Lo so cosa stai pensando (e questa azione, il pensare, è l'oggetto di questo post): ora Marco ci darà una lista dei soliti consigli da "professionista", qualche dritta più o meno intelligente per fare foto "migliori" (che poi è anche un termine equivoco: qual è il termine di paragone? Fare una foto migliore di una "schifezza", ad esempio, è facile!). No, niente del genere. Non ti darò affatto dei consigli, me ne guardo bene. Ma un metodo infallibile per fare meglio qualsiasi cosa nella vita, e non solo le fotografie, esiste e io lo conosco bene, anche se non riesco quasi mai ad applicarlo (vabbe', nessuno è perfetto). Il metodo consiste nello svuotare la mente. Del tutto. Completamente. Vuoto spinto, pneumatico. Una delle principali convinzioni dei fotografi (e non solo) è che per fare una buona foto occorra essere molto concentrati, molto "mirati", pronti, con le idee chiare, con il controllo totale del proprio strumento (la fotocamera) e delle proprie capacità tecniche. Io stesso uso spesso l'hashtag #pensaescatta su Instagram, anche se il senso non è quello che appare. Infatti, certo che occorre pensare ed avere le idee chiare: prima e dopo lo scatto, mai durante. Se "durante" lo scatto sei lì che pensi alle mille cose che riguardano quella foto (tempi? diaframmi? inquadratura? Concorso che potrei vincere? Utilità della foto?) di sicuro la perderai, nel senso che di sicuro sarà deludente. Se non di sicuro, quasi. Ancora peggio se poi sei vittima del nemico numero uno di ogni essere umano, e del fotografo in particolare e di ogni artista): i pensieri intrusivi! Mi tremano i polsi solo a scrivere queste due parole... I pensieri intrusivi non ci danno tregua: a volte sembrano solo di sottofondo, altre volte emergono a gran voce e ci distraggono da ogni attività stiamo facendo, al punto che, di colpo, ci rendiamo conto di non sapere quel che stiamo facendo, talmente siamo immersi nel “pensare” a qualcosa. In generale, i pensieri intrusivi non sono pensieri nel vero senso del termine: non hanno un filo logico, non partono da un dato concreto, da un problema, e non puntano ad arrivare a una soluzione o almeno una decisione. Quando riflettiamo su un progetto che ci interessa, o studiamo mentalmente come uscire da un momento difficile, allora stiamo “pensando”: è qualcosa che comunque ci distrae, ma almeno ha un senso, uno scopo. I pensieri intrusivi non sono così: non hanno in verità altro scopo che esaurire le tue risorse interiori, sono dei mostriciattoli neurali, dei parassiti della mente, che attraggono come magneti la tua attenzione su cose inutili, o addirittura dannose. Nei casi più gravi possono portare a ossessioni e nevrosi. Ma ci sono anche pensieri intrusivi del tutto innocui, ma non per le fotografie. Ad esempio sei impegnato a guardare nel display della fotocamera per comporre la tua foto al millimetro e intanto ti vien da pensare a cosa potresti cucinare per cena, o a qualcosa che magari hai dimenticato a casa. O anche a quali foto potresti fare se invece di stare lì in quel punto ti spostassi di qualche centinaio di metri più avanti. E mentre cerchi di goderti la tua passeggiata fotografica guardandoti attorno rilassato, ecco che il pensiero corre alla trama dell’ultimo film visto al cinema, e che nemmeno ti era piaciuto; o ad argomenti superficiali o, peggio, a rimpianti per occasioni perdute, a offese che avresti ricevuto, a ingiustizie di cui saresti rimasto vittima. Addirittura l'orribile canzone che hai sentito durante l'ultimo Eurofestival e il cui assurdo ritornello ti torna in mente mentre stai facendo altro. Insomma, qualsiasi cosa, purché tu non ti goda il momento presente. I pensieri intrusivi sono degli autentici killer del presente, potremmo dire, e ti fanno continuamente ondeggiare tra il passato (in genere con ricordi spiacevoli) e il futuro (con progetti irrealizzabili o non positivi). Partiamo da un presupposto: tutti soffriamo di pensieri invasivi. Tutti, nessuno escluso. In genere non sono di contenuto necessariamente negativo, ma sempre distraggono, questo si. La vera differenza tra te e un monaco buddista è che il monaco li lascia scorrere via, non vi presta attenzione. Sa di avere questi pensieri, ma li disinnesca, fa in modo che non agiscano su di lui. Noi umani comuni, invece, specialmente se apparteniamo alla razza dei fotografi - per loro natura pronti a riflettere su ogni cosa - per quanto ci sforziamo, rimaniamo catturati dal fascino del pensiero intrusivo, specialmente quando ci troviamo in situazioni tutt’altro che positive. Il potere del pensiero intrusivo, infatti, è proprio quello di isolarci dal contesto, di farci volare altrove, e dunque quando desidereremmo “non essere lì” diventano immediatamente i benvenuti. Non devi pensare che questo accada solo in determinate situazioni della vita, ma anche mentre fotografi. Ad esempio hai un gran desiderio di realizzare foto di "street" stile Meyerowitz, ma sei timido e insicuro e allora mentre ti trovi tra la folla con la fotocamera in mano, ti sgorgano nella mente mille pensieri intrusivi che non ti sono affatto utili, ma alleviano in qualche modo la sensazione di essere nel posto "sbagliato". E il risultato sono foto pessime. Naturalmente ci sono persone a cui capita di cadere in questa "tentazione" ogni tanto, e altre a cui capita di continuo. Se ci fai caso sono quelli che inanellano "distrazioni su distrazioni", che dimenticano la chiave dell'auto in casa, che si perdono le cose, che dimenticano di svoltare in una strada e così via. In genere si scusano con un "non me ne sono accorto", ma in verità la loro mente era impegnata a portarli chissà dove. Non qui, non ora. “Qual è la cosa più importante da fare nella vita? Quella che stiamo facendo ora. Qualunque essa sia, se non viviamo appieno questo momento si perde un’occasione che non tornerà più” scrive David Brazier in “Terapia Zen”. Come fotografi possiamo ben intuire quanto sia fondamentale questa concentrazione assoluta che, per assurdo, corrisponde appunto nel "non pensiero", nell'entrare in quello che gli psicologi chiamano "flusso": non si fanno le cose, le cose si fanno da sole. Non si scatta una foto, la foto si scatta da sola, e noi dobbiamo solo assecondare la sua volontà. Così la vedeva Minor White, e anche se molti lo consideravano un po' fuori di testa, che foto meravigliose ci ha lasciato! Vivere il presente è più difficile che scalare l’Everest. Accettare il fatto che i nostri pensieri orientano la nostra stessa esistenza, che siamo esseri fatti “della stessa sostanza dei sogni” e di pura d’immaginazione, e che possiamo essere liberi, creativi, fantasiosi pur restando radicati nella realtà del momento, senza voli pindarici, è la vera sfida. Il grande poeta visionario britannico, William Blake, lo ha espresso in modo meraviglioso: “vedere il mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico, tenere l’infinito nel palmo della mano e l’eternità in un’ora”. Questa è la meraviglia dell’immaginazione sana: parte da ciò che viviamo ora, da ciò che abbiamo davanti a noi, per raggiungere l’astratto, il fantasioso, il sublime.
Non è vero che un fotografo possa ottenere tutto questo "pensandoci su" mentre scatta. Non a caso nei miei corsi di fotografia faccio praticare anche la "fotografia casuale" scattando, letteralmente, a casaccio: è un esercizio che serve a dimostrarci quanto, se solo smettiamo di voler controllare tutto, e accettiamo di non farci guidare dai pensieri intrusivi ma ci concentriamo solo sul "qui e ora", addirittura senza inquadrare o regolare i parametri della fotocamera possa venir fuori qualcosa di buono. Di certo almeno un'ispirazione. Il pensiero, la progettazione, la ricerca sono fasi fondamentali ma solo prima - anche molto prima - di arrivare allo scatto. Poi occorre far si che le occasioni si incontrino con il nostro essere pronti a recepirle, non a inseguirle. Era il metodo di Cartier Bresson, per citare il più famoso. Mi sembra che per lui funzionava alla grande! Perciò, il primo passo che dobbiamo compiere per scalare il nostro Everest personale, e dunque fare foto migliori, sia combattere i pensieri intrusivi. Per molti anni, anzi per gran parte della mia vita, ho cercato di contrastarli attraverso una lotta diretta, all’arma bianca. Col tempo ho imparato a non prestar loro troppa attenzione, o cercando di sovrapporvi pensieri se non positivi, almeno utili. Soprattutto concentrandomi sui gesti che come fotografo debbo compiere, lasciandoli fruire in modo naturale, e prestando attenzione se, mentre sto mettendo a fuoco un soggetto, mi torna in mente quel "motivetto che mi piace tanto" o la preoccupazione per le bollette da pagare. Se sto passeggiando cerco di ragionare sulla direzione da prendere, sul respiro e sul ritmo dei passi, ed evito di concentrarmi sulle voci intrusive che, già in passato, mi hanno fatto sbagliare sentiero o perdere in un bosco. Non posso dire che la lotta sia conclusa, anzi. Forse non terminerà mai. Hai presente il film “500”? Loro sono come i Persiani, una moltitudine, e per fermarli hai poche risorse. Ma hai dalla tua la forza della ragione e della saggezza, che tutto può vincere. Ti chiederai più volte a cosa dovresti pensare, allora, visto che non devi cedere ai pensieri intrusivi. La nostra società è organizzata in modo tale da convincerti che sei sano e normale solo se pensi sempre a qualcosa, se ti preoccupi, ti angusti. Pensare a niente? Impossibile. Davvero? Eppure ci sono filosofie che proprio a questo vuoto si ispirano, e lo ricercano attivamente. Svuotare la mente è un processo che si muove su due livelli: il primo è quello di combattere i pensieri intrusivi, per lasciar spazio solo ai pensieri utili e necessari; un secondo livello è spegnere anche questi ultimi, almeno in determinate circostanze. Ribadisco: ad esempio mentre fotografi. Sforzati di entrare nel flusso. Mantieni la tua mente limpida. Almeno provaci. Riuscirci può regalarti fotografie che nemmeno investendo tutti i soldi del tuo conto in banca in attrezzature potresti realizzare! E comunque di certo alla fine sarai più rilassato...
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In questo post parlerò forse poco di fotografia, ma in verità in queste considerazioni principalmente letterarie ci sono molti spunti che credo siano davvero utili a chi desideri realizzare fotografie più efficaci e che, nel mio corso "Smettere di Essere Principiante" ho definito "Effetto Iceberg", mutuandolo sempre dalla letteratura, e cioè da Emingway. Il tema è quello di cosa mettere dentro un'inquadratura. Come sosteneva Ghirri quel che lasci fuori - la continuazione ideale del soggetto rappresentato nella foto - spesso è più importante di quel che metti dentro. Solo che quest'ultimo soggetto lo vedi, è lì davanti a te, l'altro non puoi far altro che evocarlo. E' etereo, misterioso, evanescente. Però esiste, almeno per chi guarderà la foto. E' proprio come il Monte Analogo di René Dumal. Il monte Analogo è montagna invisibile agli occhi dell’uomo comune ma più alta dell’Everest, una montagna che non sai esattamente dove sia perché, come spiega Padre Sogol nel romanzo, è nascosta da una sorta di campo di forze che devia i raggi luminosi. Eppure esiste, in qualche parte dell’Oceano Pacifico, vi puoi accedere all’alba o al tramonto, gli unici momenti in cui le sue “porte” sono aperte, la puoi scalare e, giunto in cima, trovare la risposta alle tue domande, e cioè che non hai domande perché le domande oramai non servono in quanto le risposte sono tutte nell’essere in cima al Monte Analogo. Ma devi esserci, per saperlo. Dumal non finì mai il suo romanzo, che si interrompe dopo una virgola. La virgola più famosa della storia della letteratura. Che accidenti succedeva dopo quella virgola? Come proseguiva il racconto? La prima volta che lessi “Il Monte Analogo” credetti di trovarmi davanti una copia difettata. Ma no, voltando pagina ecco la foto del manoscritto originale: qualcuno bussò alla porta dello scrittore in quel bellico 1944 e lui fece in tempo a vergare la virgola sul manoscritto per poi alzarsi e andare ad aprire. La morte lo colse prima che potesse continuare non tanto il suo libro, quanto almeno quella frase. Rimasta così, sospesa nel vuoto, come su un burrone, un precipizio, un seracco, quell’ultima parola dietro la virgola sembrava simile allo scalatore sopravvissuto quando tutti i suoi compagni di cordata che lo seguivano sono precipitati per lo spezzarsi della corda. In quel vuoto era precipitata la vita di Dumal, che divenne stranamente famoso un romanzo monco, storpio, a metà, così come Gadda, che non terminò mai “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, romanzo per il quale divenne invece assai noto. Strano come siano due dei miei romanzi preferiti, che ho letto più volte. Te li consiglio, davvero. Mi sembra, leggendoli, di rischiare qualcosa. Di mettermi in una condizione di pericolo. Hai presente, no? Quando si corre verso un precipizio e ci si ferma di colpo, evitando per un soffio di precipitare. Ogni volta ci si ferma più vicini al baratro, ogni volta si rischia di più. Ecco, leggere Gadda e Dumal dà questa stessa impressione, mi sembra che i due romanzi mi portino ogni volta sul ciglio del burrone e poi mi mollino lì, in preda alle vertigini, tremante di paura. Il cuore batte, l'adrenalina corre. Arrivi sul limitare e quando ti fermi sai di aver rischiato ma le risposte che cercavi comunque non le hai ottenute. Almeno apparentemente. Perché poi scopri che la vera saggezza è nel come ti poni le domande, non nelle risposte che trovi. Sono romanzi simili alla vita, la cui fine non è ancora scritta. E quando sarà scritta, non ci saremo più e dunque che importa? Puoi immaginare come sarà quella fine, è vero, ma un esercizio migliore è quello di immaginare come potrebbe essere il proseguo del viaggio. E poi concretizzare le tue fantasie. Se Gadda avesse concluso il suo romanzo svelando l’assassino, se Dumal avesse completato la sua storia portando la spedizione in cima al Monte Analogo forse, e dico forse, i due romanzi avrebbero perso molto del loro fascino. Capita spesso. Anche nei film. Inizi a vederli e sei trascinato in una storia intrigante e avventurosa. La situazione è mozzafiato. C’è un mistero da risolvere, ci sono intrighi da dipanare. Tutti i registi di film e tutti i romanzieri arrivano a questo punto: hanno condotto i propri spettatori/lettori sul vertice delle Montagne Russe, ora debbono buttarli giù, farli gridare di paura, emozionarli fin quasi a fargli prendere un infarto. In genere, falliscono.
