/landscape" partecipano foto di luoghi incontaminati e selvaggi (apparentemente, almeno) in cui non debbono esserci - da regolamento - evidenze della presenza umana. 

Un bell'impiccio, su cui tornerò sopra. Intanto continuerò a usare il termine "paesaggio intimo" (Intimate Landscape) per immagini come quella delle foglie di farfaraccio riprese all'infrarosso (foto qui sopra), scattata "entrando" nella micro-foresta creata da queste piante. Davvero mi sembrava di aggirarmi in una sorta di Amazzonia in miniatura: se fossi stato una formica, di certo l'avrei trovata incombente come un per noi un bosco di sequoie!

Se sei interessato ai temi della fotografia di paesaggio, ti ricordo il mio blog dedicato a questa tematica, Locus In Fabula!
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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