Quante recensioni si leggono di film che creano un’alta tensione ma sono deludenti nel finale? E quanti romanzi non reggono il ritmo oltre la metà o i due terzi delle pagine? E’ che il risolversi della storia deve avere un senso logico. Puoi anche riempire la tua storia di fantasmi, vampiri e morti viventi, ma alla fine l’eroe o l’eroina debbono salvarsi e per farlo hanno bisogno di una soluzione, di uno strumento, di una via di fuga. Il romanzo interrotto non si pone il problema. Che sia volontariamente interrotto, o che lo sia per intervento della morte, in ogni caso il romanzo interrotto ha un fascino eterno. Che cosa avrebbe voluto dire l’autore? Che cosa sarebbe successo ai suoi personaggi? Quale sarebbe stata la conclusione? Ora immagina di trasportare tutto in campo fotografico. La fotografia in cui tutto è chiaro e rivelato, che cerca disperatamente di illuminare gli angoli bui, di mostrare ogni dettaglio nel modo più preciso possibile, che è piena di elementi affinché allo spettatore nulla venga negato, sono spesso efficaci come mezzo di documentazione o divulgazione, ma emotivamente sono un disastro. Se non ti poni domande, come spettatore, finisci per annoiarti. Ammirare queste foto perfettine e ridondanti dopo un po' stanca. La foto che funziona, ma ancor più il progetto fotografico davvero efficace non intendono dare risposte, ma porre domande; quelli di maggior successo fanno nascere in chi guarda addirittura le domande giuste. Pensa alle tante foto di guerra che circolano in questi giorni. Vogliono affermare realtà incontrovertibili, vogliono urlare, rivelare, informare. Ma quelle che restano in mente sono le poche davanti alle quali come minimo ti chiedi: perché? I grandi fotografi di guerra hanno sempre lavorato così. Se scorri le foto del Vietnam di Don McCullin avrai la testa piena di domande, di dubbi, di perplessità e mozziconi di risposte, eppure ne saprai di più di quelli "ben informati" che ti mostrano "le cose come stanno". Perché quest'ultime si rivolgono alla testa, le altre al cuore, metaforicamente parlando. Perciò credo davvero che come fotografi dovremmo imparare la lezione di Gadda e Dumal: arrivare a un certo punto e saperci fermare prima che la nostra foto dica troppo, ma anche non prima che abbia detto abbastanza. Per questo, d'altra parte, fare foto efficaci è maledettamente difficile! L’ozio fa bene alla salute. Almeno così dicono. Figuriamoci quanto possa far bene alla fotografia! Non so te, ma io da piccolo immaginavo il fotografo come una specie di "schizzato" sempre con la fotocamera in mano mentre correva di qua e di là. Se vogliamo un po' il ritratto di Cartier Bresson che con la sua Leica è diventato famoso per i "balletti" che effettuava in mezzo alla gente per scattare le sue immagini. Mamma mia, che fatica! Però, aggiungo, abbiamo un'idea dell'ozio decisamente sbagliata, come se fosse l'opposto di quanto appena descritto, del fare "ammuina" correndo a destra e a manca. Eh, no, l'ozio non è questo! Ora che si avvicina - anzi ci siamo già praticamente dentro - il periodo delle vacanze, possiamo pensare che il vero modello di riferimento sia il turista che si reca in un villaggio, magari sobbarcandosi un volo di 12 ore, al solo scopo di… non fare nulla. Diciamocela tutta, quasi quasi gli converrebbe restarsene a casa che, secondo Chesterton “è il solo spazio di libertà. Anzi, è il solo spazio di anarchia. E’ il solo luogo sulla Terra in cui un uomo può decidere di getto di cambiare la disposizione dei mobili, fare esperimenti o indulgere in un capriccio”. Un lusso che nelle camere arredate stile finto-tropicale del villaggio non gli è consentito! Comunque, sta di fatto che una delle pratiche più diffuse nei luoghi delle vacanze è il dolce far niente, il mantenere le chiappe rigorosamente aderenti alla sdraio, o al plaid sul prato, o alla sedia del bar, o cose del genere. Bene, tutto questo, rassegnati, non è oziare. Come partire per una meta turistica non è viaggiare, starsene a ciondolare e sbadigliare in attesa dell’ora di cena non è oziare. Perché l’otium dei latini era (ed è) ben altra cosa, sebbene possa apparire tale e quale. Penserai che dunque sia una questione di lana caprina quella di discettare sul fatto che un essere umano (il più delle volte in costume da bagno e ciabatte infradito) stia oziando o invece semplicemente non facendo niente. Eppure, la differenza c’è, perché quest’ultimo appunto non fa niente, mentre il primo qualcosa fa: ozia! Infatti, l’ozio richiede attenzione e impegno, e spesso si può oziare in realtà facendo qualcosa, magari anche di impegnativo. L’ozio è un mettersi nuovamente in comunicazione con sé stessi: l’ozioso medita, non “stacca il cervello”, l’ozioso recupera le energie fisiche, non sta semplicemente fermo; l’ozioso guarda le nuvole passare e gioca a trovare somiglianze con oggetti o animali, non controlla se domani pioverà. L’ozioso è un essere che pratica la saggezza (quella bassa e popolare, magari, ma sempre saggezza è), non l’inattività più spinta. Ecco perché al vero ozioso la partenza per una vacanza in villaggio sembra un incubo insopportabile, degno di un racconto di Edgar Allan Poe! Davvero. Io non sopravvivrei a una tortura del genere. Ma veniamo alla fotografia e all'immagine del fotografo iperattivo e veloce, in grado ci catturare "al volo" l'evento significativo, pronto a ghermire la preda fotografica come una pantera, agile come una genetta, concentrato come un arciere Zen. Posso dirlo? Che palle! Ci sono in giro post che ti spiegano come appostarti nel punto giusto e attendere, aguzzando la vista stile Superman o Wonderwoman, accessori che ti permettono di sistema gli obiettivi sul fianco come una cartuccera in modo da "cambiare ottica in una frazione di secondo". Wow! Confesso che per mia naturale tendenza sono un po' così. Insomma, frettoloso, ecco. Mi piace comporre l'inquadratura, scegliere il momento giusto, ma (ahimè) fremo sempre un po', vorrei archiviare lo scatto e passare oltre, hai visto mai che dietro l'angolo ci sia un'occasione migliore? Ecco, dietro l'angolo non c'è mai nulla di meglio, nessun soggetto straordinario, perché non è il soggetto che alla fine conta, ma come lo percepiamo. Così, ad esempio, approfondendo il lavoro di Cartier-Bresson, ho scoperto che il famoso "balletto" in mezzo alla folla lo faceva solo qualche volta, per il resto stava ore e ore fermo in attesa che soggetto, luce e contesto diventassero una grande foto, il noto allineamento occhio-cuore-testa. Le grandi foto sono sempre state fatte da fotografi oziosi, nient'affatto iperattivi, sebbene sapessero agire nel più breve tempo possibile, all'occorrenza. Ma è lo stato mentale che funziona: il dimenticare la fretta e fare qualcosa che prepara all'azione. Essere pronti, liberi da pensieri inutili, rilassati, sereni, tranquilli e via aggettivando. Quando ho scoperto 'sta cosa mi si è aperto un mondo. Ma come potevo imparare davvero "l'otium"? Debbo dire che la fotografia stenopeica - quella fatta con un forellino al posto dell'obiettivo, di cui vedi degli esempi nelle foto che illustrano il post - è stata la mia cura, la mia benzodiazepina, il mio Xanax, il mio Prozac! Per ottenere risultati accettabili devi essere molto concentrato, ma nello stesso tempo rilassato: non puoi forzare le cose, devi metterci calma. E poi, durante lo "scatto" devi restare in attesa a lungo, a volte molto a lungo. La foto dell'interno della chiesa diruta qui sopra ha richiesto 15 minuti di esposizione, e ne ho fatte quattro diverse, totale: un'ora. Anche quando c'è il sole, i tempi sono comunque lunghi, se ti autocostruisci le fotocamere (altra attività da oziosi!) e ricorri non alla pellicola ma alla assai meno sensibile carta fotografica (come nella foto della chiesa qui sopra).
La cosa bella è che entri in comunicazione con il soggetto in un modo impossibile altrimenti, se non altro perché devi per forza rinunciare alla serie classica: vedere il soggetto, trovarlo bello, scattare la foto, passare oltre. Qui no: il soggetto lo scegli perché ci tieni davvero, hai visto qualcosa che davvero ti convince, dovendo convivere con lo stesso per parecchi minuti, a volte ore. Ora, questo post non è certo per suggerire a tutti di passare alla fotografia stenopeica: ammetto che ci sono soggetti che davvero non si prestano, a cominciare spesso dai ritratti delle persone o a situazioni necessariamente veloci. E' un genere fantastico ma non per tutti, anche quando declinato in digitale. Però l'approccio lento e ozioso mi sembra sempre valido. Come detto è uno stato mentale, non necessariamente fisico. Nelle attività sportive o comunque prestazionali si chiama "flusso": è quella situazione in cui fai le cose al meglio senza sforzo. Molto studiato ad esempio negli sciatori che dichiarano di aver vinto delle gare non quando forzavano la loro prestazione, ma quando questa avveniva senza che loro intervenissero, apparentemente almeno. Uno stato di grazia, potremmo anche definirlo. Sono certo che anche Cartier Bresson si sentiva così quando premeva il pulsante di scatto della sua Leica! Per concludere: domenica 24 aprile è il WWPPD (WorldWide Pinhole Photography Day), la giornata mondiale del foro stenopeico. Per l'occasione organizzo a Tuscania (Vt), una passeggiata stenopeica mattutina. Sarà molto oziosa! La partecipazione è libera e gratuita, se siete in zona magari ci vediamo. L'appuntamento è alle ore 9:30 alla porta dell'Orologio, quella che immette su Via Roma, di fronte la rotatoria, lo "snodo" centrale di Tuscania. Mi raccomando, avvisatemi se pensate di poter venire. Accanto alla porta d’ingresso della mia casetta di quando ero giovane e vivevo da solo, c’erano attaccate due piccole foto incorniciate. Non foto artistiche, foto ricordo. I ricordi sono materiale estremamente pericoloso, da maneggiare con cura. Personalmente ne ho una paura fottuta perché, quando ricordi non sai mai se le cose sono andate davvero come archiviato nella tua memoria. Sarà per questo che non amo nemmeno la funzione mnemonica che tutti legano alla fotografia. Una foto non è un ricordo, solo l'immagine - spesso falsa - di qualcosa che è apparentemente accaduto. Pura illusione... La prima foto in alto mostrava la cima di una montagna dell’Appennino. Sulla vetta, c’era una grossa croce di metallo, ai suoi piedi, accucciati e sorridenti come si conviene quando si è protagonisti di una foto del genere, c’eravamo io insieme a due amici che chiamerò Antonio e Mario, anche se non sono i loro veri nomi. Saranno stati i primi anni '90.
Mario lo avevo perso di vista poco dopo quella foto. Si era trasferito altrove, inseguendo un lavoro o forse una donna, o forse entrambe, che alla fine si unisce l’utile al dilettevole. Era un ragazzo simpatico, ex compagno di classe alle medie, ex compagno di pomeriggi sul muretto a dare voti alle ragazze, e a dire stronzate, quelle dettate dall’età e dall’incoscienza, poi cresci e le stronzate le fai, non le pensi solo. Quel giorno lì era stato bello, un giorno di inizio primavera, i faggi in basso erano color dell’erba, l’aria tersa, il sole tiepido ma non caldo. La fatica dell’arrancare in salita lungo il sentiero mentre si cazzeggia e ci si racconta dei fatti della vita è grato e salutare, come bere buon vino, o mangiare il panino ripieno, i taralli comprati alla Coop, la cioccolata dello zio militare o bere la grappa che sempre ci si concede dopo il pasto. Solo un sorso, che sennò ti sega le gambe, e hai voglia a riscendere. E allora collochi sul cavalletto la fotocamera che ti eri portato per le foto serie, componi la scena e premi l’autoscatto. Ecco. La pellicola avanza, i grani d’argento hanno mutato consistenza, un riverbero di realtà si è fissato per sempre. Non c’era ancora il digitale e il frr frr della reflex aveva qualcosa di magico, quasi scandisse gli attimi della vita. Frr frr, un altro istante è passato, frr frr guarda che panorama, frr frr che aspettate? Dobbiamo scendere, che si fa buio, frr frr un’ultima foto. Il rullo sta per finire, la giornata con lui. Antonio era un amico speciale. Era quel tipo di persona a cui tutti si rivolgerebbero trovandosi in difficoltà. Molti, in effetti, lo facevano. E lui sbrogliava la matassa con quella naturalezza e semplicità che lasciava tutti stupefatti. Ma come, era così facile? Se tutti noi siamo impiegati a tempo pieno nell’ufficio complicazione affari semplici, lui lavorava con profitto per la concorrenza. Sapeva trovare la strada per uscire da ogni impiccio, per risollevare ogni malanimo e ogni tristezza, per indicare la strada giusta anche al bivio più complesso. E lo faceva non perché avesse tutte le risposte (quelle le possiede solo Dio, se esiste), ma perché sapeva che ogni risposta era giusta, se la fornivi con l’atteggiamento necessario, con le parole adatte e il sorriso sulle labbra. Con leggerezza, quella leggerezza che è una dote così rara oggi, in cui se non sei pesante, pesantissimo, un vero elefante, nessuno t’ascolta. Lui, invece, parlava come fosse un refolo di vento mattutino e l’incanto avveniva. In quella foto, noi tre, accucciati sotto la croce, sorridevamo, com’è d’uopo nelle foto ricordo, e quel sorriso rivelava tante cose, anche se è falso. Si sorride alla fotocamera perché tutti fanno così, perché in genere certe foto le fai quando sei sereno e contento, ma in fondo non sorrideresti, se non ci fosse una foto da fare. E' anche un modo per ricordare - a noi stessi fatti più vecchi - che sorridere è importante. Anche per finta, magari. La foto subito sotto era un autoscatto. C’ero io da solo, in cima a una scogliera in Scozia, sullo sfondo il mare a perdita d’occhio. Ero lì per un reportage per una rivista. Non sorrido in quella foto, forse perché odio gli autoscatti e i selfie. Niente frr frr, tutto digitale. I tempi cambiano, le fotocamere cambiano, la tecnologia cambia, noi cambiamo. In meglio o in peggio difficile a dirsi. Guardando quelle due foto appese una sull’altra, perfettamente allineate, notai che rappresentavano un po' la mia vita. Le persone importanti, le categorie di eventi significativi. Non ci avevo mai prestato attenzione. Non avevo molte foto ricordo, non tenevo album, non ho mai amato queste cose. Non ne ho tutt'ora. Il mio passato è, dal punto di vista fotografico, quasi un buco nero. Preferisco così. Ogni qual volta mi chiedono di scattare una foto ricordo comincia a lamentarmi e sbuffare. Trovo che come supporto per i ricordi le foto facciano schifo, davvero. Ma sono io a essere strano, lo so. Però mi ero ritrovato - quel giorno di tanti anni fa - quelle due stampine e c’era un buco da riempire, lì, in quella parete. Avevo preso due cornicette economiche da Ikea e sistemato il tutto con fare distratto. Non so che fine abbiano fatto. Le ho perse di vista, così anche loro sono diventate solo un ricordo. Per questo, forse, sono così nitide nella mia mente... La Land Art mi ha sempre affascinato, lo confesso. Forse perché alla fine la sento affine ai miei interessi, alle mie passioni, almeno quella più ecologicamente orientata, che dunque non cerca di creare installazioni “pesanti” e a volte impattanti come “Spiral Jetty”, il “molo a spirale” di Robert Smithson, realizzato nel 1970 sul Grande Lago Salato, negli USA. Sebbene l’intento fosse anche quello di lanciare un messaggio ambientalista, di fatto l’opera venne realizzata a colpi di Caterpillar e movimento terra: non proprio il massimo dal punto di vista naturalistico. Inoltre l’opera è tutt’altro che provvisoria: dopo oltre cinquant’anni è ancora ben visibile e anzi c’è un’area parcheggio proprio davanti per poterla ammirare. Tra tutti gli artisti della Land Art, il mio preferito è invece Richard Long, che ha fatto del camminare la sua arte. Per questo artista la semplice azione di camminare nel paesaggio è “un mezzo ideale per esplorare la relazione tra tempo, distanza, geografia e misurazione”, quindi per instaurare una relazione diretta col mondo. In genere, camminando, Long getta ogni tanto un sasso, ad esempio nei torrenti che attraversa, come “testimonianza” tangibile del proprio passaggio. La prima camminata concepita come opera è Ben Nevis Hitch Hike del 1967, un viaggio di sei giorni, andata e ritorno, che ha portato l’artista da Londra alla sommità del Ben Nevis in Scozia. Sempre del 1967 è l'opera forse più famosa: "A line made by walking". L'opera di Long consisteva in una linea creata semplicemente camminando più volte su un prato, sino a rendere visibile una traccia. In verità, quel che noi conosciamo davvero è solo la fotografia, realizzata dallo stesso Long, di tale traccia. D'altra parte la gran parte delle creazioni di Land Art sono appunto effimere, e solo in tal modo è possibile diffonderle e farle conoscere, comunque conservarne il ricordo. Quasi tutti gli artisti della “Land Art” giocoforza utilizzavano la fotografia per documentare le loro opere, sebbene con ricorrenti crisi di identità artistica. Rosalind Krauss ha sottolineato come, soprattutto negli anni settanta, anni dominati “dall’onnipresenza della fotografia come modalità di rappresentazione”, il medium fotografico sia stato utilizzato da numerosi artisti per tutti quei lavori che avevano necessità di un supplemento documentario. Il problema era però che il pubblico finiva per fruire l’opera soprattutto attraverso le fotografie. Per questo molti artisti della Land Art decisero di scattare personalmente le immagini dei propri lavori, alimentando la confusione tra fotografi artisti e artisti fotografi, o di ricorrere a fotografi non solo specializzati, ma anche dotati di una precisa sensibilità. Ad ogni modo durante l'estate scorsa, mentre stavo effettuando una "camminata fotografica" nel lago di Bolsena, nell'acqua bassa, mi sono reso conto che il mio passaggio sollevava nuvole di finissimo limo, abbastanza persistenti - ma in rapida evoluzione - che decisi di fotografare proprio pensando all'opera di Long. Dopo alcuni secondi, il limo inizia a depositarsi e della "nuvola" resta a malapena una labile traccia. Tuttavia, è la mia riflessione, in qualche modo il lago non è più lo stesso, almeno in quel punto. Lo spostamento delle particelle di limo è definitivo. In effetti, il limo si sposta di continuo, ma in questo caso la "responsabilità" era mia. Questo mi ha fatto pensare che quelle foto rendevano - come "A line" - l'idea stessa dell'impatto che le attività umane, anche innocenti, comportano verso l'ambiente. Le nuvole, poi, sono anche un simbolo dei mutamenti climatici in atto su questo pianeta. Allora ho iniziato a creare delle nuvole e a fotografarle, lavorando alla mia - effimera - opera di Land Art fotografica. Prelevando sabbia e limo dal fondale e gettando queste "palle" sulla superficie (un po' come amavo fare da bambino quando andavo al mare) si creano forme affascinanti, simili alla scia fumosa di un meteorite (quello che molti invocano per metter fine alle nefandezze umane) o a una strana nube temporalesca, scura e incombente, attraversata a volte da sottili raggi di sole diffusi dall'acqua. E' nato così il progetto "Clouds Made By Walking (in water)". E' nato così questo progetto, che probabilmente mi porterà altrove, verso altri corsi d'acqua o laghi, verso altre "verifiche" e installazioni effimere, poi - chissà - alla creazione di un libro. Per ora ho pensato di selezionare alcune foto per una piccola "zine" cartacea a tiratura limitata, che sarà disponibile durante gli eventi a cui parteciperò, e per una "eZine" digitale gratuita che, se lo desideri, puoi scaricare dal sito PayHip o anche dal link qui sotto. Oppure sfogliare virtualmente su ISSUU.
Roger Fenton (Heywood, 28 marzo 1819 – Londra, 8 agosto 1869) è stato uno dei più grandi fotografi ottocenteschi, un vero pioniere in molti campi e soprattutto in quello della fotografia di paesaggio e di architettura. Ma i suoi interessi erano piuttosto vari. Si trovò così ad essere anche il primo "fotoreporter" di guerra della storia, in un periodo in cui per realizzare le fotografie occorreva portare con sé una pletora di attrezzature pesanti e ingombranti (36 casse in totale) e un'intera camera oscura ospitata in un carro trainato da cavalli. Si imbarcò così, con il sostegno del Ministero della Guerra britannico e la promessa di un editore di pubblicare le sue foto in un portfolio, per la Crimea dove Regno Unito, Francia, Regno di Sardegna e Impero Ottomano combattevano contro la Russia zarista. Fenton rimase in Crimea dal marzo al giugno 1855 come fotografo "embedded" - diremmo oggi - tra le truppe britanniche. Ovviamente, anche a causa dei limiti tecnici della fotografia dell'epoca, ma soprattutto per disposizione dei militari, poteva fotografare solo le retrovie, dedicandosi di fatto a comporre bei ritratti di soldati e dei loro comandanti. Ma il 23 aprile 1855 gli capitò di scattare finalmente la foto che lo avrebbe reso famoso e spesso indicata come la prima foto di guerra della storia: "Valley of the Shadow of Death" (La valle delle ombre della morte). Il titolo deriva da un Salmo della Bibbia. Questa foto è di stretta attualità per vari motivi. Il primo è il luogo dove venne scattata: la Crimea, da sempre una di quelle terre "sfigate" che per la loro posizione strategica sono destinate a essere contese e dunque instabili, come i fatti di questi ultimi anni ci dimostrano. Se vogliamo, dimostra anche che da sempre la Russia la ritiene fondamentalmente "proprietà privata" e dunque che di certo non era disposta a lasciarla in mano ucraina. Già allora costò ai russi pesanti perdite (256.000 vittime, di cui 128.000 direttamente per i combattimenti) e una dolorosa sconfitta. Inoltre rende chiaro come - anche storicamente - "sebbene ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti", per dirla con De André, visto che in Crimea di fatto i piemontesi andarono per gettare le basi delle future alleanze che permisero nel 1859 al Regno di Sardegna di iniziare la campagna per l'indipendenza italiana. Un pochino, insomma, c'entriamo anche noi. Ma dimostra anche, e direi soprattutto, che non serve mostrare morti, sangue e distruzione per evocare le "ombre della morte" e lo spettro orribile della guerra: basta una distesa di palle di cannone in un paesaggio desolato. La foto è così efficace che da quasi due secoli viene tirata fuori ogni volta che una nuova guerra è in corso, anche per dimostrare che niente, non impariamo mai. Non avremo più le palle di cannone ma missili e aerei potenti, ma davvero la logica è sempre quella della clava. La barbarie che portiamo dentro e di cui non riusciamo a liberarci. Oltretutto la foto è stata, molto probabilmente, costruita ad hoc, un po' come si sostiene della foto del "Miliziano morente" di Robert Capa. Ne esistono infatti versioni diverse, una senza le palle di cannone - effettivamente disposte in modo troppo regolare - sulla strada. E' del tutto ovvio che Fenton volesse "saturare" con i proiettili la scena per renderla più efficace. Una pratica che non è mai cessata da allora, ancora oggi ci sono reporter che chiedono di spostare i cadaveri per rendere la scena "più forte" come anche pratiche di propaganda che spacciano foto fatte altrove o organizzate ad hoc come riprese recenti fatte "sul posto".
Tuttavia io preferisco vederla invece come una scelta comunicativa e artistica, visto che la foto non vuole essere una mera documentazione (dato anche il titolo) ma evocare un'atmosfera, delle sensazioni. In tal senso funziona alla grande. A rigore la si poteva anche scattare altrove, nemmeno serviva andare in Crimea, ma se vogliamo è in questo la sua grandezza. Ad ogni modo mi è tornata in mente in questi giorni proprio perché nell'infinita serie di corsi e ricorsi storici, rappresenta un tassello di quella consapevolezza che dovremmo avere tutti del fatto - puro e semplice, addirittura ovvio - che la guerra non risolve mai (mai!) i problemi. Ogni conflitto, indipendentemente da come termina, ha in sé i germi per un conflitto futuro. Quei bambini che piangono disperati e che vediamo evacuare da Mariupol e dalle altre città martiri dell'Ucraina saranno i soldati e i combattenti di domani, se non sapremo fermare questa follia, e vale per qualsiasi conflitto in ogni parte del mondo. Mi piacerebbe davvero che i vari negoziatori e mediatori che cercano di convincere la Russia a interrompere l'attacco e l'Ucraina ad accettare un compromesso, portassero sempre con sé, e avessero bene in mente, la foto di Fenton. Questa è la guerra: desolazione, solitudine, morte, devastazione, ingiustizia. Nessuna gloria, solo fottutissime palle di cannone. In questi tristi giorni di guerra in Europa (sottolineo "in Europa", perché nel resto del mondo le guerre non sono mai cessate), viene spesso evocato lo spettro delle colpe di noi Occidentali. Insomma: gli "americani" e i loro alleati (spesso noi italiani compresi) hanno invaso l'Afghanistan, l'Iraq, bombardato la Serbia. E non parliamo della guerra di Corea o di quella del Vietnam! In fondo che differenza c'è? Non è ogni guerra ingiusta e ogni potenza per sua natura imperialista? Riconosco che in questo ragionamento c'è del vero, ma come fotografo credo che la differenza la facciano proprio i fotografi. Di guerra, s'intende. Quando si parla di questo genere di reporter, il primo nome che viene in mente, giustamente, è quello del più bravo di tutti (nemmeno a provarci a discutere di questo), cioè Don McCullin. Nella foto sopra, scattata in Vietnam, vediamo due soldati americani che soccorrono un commilitone ferito: la foto è "sporca" eppure di rara efficacia. Non c'è nulla di eroico, solo la sofferenza, perché questo è la guerra: morte e dolore, nient'altro. McCullin non è "avventuroso" e spaccone come Robert "Bob" Capa (cioè Endre Ernő Friedmann), eppure è sempre in prima linea nelle guerre che si succedono nel mondo. Dichiarerà sempre di odiare la guerra e di fotografarla proprio per questo. Certo non è stato l'unico, anzi sono parecchi ad aver accettato di mettere a rischio la propria vita per mostrare agli altri cosa davvero sia la guerra, spesso combattendo la censura e la propaganda. La foto qui sopra, ad esempio, è di David Douglas Duncan ("DDD" per gli amici) e ci fa entrare nel vivo dell'azione: notare le divise dei due soldati, bagnate sino all'altezza delle ascelle: si scivola nel fango e nell'acqua, la guerra è sangue e merda anche per questo. E fa vittime innocenti - sempre - come, per venire a tempi più recenti, in Afghanistan dove l'invasione americana voleva essere "pulita" e con meno vittime possibili: un ossimoro, sbugiardato da fotografi come Giles Duley. Duley reca sul suo corpo gli effetti della guerra, avendo perso un braccio e una gamba saltando su una mina durante un reportage in Afghanistan, quasi come il bambino ferito che ha fotografato. Eppure continua a raccontare l'orrore di cui lui stesso è oramai immagine vivente. Tutto questo ha impedito che nuove guerre scoppiassero? No. Ma ha permesso a chi voleva farsi un'idea realistica di quanto accadeva di avere delle testimonianze professionali, ben fatte, nei limiti libere e oggettive. Ma delle guerre russe, della Cecenia e ora dell'Ucraina (come a suo tempo dell'invasione russa dell'Afghanistan o peggio dell'intervento in Yemen del 1967) cosa sappiamo davvero? Non ci sono reporter liberi che possano fare una seria documentazione, nemmeno "embedded" nelle truppe di invasione. Al più ci sono foto di propaganda realizzate ad hoc. Ma è in generale tutta l'informazione bellica che è profondamente cambiata e la colpa è, almeno in parte, proprio dei fotografi. Chi non ricorda la foto di Nick Ut scattata in Vietnam a una giovanissima Kim Phùk? La si vede correre e piangere dopo essere rimasta gravemente ustionata durante un bombardamento sudvietnamita con il napalm (aereo e napalm forniti dagli USA, s'intende). La foto fece vincere al fotografo il premio Pulitzer, ma soprattutto, insieme alle tante immagini che giungevano dal fronte, fece cambiare atteggiamento all'opinione pubblica americana, scatenando le proteste di massa e di fatto incidendo sul ritiro americano dalla guerra. Un "errore" che i vertici militari cercarono di evitare per il futuro, riuscendoci solo in parte perché alla fine nei paesi occidentali - pur con tutte le loro ipocrisie - vige la libertà di stampa. E i fotografi anche se inseriti all'interno delle truppe del proprio paese, riuscirono (in parte riescono ancora) sempre a fare il proprio lavoro. In Unione Sovietica prima e in Russia poi questo meccanismo non è mai esistito, mancando una stampa davvero libera. E non è l'unico paese al mondo con un simile problema lo sappiamo. Oramai, però, questo va detto, le notizie dal fronte non sono più affidate a seri professionisti, ma sempre più spesso a una masnada di "citizen reporters", di gente armata di smartphone che riprende più o meno casualmente quel che accade. Ovviamente ci sono ancora fotografi con la scritta "press" sulle spalle che documentano la situazione (la foto sopra ad esempio è dell'agenzia EPA), ma è cambiato il loro ruolo, spesso si limitano a scattare immagini "di quel che succede" non a realizzare dei reportage che in qualche modo cerchino di interpretare la realtà, di andare oltre quel che si vede.
Non dubito che nella prossima edizione del World Press Photo ci sarà qualche foto vincitrice scattata in Ucraina, ma ovviamente qui parlo del "mainstream" e soprattutto del ruolo che oramai ha l'informazione in Occidente: un flusso continuo, inarrestabile, traboccante di notizie e immagini, video professionali o amatoriali, testimonianze confuse e alla rinfusa. Un caos nient'affatto calmo. A cui si aggiunge il problema di sempre, cioè il fatto che riceviamo tutto questo sempre e solo (o quasi) da una parte, quella ucraina, esattamente come un tempo non avevamo foto e reportage dai nordvietnamiti o dai Talebani. Però almeno, un tempo, avevamo fotografi in grado di allargare lo sguardo ed evitare la mera propaganda. Oggi non più, perché i canali di diffusione di un certo tipo di immagini sono oramai prosciugati. E Internet non potrà mai sostituire un giornale strutturato e "pensato" come, che so, "L'Espresso" di una volta. E concludo, a proposito, esprimendo la mia solidarietà a Marco Damilano - che si è dimesso dalla direzione del magazine - e ovviamente a tutta la redazione de "L'Espresso". La motivazione della crisi è proprio il fatto che un giornale come questo, se non dotato di mezzi e giusto coraggio, non può svolgere la sua funzione. Perché un giornale non è solo un'impresa economica... Definire qualcuno come “asociale” significa volerlo denigrare: è una forma di “tara” psicologica, un disturbo della personalità. In effetti, spesso lo è. Nei casi più gravi, l’asociale diventa un sociopatico, qualcuno che odia la gente, la società appunto. Io uso il termine asociale con un’accezione però molto diversa da quella che utilizzerebbe uno psicologo: faccio riferimento alla parola stessa che nasce dall’unione del termine sociale con la negazione “a”.
Un asociale, per come la vedo io, è qualcuno che non ama stare nella società nel modo in cui la società (intesa come massa) lo "richiede". Se non ti piace il termine asociale, puoi utilizzare quello di solitario, che è più romantico. Sta di fatto che le persone di questo tipo, le persone come me in effetti, non intendono condurre una vita in costante contatto con gli altri, obbedendo alle regole che questa scelta comporta: indossare maschere, essere poco autentici, fingere, evitare insomma di essere davvero sé stessi. Ora potrebbe sembrare che questo argomento abbia poca o affatto pertinenza con la fotografia, che poi è il campo di cui generalmente scrivo in questo post. Sbagliato, perché io credo fermamente che il fotografo sia per sua natura un asociale, anche quando ama frequentare luoghi molto affollati. La fotografia - come qualsiasi arte - è un fatto solitario: la condivisione viene dopo, semmai. Ma non solo: il fotografo davvero creativo rifiuta di adeguarsi ai dettami della massa anche nel modo in cui si esprime, a ogni livello. Perché la società di massa rifiuta chi non si adegua, chi non si uniforma, cioè letteralmente non indossa un’uniforme. E spesso la moda detta delle regole che rendono tutti identificabili, tutti uguali: ma non nel senso dei diritti (quello magari!) ma nel senso dell’apparire. L’asociale, il solitario, non veste alla moda, ma come piace a lui (se ama la moda del momento, si vestirà di conseguenza, ma non è un “obbligo”), parla di argomenti che ritiene interessanti e utili, frequenta luoghi e situazioni che lo stimolano, non perché “bisogna esserci”. Perciò alle mostre ci va in genere dopo l’inaugurazione, perché il “vernissage” non permette di godersi davvero le opere esposte e si viene rimbambiti di chiacchiere, anche se forse vi si fanno "gli incontri giusti"; nei luoghi da fotografare - se è questo il suo scopo e specialmente se sono luoghi molto noti e frequentati - ci va in periodi dell’anno e in giorni in cui non c’è la folla, per potersi davvero godere il luogo, e dunque riprenderlo in piena consapevolezza e senza distrazioni. Naturalmente il fotografo potrebbe essere interessato proprio a fotografare la gente: in tal caso senza dubbio andrà dove incontrare la folla, il soggetto che lo interessa, ma questo se vuoi è un caso specifico. D'altra parte i solitari, non disdegnano affatto la compagnia dei propri simili. Io per esempio - come appartenente alla categoria - ho molti amici, e anche amici che non vedo da anni e con i quali ho mantenuto un forte legame, diciamo spirituale. Anche dopo dieci anni che non ci vediamo, se ci si incrocia, è come se ci fossimo salutati ieri. Con gli amici veri è così: condividi l’anima, non il tuo tempo. Invece quelli che si definiscono “socievoli”, gli amiconi, si affaticano su amicizie superficiali, utilitaristiche, caciarone e spesso di breve durata. Ci hai mai fatto caso? Detesto essere costretto a frequentare gli eventi mondani che di fatto si basano sul nulla (è sottinteso che non sono tutti così!) e trovo opinabile il credere davvero alla possibilità di sviluppare una rete di conoscenze che arrivi a centinaia di persone (come sostengono alcuni). C’è addirittura chi pensa che gli “amici” di Facebook siano amici veri! Ma l’amicizia è come un Bonsai: cresce lentamente e richiede infinite cure, altrimenti muore. Coltivare centinaia di bonsai è illusorio: i più bravi ne potranno tirar su due o tre. Come fotografi e come artisti in generale dovremmo poi chiederci: di cosa ho davvero bisogno? Dell’approvazione altrui? Di piacere, di avere successo, di ricevere commenti positivi alle proprie opere? Il mondo è pieno di persone che basano il proprio valore sul giudizio altrui. Tutti cerchiamo di evitare il giudizio negativo, ma dipende da chi proviene: se è una persona che stimiamo e apprezziamo, il giudizio non potrà che esserci utile, e dunque sarà comunque una cosa positiva anche quando è negativo. Ma se proviene da qualcuno di cui non abbiamo un’alta considerazione, che cosa potrà mai importarci del suo mancato riconoscimento delle nostre qualità? Dobbiamo comprendere davvero chi siamo, cosa vorremmo essere e a che punto del nostro cammino fotografico (e non solo) ci troviamo. Se nemmeno noi ci conosciamo davvero, come possiamo pretendere di imparare a conoscere gli altri? Ogni cosa fa riferimento a noi stessi, e non è egoismo, anzi il contrario: la persona "socievole" si ritiene estroversa e generosa, ma spesso non lo è. Si immerge nel mondo e ha bisogno del contatto con gli altri perché è insicuro, e non vuole analizzare la propria vita. La solitudine gli è nemica perché lo obbliga a prendere contatto con la parte più profonda di sé stesso, ed è sempre un dolore scoprirsi inadeguati. Il dover attendere di essere in gruppo, in folta compagnia, per fare qualcosa, anche un'uscita fotografica, significa non voler prendere contatto con la realtà circostante: ci si isola, non ci si apre. Si fa “ammuina”, ci si stordisce, non si colgono le opportunità. Pensaci. Non è un invito a isolarsi. Anzi. E’ un invito a riscoprire te stesso o te stessa, cosa che puoi fare solo in solitudine. Fare “vita sociale” va bene, se solo siamo consapevoli che è davvero un tratto caratteristico del nostro carattere, se non nasce dalla paura. Personalmente riconosco subito le persone genuinamente socievoli e quelle che vogliono far gruppo solo per un'intima insicurezza. Non so tu come valuti il tuo carattere, ma di certo - socievole o solitario - dovrai fare sempre i conti con quella profonda solitudine che inevitabilmente avvolge in fotografo nel momento in cui interagisce con il proprio soggetto. Una solitudine piena di empatia, però, e non è un ossimoro! La fotografia di paesaggio inganna, e anche tanto. Vediamo immagini in cui sembra di ammirare luoghi selvaggi, solitari, intatti - e a volte sono davvero luoghi del genere - per poi scoprire che la foto è fatta da un belvedere in ci si parcheggia comodamente e ci sono piattaforme predisposte appositamente per i fotografi. Penso a tanti luoghi dell'Islanda, ad esempio, o anche del Sud America. Oramai tutto è addomesticato, trasformato in fondale utile per gli scatti dei danarosi fotografi occidentali pronti a pagare profumatamente pur di riprendere "quella foto" nello stile di Ansel Adams. E disposti anche ad attendere ore che i cento fotografi arrivati prima finiscano di riprendere il "grandioso paesaggio" e mollare il posto in prima fila. Diciamocelo: l'errore è tutto nella prospettiva - chiamiamola così - con cui guardiamo ai luoghi, che poi dipende direttamente dalla nostra competenza e dalla nostra cultura. Ne abbiamo esempi anche vicino a noi, magari dietro casa. Infatti, il tipico paesaggio italiano quale potrebbe essere? E' vero, abbiamo alte montagne, scogliere, cascate, ma in effetti quando si pensa al "Bel Paese" il "quadro" che ci viene in mente è più o meno come quelli ripresi dai pittori Romantici: colline, campi coltivati, cipressi e pini, qualche rudere. Dunque è la campagna la nostra "frontiera" visiva. Già i Romani, in fondo, amavano il "locus amenus" (la campagna, bella e piacevole). Così abbiamo anche noi i nostri "cliché" e leggendo le riviste di fotografie pubblicate ad esempio negli USA o in Gran Bretagna, spesso si vedono le pubblicità di viaggi organizzati nel "Chiantishire", tra le colline del Senese. E sempre vi compare l'immagine di un colle emergente tra le nebbie con, in cima, un casolare circondato da cipressi. Il corrispettivo visivo di "pizza e mandolino". Ovviamente la realtà è invece che i campi coltivati in modo intensivo sono il più delle volte non già simili ai romantici luoghi idilliaci e sereni, ma dei veri e propri deserti biologici. "Steppa agricola" viene definita scientificamente, ma questo quando - oramai è raro - si utilizzano sistemi di coltivazione non chimicizzati e dunque accanto al grano crescono anche le piante della "flora messicola", invece praticamente scomparse su gran parte del territorio, che sempre più spesso è dapprima verde in modo omogeneo e poi, prima del raccolto, giallo in modo uniforme, senza le macchie rosse dei papaveri o viola del fiordaliso. La cosa bella (si fa per dire) è che per molte persone questi paesaggi sono "natura", solo perché sono verdi. Indubbiamente affascinanti e fotograficamente remunerativi, magari, ma di certo se sono natura è una natura morta, il più delle volte. La colpa non è certo dei coltivatori, stretti tra le logiche di mercato e le necessità di far quadrare i conti. Le industrie richiedono prodotti "perfetti", e vaglielo a spiegare alla gente che le nocciole così belle e perfette richiedono spargimenti di diserbanti e anticrittogamici in quantità assurde, che poi uccidono i corsi d'acqua e i laghi (come il Lago di Vico) o che visto il costo del grano al quintale è impossibile reggere economicamente con una resa per ettaro che escluda il ricorso a veleni sempre più potenti e mirati e che dunque lasciare spazio ai fiordalisi è una romanticheria d'altri tempi. La colpa è anche nostra, di noi consumatori (che brutta parola...), che non ci fermiamo mai a pensare a come e dove ogni merce è prodotta e su quale sia la sua "impronta ecologica". A questo - e altro - pensavo mentre qualche giorno fa mi son fermato a fare delle foto alla "steppa". Certo, è affascinante. Sarebbe ancora più bella se in primavera si riempisse di fiori per creare foto come quelle di Franco Fontana degli anni '70 (altro cliché, ma almeno ecologicamente più sostenibile), invece è perfetta, quasi brutale. Lavorata a macchina, priva di imperfezioni, sembra di plastica, sembra una moquette stesa fino a perdita d'occhio e mi sa che per questo piace tanto allo sguardo dell'uomo contemporaneo. Cosa sono tutte quelle imperfezioni dei campi tradizionali? I muretti a secco, i boschetti, le siepi? Roba d'altri tempi, inutili romanticherie. Tempo fa, in una polemica sulle pale eoliche che stanno invadendo la Tuscia (provincia di Viterbo) dove abito e dove ho fatto le foto che illustrano questo post, molti hanno definito questo territorio "l'Irlanda d'Italia", come a dire che le verdi colline che si susseguono, in effetti senza particolari scempi edilizi o altre brutture, sono come la nostra brughiera. Un paesaggio naturale da salvaguardare. Ahimé non è affatto una brughiera, di farfalle ne volano pochissime, le api stentano a svolgere il loro grato mestiere. Sono invece l'effetto di uno "progresso" altrettanto sbilanciato e poco lungimirante di quello delle pale eoliche e degli impianti fotovoltaici. Che - naturalmente - non sono un male in sé, ma giocoforza diventano il simbolo di una civiltà energivora, incapace di pensare al "poco ma buono", meno energia, meno spreco, meno veleni, più salute e bellezza.
Quante volte senti parlare, nel dibattito sui mutamenti climatici, del risparmio energetico? La logica è come continuare a sprecare energia come oggi, solo producendola con sistemi che non emettano CO2. Ecco, con l'agricoltura è la stessa cosa. Se acquistassimo prodotti di qualità, magari biologici o almeno coltivati con metodi integrati, sprecassimo meno cibo, pretendessimo cibi non industrializzati pieni di sale e di zucchero e così via, i campi tornerebbero forse a macchiarsi di viola, di rosso, di giallo, di bianco. Che festa per gli occhi sarebbe! Come ancora accade, per fortuna, nei pascoli o nelle aree dismesse, quelle che l'uomo dimentica o abbandona. Che valore ha la bellezza? Un valore immenso, che però nessuno può tradurre in ricchezza concreta, in euro o dollari. Per questo, in verità, siamo tutti più poveri. Conosci il paradosso di Teseo? Secondo la solita Wikipedia, la storia del paradosso è questa: "si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria. Ragionando su tale situazione (la nave è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l'entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto?". Se ammettiamo che con i pezzi sostituiti qualcuno abbia costruito una seconda nave potremmo anche chiederci: la vera nave è quella che ancora comanda Teseo, realizzata interamente con pezzi non originali, o quest'altra che non appartiene all'eroe ma è fatta con parti originali? Bel guazzabuglio. Diciamo che il paradosso nasce per esplorare le contraddizioni tra ciò che è originale e ciò che non lo è che è qualcosa che non riguarda solo gli oggetti, ma anche le opere d'arte, e ovviamente la fotografia. La foto sopra è di Richard Prince, è il famoso "Cowboy" (1989), prima foto milionaria (nel senso che è stata venduta per un milione di dollari) della storia. Ma non è questo quel che ci interessa (a parte l'invidia): quel che ci interessa è il fatto che la foto in realtà rappresenta un dettaglio di un noto cartellone pubblicitario della Marlboro. Come puoi trovare scritto sul sito del MET (Metropolitan Museum of Art) di New York "la fotografia di Prince è la copia (la fotografia) di una copia (la pubblicità) di un mito (il cowboy) e un penetrante commento sulla continua attrazione della nostra cultura per le immagini invece che per le esperienze di vita vissute". Dunque qual è il vero originale fotografico: la foto realizzata da Sam Abell per la pubblicità delle sigarette - che sicuramente non è stata ricompensata con oltre un milione di dollari! - o quella riprodotta da Prince? Altro esempio: Thomas Ruff per il suo progetto "JPEG" ha utilizzato ingrandimenti estremi, che evidenzino gli artefatti jpeg appunto, di foto riprese dalla televisione. Immagini di guerre e conflitti, in particolare. Certo l'intervento creativo dell'autore, in questo caso, è molto più evidente, tuttavia non c'è dubbio che anche questo è un pezzo della nave di Teseo che se ne va. E di nuovo: chi è il vero autore della fotografia? Oggi che la tecnica delle "adozioni fotografiche" sta prendendo sempre più piede, con autori che non scattano nemmeno più le loro foto ma utilizzano quelle trovate su Internet per creare progetti anche molto complessi (il che significa che è l'editing il vero gesto artistico, non più lo scattare le foto), è ovvio che la questione si pone con forza, e a metterla in evidenza è stato tra i primi Joan Fontcuberta, grande fotografo e curatore nato a Barcellona, cosa di cui ho parlato nel mio blog sul sito di Reflex Mania. E' quella che Fontcuberta nel suo libro "La furia delle immagini" chiama Postfotografia. La fotografia senza la fotografia, potremmo dire: la nave di Teseo tutta nuova che però non è più la nave di Teseo, insomma! Ma non solo: il problema è il fatto che a parte l'idea di utilizzare foto altrui per i propri lavori o riprodurre "creativamente" foto scattate da altri, la gran parte dei fotografi (o presunti tali) vuole realizzare proprio quella foto, quella che millemilla altri hanno già scattato. Un caso tipico è quello del cosiddetto Manhattanhenge, diventato un hashtag importantissimo su Instagram. Anche qui ci aiuta Wikipedia: "Il Manhattanhenge, noto anche come solstizio di Manhattan, è un fenomeno in cui il tramonto del Sole si allinea perfettamente con le strade che attraversano il distretto di Manhattan, New York, in direzione est-ovest. Ciò avviene due volte all'anno, a pari distanza temporale dal solstizio d'estate: la prima si colloca temporalmente vicina al 28 maggio, mentre la seconda avviene in genere verso il 12 luglio". Joan Fontcuberta lo indica come esempio appunto di Postfotografia, in cui è vero che sono persone diverse a scattare la foto, è vero che cambiano inquadratura ed esposizione ma, in sostanza, la foto è sempre la stessa.
Utilizzando l'hashtag insta_repeat su Instagram di casi simili se ne trovano a centinaia. Abbiamo un mare pieno di navi di Teseo e alla fine ci si chiede davvero che fine abbia fatto l'originalità. Anzi: se mai sia esistita! La fotografia può salvare il mondo? Beh, forse il mondo no, ma parti di esso sicuramente. Mi viene in mente quanto Ansel Adams è riuscito a fare negli USA grazie alle sue magnifiche fotografie: salvare aree naturali, far istituire aree protette, rendere note ai cittadini le bellezze del proprio paese. Non è poco. Ieri, scorrendo un volume della "Enciclopedia della Fotografia", pubblicata negli anni '70, mi è capitato sotto gli occhi un progetto fotografico davvero interessante. Io vivo da circa undici anni a Tuscania, un cittadina del viterbese dove ho deciso di trasferirmi per la bellezza dei luoghi e l'integrità del borgo. Che però nel 1971 venne del tutto raso al suolo da un disastroso terremoto. Si sa come vanno queste cose: i giornali, i telegiornali, i volontari, i soccorsi. Poi il silenzio. Il vecchio paese venne abbandonato, la vita trasferita altrove, in case in cemento armato brutte ma comode, in quello che si chiama ancor oggi "quartiere Gescal", che ha anche un suo interesse architettonico, se vogliamo. La discussione, all'epoca era: cosa ne facciamo del centro storico? In verità, molti pensavano che, a parte recuperare i monumenti più preziosi come le chiese medievali di San Pietro e Santa Maria Maggiore, la scelta più ovvia fosse di ricostruirlo in forme moderne. Troppo alte le spese di un recupero filologico, e poi oramai la vita era altrove. Venti mesi dopo il terremoto, il centro storico di Tuscania appariva ancora desolato, invaso dalle erbacce, colmo di detriti. In quei giorni, arrivò in paese un fotografo romano, Luigi Albertini (1931-2013), che realizzò un reportage perché, scrive, "c'era una polemica in atto sull'uso dei mezzi che il Ministero dei Lavori Pubblici aveva destinato alla ricostruzione; una parte della popolazione, la maggioranza, voleva la ricostruzione di una nuova città". Non più il mantenimento della bellezza originaria - sebbene rivista e adattata alle distruzioni irrecuperabili - ma una città che pur richiamando l'antica fosse però moderna. Non sarebbe stata la cosa più ovvia? In verità c'era molta confusione in merito al da farsi similmente a quanto avviene oggi con L'Aquila o le altre cittadine distrutte dai terremoti più recenti. Come la ricostruiamo Amatrice, ad esempio? Cercando di riprodurre com'era, o lasciando fare all'estro degli architetti contemporanei? Albertini scatta le sue fotografie non con l'animo del semplice reporter, ma con lo sguardo colmo di comprensione per la drammaticità dell'evento e per l'urgenza di ricucire lo strappo: osserva le case sventrate, i letti contadini, gli interni più "lussuosi" dei notabili e quelli più dimessi delle persone comuni, entra nella sala d'ingresso del Comune, dove sono i "tondi" dipinti dei castelli che un tempo appartennero a Tuscania, sfregiati dalle crepe. Indaga con occhio fermo ma emotivamente coinvolto. Foto potenti, che ancora oggi colpiscono: ricorre sia al colore (più descrittivo forse), ed è il progetto pubblicato sul libro che possiedo, sia al bianco e nero (le foto si trovano sul suo sito), in formato quadrato e probabilmente scattate in una successiva occasione, nel 1974. In un'intervista dichiara che "la lettura di questi ambienti degradati, in via ormai di disfacimento, portata davanti al Senato e poi sul luogo stesso, e cioè alla periferia di Tuscania, è servita forse, insieme ad altre iniziative ben inteso, a favorire il recupero dell'antico ambiente originario". Di fatto, i cittadini tuscanesi, che abitavano a poche centinaia di metri dal vecchio borgo devastato, non riuscivano a "vederlo" come lo ha invece visto il fotografo. Avevano bisogno di comprenderlo e di scoprirlo attraverso uno "sguardo delegato": in un solo giorno, racconta Albertini, oltre duemilacinquecento cittadini visitarono la mostra e molti di loro tornarono più volte, in una sorta di presa di coscienza collettiva, di emozione condivisa. Su un muro un graffito fece la sua comparsa in quei giorni: "i soldi per le chiese si, per le case no". I tuscanesi rivolevano le loro case, rivolevano la loro città. Quel che il terremoto aveva letteralmente scoperto non era tanto la bellezza del borgo - che semmai aveva ferito a morte - quanto la cultura che dietro quelle mura trovava ricovero e che normalmente restava invisibile. Come scrive Carlo Arturo Quintavalle nel testo allegato alle foto, "negli interni delle culture contadine, tra i tanti arredi, uno è certamente il dominante, il determinante, quello che non può mancare, con l'armadio: il letto; sul letto, sui letti qui a Tuscania si potrebbe fare un lungo discorso. Sono tutti letti poveri, letti di legno o, più spesso, letti di ferro, in genere del periodo a cavallo tra la fine dell'altro secolo e gli inizi di questo, letti dal fondo sventrato, impolverati, graffiati, letti sospesi su un baratro di piani crollati con ancora sotto l'urinale di ferro smaltato...". Le cose poi andarono per il verso giusto grazie anche alla caparbietà dell'ing. Otello Testaguzza, responsabile capo del Genio Civile, che seguì la ricostruzione facendo delle scelte anche dolorose - a volte contestate - però restituendo ai cittadini e al mondo uno dei gioielli del patrimonio artistico e culturale italiano. Dunque, mi piace pensare che la mia scelta di trasferirmi a Tuscania mi abbia anche portato a scegliere un paese "salvato dalla fotografia", il che non è male!
Magari non è proprio così, però credo che ancora oggi, se utilizzata con sapienza e sensibilità, tenendosi fuori dalla massa informe e acefala di fotografie inutili e magniloquenti, la fotografia possa servire a salvare quel che conta davvero: un paese, degli esseri umani, degli animali, la natura, o solo delle idee e delle emozioni. Ho sempre pensato che il vero valore della settima arte consista in questo, non certo nel mostrare impettiti l'ennesima foto "spettacolare". E ora, quando guardo le mura di Tuscania, tutto questo mi appare con estrema chiarezza. La centrale dismessa di Montalto di Castro si trova all'estremità (apparente) di un canale di bonifica. Siamo in piena Maremma, al confine con la Toscana, in un ambiente detto - non a caso - i Pantani. In effetti ancora oggi si formano delle raccolte d'acqua provvisorie, pallido ricordo delle antiche paludi che avevano, specie durante il Medioevo, reso quasi impraticabile l'antica via Aurelia, ma che erano anche la nostra "Amazzonia", ricchissima di vita e biodiversità. Oramai il nostro territorio - intendo quelle europeo - è interamente gestito dall'uomo, e in tal senso è "paesaggio", che va inteso come l'incontro tra l'azione dell'uomo e quella della natura, mediato da un osservatore, che lo fa proprio o, come fa un fotografo, lo ferma in uno scatto. Il "paesaggio" infatti, è qualcosa di ben diverso dal "territorio": perché esista occorre che ci sia un osservatore. Vale, cioè l'equazione osservatore + territorio = paesaggio. Non a caso Ansel Adams sosteneva che il paesaggio è dove termina la natura, ed è singolare che venisse considerato un fotografo... di paesaggio! In realtà non amava fotografare paesaggi, intesi nel senso reale del termine, sebbene quando parliamo di fotografia il termine vada inteso in senso assai più ampio. Oggi, a onor del vero, ma in parte anche allora, si usa infatti questo termine comprendendovi le località del tutto o in gran parte naturali. Lo dimostra il fatto che molti fotografi di "paesaggio" (Landscape Photographers, per dirla all'inglese) in realtà sarebbero fotografi di natura, visto che riprendono foreste intatte e vastità dell'oceano, o montagne e ghiacciai. Certo, potremmo dire che oramai la traccia dell'uomo - magari invisibile - è ovunque, se non altro come inquinamento da microplastiche o riscaldamento globale e che dunque l'intero pianeta sia di fatto un "paesaggio", in cui alcune località sono lasciate solo più intatte di altre. E potremmo d'altro canto aggiungere che anche nelle fotografie "urbane" o di architettura (pensiamo alle opere di Basilico) in verità c'è sempre la Natura, se non altro nelle erbe spontanee che crescono lungo i marciapiedi, nell'acqua che scorre sul cemento e crea erosioni, nel vento e nella pioggia, nell'aria e nel sole. L'uomo non potrà mai davvero liberarsi della natura, mentre di certo quest'ultima potrebbe liberarsi dell'uomo, e un assaggio ce lo ha appena dato col Covid-19.
Sta di fatto, comunque, che quelle che ho scattato a Montalto sono foto di "veri paesaggi", in cui la natura (l'acqua, i canneti, il sole, l'aria, le nuvole...) interagisce con le opere dell'uomo (il canale, la centrale termoelettrica, i pali della luce...). E dove c'è un osservatore (io) rimasto ammirato da questo gioco di riflessi tra il sole, le nubi e la superficie dell'acqua. Oggi che tutto è facile, veloce e soprattutto possibile, oggi che chiunque, con quattro tutorial e un paio di consigli dagli amici più competenti sa creare fotografie tanto spettacolari (quanto vuote, ma questo è un altro discorso), oggi - sostengo - è anche il momento di rallentare un po’, se non di fermarsi un attimo a riflettere. Così sono sceso nel mio laboratorio (la grotta alchemica, la chiamo) con la mia fotocamera digitale e ho deciso di farle incontrare nientepopodimenoche il passato. Le ho imposto di nutrirsi di quel passato, dandole in pasto (a lei e al suo obiettivo macro) vecchi negativi recuperati nel polveroso archivio di Merlino. Me li ricordavo appena, ma un po’ mi sono commosso nel rivederli: non solo perché riguardano luoghi e situazioni del mio passato, ma anche perché rappresentano la mia strenua battaglia per superare i limiti imposti dalla fotografia analogica (oltre che i miei limiti personali). Riprodotti e postprodotti in una sorta di cortocircuito temporale, quei negativi hanno fornito abbondante materia di riflessione, che ovviamente condivido con te che stai leggendo, per renderti sempre più consapevole (nel caso ce ne fosse bisogno) che alla fine davvero il digitale rende tutto più facile e alla portata di tutti, ma coloro che volevano esplorare nuovi mondi la strada l’avevano trovata già prima, e gente come Jerry Uelsmann o Angus McBean mica hanno atteso l’invenzione dei computer e di Photoshop per dar vita a strani mondi immaginari! Ci sono tecniche che oggi sembrerebbe facile facile riprodurre. Si trovano anche come app preinstallate negli smartphone. Un esempio classico è il cross-processing: ai tempi dell’analogico consisteva nello sviluppare un rullo per diapositive nel bagno C41 per negativi o viceversa. I risultati erano difficili da prevedere, i colori in genere acidi, il contrasto alto. Per un periodo (diciamo anni ’80) la tecnica ebbe molto successo, poi decadde parecchio. Il fatto che i risultati fossero poco controllabili era parte del suo fascino: premere un pulsante per avere risultati sempre standard, come potrebbe essere la stessa cosa? Non lo è, infatti. Alla fine degli anni ’90 decisi di realizzare un intero servizio ricorrendo al cross-processing. L’agenzia per cui lavoravo allora non ne fu molto felice: ma io si. La location era Bruxelles, la doppia capitale, del Belgio e dell’Europa. I colori incredibili delle diapositive Fuji sviluppate nel C41 si intonavano perfettamente con le atmosfere che intendevo evocare. La bambina col cappottino rosso della foto sopra sembra un fantasma in un mondo di dominanti verdi. E il poliziotto qui sotto sembra quasi annoiato da un rituale che avrà visto mille volte: l’arrivo di qualche personalità importante della UE col suo codazzo di tailleur e ingiaccaecravattati. E non si può parlare di Bruxelles senza citare la birra. Lo scorcio con vecchia signora, camion con pubblicità e vecchi palazzi storici a me piace molto. Ma se la realtà non ci interessava davvero, in certi interminabili pomeriggi (estivi per me che odio il caldo, invernali per altri) potevamo anche costruircelo, il nostro mondo, con mezzi semplici e ingenui, che fanno sorridere oggi, in tempi di CGI e fotomontaggi digitali, e che anche allora apparivano troppo semplici a molti. Ma a me piacevano proprio per essere realizzazioni quasi fanciullesche, che non avevano bisogno di veri e propri mock-up (modellini costruiti appositamente), ma che utilizzavano strumenti alla portata di chiunque. E poi ci sono tutte le mille manipolazioni possibili, come le scoloriture delle stampe con la varecchina, o le bruciature. La tecnica del "burning" - impossibile da fare in digitale per ovvi motivi - consiste nel bruciare con una piccola fiamma un negativo o una diapositiva, provocando la fusione dell’emulsione, con la comparsa di macchie e strane textures. La foto sopra è una diapositiva trattata in questo modo e rifotografata. Le bollicine sono parti di emulsione che si sono sollevate dal fondo. Anche in questo caso è l’impossibilità di prevedere il risultato a intrigare il fotografo. Ecco, credo che in conclusione di questo piccolo viaggio nel mio passato, e nel passato di un certo modo di fare fotografia (scomparso forse per sempre), la riflessione principale che si dovrebbe fare è in merito all’aleatorietà.
Con il digitale puoi fare tutto e lo devi fare seguendo le procedure che la tecnologia ti mette a disposizione. C’è poco spazio per il caso. Ma con tutte queste tecniche di una volta, non sapevi mai cosa ne poteva risultare. In fondo questo riguardava tutta la fotografia: fino a quando non ritiravi il rullo dal laboratorio, non potevi essere certo del risultato. All’epoca questo provocava una dose massiccia di ansia. Oggi a volte penso che quell’ansia un po’ mi manca. Credo che al dunque sia per questo che ho ripreso a utilizzare l’analogico, affiancandolo al digitale: va bene il rischio, ma senza esagerare! Che cosa sai delle fotografie più famose della storia? Si, va bene, magari ne conosci l'autore, l'anno di realizzazione, il contesto ripreso, ma per il resto - ripeto - cosa ne sai? Facciamo un esempio prendendone una proprio famosa-famosa: il bacio all'Hotel de Ville di Robert Doisneau. A chiunque chiederai lumi, se un minimo mastica di fotografia, ti risponderà che è stata scattata a Parigi (e questo è del tutto ovvio) più o meno negli anni '50 (in verità esattamente nel 1950) e che il fotografo è stato davvero bravo a cogliere al volo una situazione così interessante. Ora, che Doisneau sia un bravo fotografo non c'è dubbio, che fosse a Parigi per realizzare un reportage per la rivista americana "Life" è altrettanto vero, ma che la foto sia stata colta "al volo" è invece falso: conosciamo anche i nomi dei due "amanti" ripresi: lei è Françoise Bornet, una studentessa che cercava di diventare attrice, lui è Jacques Carteaud, il suo fidanzato. Doisneau li aveva conosciuti e chiesto loro di posare per realizzare appunto questa foto. Tra l'altro fece dono alla ragazza di una stampa che negli anni '90 la stessa Françoise vendette per la non modica cifra di 155.000 euro, subito dopo aver cercato di portare il fotografo in tribunale accusandolo di aver ripreso lei e il suo ragazzo senza autorizzazione. Cosa evidentemente falsa anche questa. Fatto sta che la fotografia continua comunque, ancora oggi, a essere in testa alla "classifica" delle foto più famose al mondo e a essere venduta anche come poster o come biglietto augurale durante la festa di San Valentino. Eppure, sebbene le persone siano convinte di conoscerla davvero bene, in realtà ne sanno poco o nulla, a cominciare dal fatto che è, come detto, un'immagine "posata" e non spontanea. Questo vale comunque per tante fotografie. Pensaci: se rivai con la mente a qualsiasi foto tu ammiri e apprezzi, sapresti dirmi in che situazione è stata scattata? Con che fotocamera e con che obiettivo? Con quale pellicola? Piccolo o grande formato? E la stampa realizzata dal fotografo com'è stata realizzata: a contatto o con l'ingranditore, e quale formato venne scelto? Tutti conoscono le foto di Ansel Adams, ma quanti sanno in che formato le stampava? Ma a parte gli aspetti tecnici, viene anche da chiedersi: perché il fotografo era lì? Cosa lo ha spinto a recarsi in quel posto specifico? E soprattutto: cosa voleva davvero esprimere con quella fotografia? Dunque vedi che, a conti fatti, di qualsiasi fotografia, anche quella che reputi di conoscere bene, in realtà sai poco o nulla. E' quello che lo scrittore Roberto Mercadini, in un suo famoso video che puoi vedere qui sotto, definisce "Il paradosso della Gioconda". In breve consiste in questo: tutti conoscono la Gioconda e quando vanno al Louvre snobbano gran parte delle altre opere d'arte per andare a far la fila in attesa di poter stare davanti al dipinto di Leonardo. In fondo chi è che non sa tutto della Gioconda? Che era l'amante del pittore (forse), che ha un sorriso enigmatico e cose del genere. Sulla "tela" di Leonardo sono stati scritti libri e girati film. Nella finzione cinematografica viene addirittura rubata tagliandola lungo il bordo, arrotolandola e mettendola sotto un impermeabile. Peccato che non si tratti affatto di una tela, ma di un dipinto realizzato su tavola di pioppo. E le informazioni che girano intorno a chi fosse la Gioconda e quale rapporto avesse con Leonardo sono a volte imprecise, a volte del tutto sballate. Insomma, il paradosso è che le persone pensano di sapere tutto su un determinato argomento e in verità ne sanno davvero poco, spesso quasi nulla, se non quelle tre-quattro informazioni trite e ritrite. E questo, in campo fotografico, vale per un sacco di cose, davvero, sia dal punto di vista iconografico che da quello tecnico. Gli appassionati di fotografia sono convinti di aver perfettamente compreso il funzionamento del diaframma, del triangolo dell'esposizione, del mosso creativo, del bianco e nero, o di qualsiasi altro argomento ti possa venire in mente, e invece no, hanno solo poche informazioni, spesso pure errate. Sia chiaro: questo vale per tutti. Ovviamente gli "esperti" hanno molte più competenze e certezze, ce le ho anch'io, eppure spesso e volentieri sbagliamo. Non esiste al mondo persona che "sappia tutto"! Il paradosso della Gioconda non perdona. Dunque ho deciso di fare come Mercadini - che sul paradosso ha costruito anche alcuni dei suoi libri di maggior successo - e di andare a scovare quelle informazioni nascoste che possano rendere più chiara e profonda la conoscenza della fotografia, raccontando dettagli che magari ignori delle fotografie (mie e di autori famosi), o aspetti delle tecniche di ripresa che forse non avevi preso in considerazione precedentemente. Il tutto avverrà attraverso la mia Newsletter, uno strumento che trovo più personale e diretto anche di questo blog. Perciò, se vuoi rimanere aggiornato su queste mie "esplorazioni" e non sei ancora iscritto alla mia mailing list, ti conviene registrarti subito.
Tra pochi giorni inizierò con una serie di tre post, intitolati "Lo Zen e l'arte di costruire fotocamere" in cui spiego come realizzare una semplice fotocamera stenopeica, perché farlo e quali sono le implicazioni creative che l'impresa comporta: nulla è più educativo e rivelatore di fabbricarsi da soli gli strumenti da utilizzare per esprimersi, raccontare e anche giocare! Mi dico sempre che l’inizio di un nuovo anno è solo una convenzione. Per molti popoli non è il 31 dicembre, anzi per molti popoli non è nemmeno il 2022 (gli ebrei stanno circa al 5780, ad esempio). Figuriamoci. Dunque a che serve tutta questa retorica sul "nuovo inizio"? Ma i propositi hanno la caratteristica che te li imponi e poi non li rispetti mai, nemmeno il primo, il fondamentale (il n°10 dell’elenco sotto). Perciò eccomi qui a fare la lista dei 10 buoni propositi (quelli cattivi non serve elencarli, che li conosci bene) che ogni fotografo dovrebbe porsi per il 2022 (ma sono gli stessi da cinquant’anni almeno). Di buoni propositi noi fotografi ne abbiamo una caterva. Li scrivevamo un tempo sull’ultima pagina dell’agenda dell’anno precedente (io almeno facevo così), e insieme a quest’ultima il più delle volte li buttavamo nel cestino. Poi sono arrivati Internet e i Social e abbiamo imparato (poveri sciocchi) a condividerli, i propositi. Per fortuna nessuno si ricorda di quel che scriviamo, altrimenti sai che rottura di maroni! Dunque anche io inserisco qui alcuni propositi per il 2022, dicendo sin da subito che so già non li rispetterai, non ci pensi proprio. Alcuni valgono anche per me, e comunque anche io non li rispetterò. O magari si, se capita. D’altra parte il vero scopo dei buoni propositi è ricordarci che un altro anno è passato, e non abbiamo ancora fatto una cippa di quello che abbiamo pensato di fare appena venuti al mondo. 1 - Sistemare l’archivio Questa è la madre di tutti i propositi. Per me, fino al 2002-2003 almeno, significava riprendere in mano la pila infinita di plasticoni pieni di diapositive e cercare di dare a quella massa informe una parvenza di razionalità. Fallivo sempre, e dopo alcuni flebili tentativi, rimandavo tutto all’anno successivo e andavo a bermi un caffè. Poi è arrivato il digitale e mi son subito procurato i necessari softwares che avrebbero facilitato l’organizzazione delle foto e la loro ricerca. Facile, efficiente, razionale. Vabbe’. Ancora oggi so di avere un sacco di foto che mi servirebbero e non so in quale maledetto recesso dei miei hard disk sono finite. E’ che poi mi scordavo di allegare le parole-chiave necessarie alla ricerca, a volte ancora mi capita, e dimentico di aggiornare il software e cose del genere. Ma quest’anno lo farò. Renderò davvero il mio archivio efficiente e razionale. Hmmmm. 2 - Sostituire il computer E’ la cosa più odiosa al mondo per chi non è un nerd fissato con questa paccottiglia elettronica. In genere il mio PC diventa moderatamente intelligente dopo tre-quattro anni. E’ come i bambini: impara pian piano a gestire tutto quel che gli do in pasto. Lo so: in realtà sono io che ci metto un po’ a organizzare questo caos calmo, ma mi piace pensare che sia "lui" a doversi organizzare. Sta di fatto che quando comincia a mostrare evidenti problemi di crescita (certi crash dell’hard disk me li immagino come il dolore per il primo dentino), l’amico che ci capisce ti consiglia dapprima di dargli delle "pappe" più energetiche (due-tre stecche di RAM dovrebbero bastare), e poi di portarlo in discarica e comprartene un altro. Che è come dire: visto che tuo figlio è capriccioso, portalo all’orfanotrofio e generane un’altro. Che non è nemmeno un’idea balzana. Però... reinstallare tutti i softwares?! Tutti i plug-ins?! Riorganizzare le cartelle, gli archivi, ogni fottuto dettaglio? Sei pazzo?! Sicuramente è qualcosa che somiglia a un parto. Non lo farò mai! Finché non tirerà definitivamente le cuoia, mi terrò stretto il vecchio PC, stanne certo. Ecco. 3 - Imparare a usare i Softwares Inutile girarci intorno: la ripresa con la fotocamera rappresenta si e no il 30 % della realizzazione di una fotografia. Se poi non processi il file RAW (guai a usare il jpeg!) non avrai in mano niente. Dispiace che tanti fotografi non se ne rendano conto. Ma per usare adeguatamente un software, da Photoshop a Lightroom sino a quelli "free" come Darktable e GIMP, ci vogliono competenze, studio e un po’ di tempo da trascorrere smanettando e bestemmiando per gli insuccessi. Sangue e sudore. Così si finisce il più delle volte per imparare due fregnacce che si ripetono a memoria - un tocco alle curve lì, regolazione del bianco qua - e avanti così. O si creano azioni automatiche e si lavorano i file in batch, in massa, senza pensarci troppo su. All’arrivo del nuovo anno, poi, tutti a dire: "ah, no! stavolta mi metto lì con dei tutorial e imparo per bene come si fa a ottimizzare una foto!". Mai proposito fu più palesemente falso. 4 - Studiare il manuale di istruzioni della fotocamera Conosco fotografi che da anni litigano con la loro fotocamera senza venirne a capo. Li riconosci subito: non appena si deve scattare una foto appena più complessa di un "selfie", iniziano a smoccolare tutti i santi chiedendosi: "ma dove c...o è ’sta regolazione?". In genere finiscono la giornata di malumore, scorrendo i menù infiniti di certe fotocamere che sanno fare tutto e quindi niente, mentre il loro soggetto sparisce all’orizzonte. Ogni volta che mi chiedono consiglio, domando: "ti sei messo con la fotocamera in una mano e il manuale delle istruzioni nell’altra a studiare dove sono i diversi comandi?". In genere mi rispondono: "eh, ad avercelo il tempo!". Magari questo è l’anno buono, magari nel 2022 studierai come far funzionare al massimo la fotocamera, giusto in tempo per cambiarla e cominciare tutto daccapo. 5 - Provare quella "tecnica particolare"
Nonostante tutti gli sforzi fatti negli ultimi due secoli, c’è ancora chi pensa che la fotografia sia fatta solo di "tecniche", imparando le quali - finalmente - si diventa davvero bravi. Prima erano le modalità di esposizione della pellicola, lo sviluppo calcolato al secondo e al grado di temperatura, la stampa all’oro o al platino, cose così. Oggi è tutto un fiorire di "risorse" tecnologiche fantascientifiche: focus stacking, HDR, stitching, VR, e chi più ne ha più ne metta. Non c’è quasi fotografo che non voglia imparare una determinata tecnica per stimolare adeguati "wow" su Instagram o Facebook. Ma come sempre occorre perderci un po’ di tempo e di fatica. Sarà per il 2023. 6 - Leggere quel saggio Come autore di saggi sulla fotografia non posso che incoraggiare questo proposito, sebbene, per lo stesso motivo, sappia quanto verrà trascurato. Ma a parte i miei, ci sono saggi davvero fondamentali (da quelli della Sontag alla "Camera chiara" di Barthes) che da anni vuoi leggere - anche se dici di averli letti so che stai mentendo, a me non la fai - e forse (forse) questo è l’anno buono. Inoltre potresti anche migliorare il mio, di anno, acquistando (puoi anche non leggerli, basta che li compri) i miei volumi! 7 - Acquistare "quei" libri fotografici e studiarli per bene I libri fotografici sono quel prodotto editoriale con due precise caratteristiche tecniche: con poche eccezioni costano troppo e nessuno li "legge", al più vengono velocemente "scorsi". Per leggere intendo le foto, non i testi critici che li accompagnano. Le foto possono essere "lette", cioè esaminate, studiate, comprese, per far sì che ci aiutino anche a migliorare a nostra volta come fotografi. Ad ogni modo per i motivi detti all’inizio son davvero pochi i libri fotografici venduti in Italia (ma anche nel mondo, se l’autore non si chiama Ansel Adams o Cartier Bresson), a fronte di un’enorme quantità di fotografi praticanti. Il che la dice lunga sul perché la fotografia non "cresce" come forma di espressione creativa. Anche qui, alla voce "Libri" di questo sito puoi trovare i miei, di libri fotografici. Hai visto mai... 8 - Predisporre e realizzare un progetto fotografico Ecco! Ogni anno sento numerosi fotografi auto-incaricarsi di dar vita a un progetto fotografico organico e studiato, che porti a una mostra o alla (auto)pubblicazione di un libro o di un portfolio. Idee audaci, spunti creativi pazzeschi, per poi arrivare a dieci foto della fidanzata o del fidanzato che sorridono ebeti davanti l’obiettivo. E pensare che un progetto fotografico è - o dovrebbe essere - l’unico vero scopo nella vita di un fotografo! Fatti un favore: non andare in giro anche quest’anno dicendo che stai "lavorando" (ah ah ah ah) a un tuo grandioso progetto. Oramai nemmeno la tua fidanzata/fidanzato ci crede più! 9 - Partecipare alle attività di qualche Circolo o Associazione fotografica Wow! E’ uno dei propositi che sento di più. Mi iscrivo alla FIAF! Partecipo alla mostra del Circolo Dopolavoristico Fotografico! Voglio impegnarmi per far conoscere la fotografia nella mia città! Organizzo un workshop col fotografo famoso! Guardati attorno: vedi come ti compatiscono tutti? E’ dal 1991 che lo dici... 10 - Basta! Smetterò di darmi dei propositi per il nuovo anno Questo è davvero il proposito meno rispettato di tutti. Tranquillo, ci casco sempre pure io, come puoi vedere. Ad ogni modo, per quel che vale: Auguri! Ogni buon fotografo sa bene che un obiettivo grandangolare "allontana" i soggetti, ma nello stesso tempo ne mette dentro parecchi, mentre un teleobiettivo "avvicina" i soggetti, però li seleziona, inserendone nell'inquadratura molto pochi. Insomma, il grandangolare è descrittivo, il tele è selettivo. Questo, in fondo, è parte del linguaggio stesso della fotografia, che "parla" anche attraverso precise scelte dell'angolo di campo. Non a caso per decenni i fotografi, soprattutto di reportage ma non solo, amavano il "normale" e spesso utilizzavano solo quello: una buona via di mezzo, che mostrava il necessario senza esagerare. Per "selezionare", poi, bastavano due paia di buone gambe: avvicinarsi o allontanarsi - fisicamente - era lo zoom di una volta. Una tecnica dimenticata, oramai. Ma astraendo dal campo puramente fotografico, ma rimanendo nel settore dell'arte, quello a cui assistiamo oggi, nel XXI secolo, è un progressivo "accecamento", una crescente incapacità di vedere davvero perché si è sempre troppo lontani, sempre collegati attraverso una modalità telescopica. "L'oggettività è diventata una teleobiettività" scriveva già nel 2004 il filosofo Paul Virilio, famoso per i suoi studi sullo sviluppo della tecnologia e i suoi effetti sull'uomo. "L'arte dell'accecamento" è appunto il titolo del libricino che ho appena letto, districandomi in una prosa a volte sconnessa, difficile da seguire, in cui però emergono intuizioni felici e illuminazioni che mi hanno affascinato. Anche e soprattutto come fotografo, cioè di fatto come operatore di un campo - potremmo definirlo genericamente delle arti visive, ma dominato dai video - che è coinvolto in prima fila da questa evoluzione (se di evoluzione si tratta) della società. Virilio sostiene che viviamo nell'epoca del "vedere senza andare a vedere", del percepire senza esserci veramente, eppure costantemente intenta a far finta di guardare, a debita distanza telescopica, come nello slogan dell'agenzia Corbis fondata nel 1989 da Bill Gates: "Noi siamo ovunque guardiate. Sempre e in ogni luogo del mondo". "Dilatazione scopica" la definisce Virilio: senza spostarci dal nostro punto di osservazione, guardare al mondo ed essere sempre presenti, ovunque, in ogni istante, pensando in tal modo di riuscire a "capire", quando invece siamo accecati dalla distanza, anche emotiva, che ci separa da ciò che avviene, spesso anche solo dietro casa. Questo, invece di rassicurarci, ci spaventa: è dai tempi della Guerra Fredda che la società occidentale è una società dominata dalla paura e, come sosteneva Albert Camus, "il lungo dialogo tra gli uomini si è interrotto. Un uomo che non si può persuadere è un uomo che ha paura". Frase particolarmente di attualità in quest'epoca di pandemia. Nel corso del tempo, l'arte, il cinema, la letteratura e anche la fotografia hanno alimentato questo senso di "panico" costante, di dissoluzione delle certezze, insinuando il dubbio - mascherato da senso critico - e pilotando la nostra percezione verso gli spazi dell'indeterminato: quel che serviva a rivelare - in senso epifanico - diventa invece una sorta di velo di Maja impossibile da superare. A dimostrazione di questa tendenza a guardare le cose da lontano, da un lato per estetizzarle, dall'altro per nasconderne le implicazioni più "umane", Virilio porta ad esempio le riprese, cinematografiche e fotografiche, fatte dall'alto. Già Nadar, alla metà dell'ottocento, riprese Parigi da un pallone aerostatico e da allora la rincorsa a questo guardare verso terra da un punto di vista elevato non ha conosciuto ostacoli, fino ad arrivare ai satelliti. "Invece di osservare la linea che divide il cielo dalla Terra , si osserva la superficie... come un tempo si contemplavano le stelle" scrive il filosofo francese. Consideriamo che il saggio è scritto in un'epoca in cui non era ancora iniziata la moda dei droni: oggi chiunque può riprendere la superficie dall'alto, scattare fotografie o fare riprese "creative" in cui però il punto di vista è quasi sempre al nadir, direttamente verso il basso. In tal modo non si comprende di più, si vedono solo più cose, spesso semplicemente effetti grafici, o contrapposizioni di colore. E l'arte contemporanea questa ricerca della distanza l'aveva già iniziata da tempo, come scrive Marek Halter a proposito di Jackson Pollock: "il primo ad aver abbandonato il cavalletto, una volta posta la tela per terra per cogliere il quadro dall'alto. E' come un paesaggio visto dall'aereo". Il punto è, come sottolinea Virilio, che oggi le persone non vogliono vedere, ma essere viste, e dunque la fotografia - nel nostro caso - diventa il mezzo per farsi notare, per cercare di emergere dalla massa, cosa ottenibile principalmente attraverso immagini che non siano controverse, rivelatrici, significative, ma semplicemente estetizzanti, e che anzi, come certa architettura contemporanea fatta di vetri e trasparenze, di cavi e superfici sottili, diventino quasi invisibili, puro supporto per effetti in grado di "colpire" lo spettatore. Di fatto rinunciando al ruolo che la fotografia, e l'arte in generale, ha sempre avuto, di essere "sguardo reso materia", dunque qualcosa di rivelatore.
I fotografi erano quelli che rendevano visibile l'invisibile, oggi spesso si limitano a rendere più bello quel che è sotto gli occhi di tutti. A dire il vero penso di no: intendo dire che non sono passati invano. Però quasi. Ma andiamo con ordine che così la faccenda sembra confusa (infatti lo è nella mia testa, ma ora provo a dipanarla). Dunque: in un post pubblicato qualche giorno fa sul mio blog "F22" ospitato sul sito di Reflex-Mania, ho affrontato il tema della fotografia degli anni '70 (e '80 in parte) sostenendo che da allora non è che si siano fatte chissà quali "cose nuove", facendo un confronto con la situazione - per molti versi simile - della musica Rock (ma anche Pop, è ovvio). Ora: potresti dirmi che mica è necessario fare sempre cose nuove! Ed è vero, concordo. Infatti io, ad esempio, non ho mai sentito la necessità di farle. Quel che facevo già mi piaceva, e l'avvento del digitale mi ha permesso di farle meglio e più comodamente, dunque perché cambiare? Parlo del mero aspetto tecnico, s'intende: ogni fotografo - auspicabilmente - evolve rispetto a quel che faceva un tempo! Però trovo strano che i giovani, nati in era digitale, non abbiano poi trovato un modo davvero innovativo, insomma diverso, di dire quel che hanno da dire, limitandosi a riprendere stilemi e modalità già noti. Ma parliamo degli ultimi vent'anni. Anzi no: degli ultimi 107 anni. La foto sopra l'ho scattata ieri con una fotocamera digitale. Sono principalmente un fotografo di paesaggio e questa è una classica foto paesaggistica. Per realizzarla ho impiegato circa 2 minuti, compreso il tempo di montare il treppiedi, sistemarci su la fotocamera, avvitare il filtro ND 32 ecc. ecc. Ora guarda questa versione qui sotto, realizzata poco dopo. L'ho scattata con una Leonar 9x12 cm del 1914 circa, utilizzando carta fotografica Bianco e Nero (sensibilità 6 ISO). Per realizzarla ci ho messo circa 12 minuti. Oltre a montare la fotocamera sul treppiedi, ho dovuto curare la messa a fuoco sul vetro posteriore che, essendo assai vecchio, non è proprio chiarissimo. Sono ricorso a una lente apposita per ingrandire il dettaglio, poi a occhio ho composto l'inquadratura. Dunque ho avvitato lo scatto flessibile, scelto il diaframma (f/22), impostato la posa T, fatto la lettura esposimetrica con un esposimetro esterno e alla fine aperto l'otturatore per 2 minuti. In effetti le due foto sono assai simili, a parte il diverso angolo di campo, ma la seconda ha richiesto sei volte più tempo. Non solo: dopo ogni scatto occorre sostituire lo chassis e, se si vuole scattare ancora, sostituire le lastre con una "changing bag", cosa non facilissima in un clima umido e piovoso come quello di ieri. Infatti ho realizzato solo 3 foto con la Leonar e un centinaio con la digitale! Ti sembrano grandi differenze? Direi di no. Operativamente lo sono, e non c'è alcun dubbio che la comodità del digitale stravinca su ogni fronte - sebbene la Leonar vinca a man bassa sul fascino di una modalità lenta e meditata - ma dal punto di vista della mera produzione della foto non sono poi diverse. Anzi, son proprio uguali. Quasi. Dunque potrebbe sembrare - da questo semplice confronto fatto tra fotocamere separate da oltre 100 anni di evoluzione tecnologica - che davvero gli ultimi vent'anni siano serviti a cambiare poco, in campo fotografico, a parte l'accelerazione e la riduzione dei tempi. Il che porta solo a produrre più foto, non per forza foto migliori.
E, in effetti, se ti guardi intorno vedrai che il 90% di quello che si faceva un tempo col grano d'argento si fa tutt'ora con il pixel. E dunque, per dirla con Catalano, la domanda nasce spontane: è un male o un bene? Penso che non sia né l'uno né l'altro. Semplicemente la fotografia continua a essere sé stessa, non cambia, e tutto sommato non vedo grandi novità nemmeno nell'approccio ai soggetti. La facilità di produrre sempre nuove immagini certamente comporta uno sguardo meno approfondito, la ricerca di un'immediatezza che a volte fa a pugni con una riflessione seria, tuttavia gli autori che già prima "andavano lenti" continuano a farlo, e chi va sempre di corsa ora ha lo strumento giusto. Perciò viene da pensare che le vere novità, il vero approccio nuovo non possa venire dalla fotografia "tradizionalmente intesa", ma da strumenti che pur richiamandosi alle fotocamere, fotocamere al 100% non sono, e parlo degli smartphone, ad esempio. Io stesso noto che utilizzando un "telefono" per fotografare, ho un approccio necessariamente meno convenzionale, e che alla fine questo spinge a battere strade nuove, a vedere dove "si possa arrivare". Presumo che col tempo, altre possibilità faranno la loro comparsa, che vedano nel digitale qualcosa di nuovo, ma nuovo davvero, uno sguardo diverso da quello reso possibile anche da una folding di un secolo fa. Pensa anche solo alle panoramiche immersive, alle Action Cam che puoi piazzare dove vuoi, ai droni non utilizzati per "rifare" le foto aeree ma in maniera creativa, e così via. Sempre più mi sembra che il digitale debba trovare una propria poetica che non sia semplicemente quella tradizionale, ma che si spinga almeno un po' "al di là". Altrimenti davvero gli ultimi vent'anni sarebbero trascorsi invano... Ho creato un po' di suspence? Beh, in effetti il mistero è fitto e chissà che qualche lettore di questo post - più nerd di me - sappia diradare le nebbie. Il punto è presto detto: avevo già notato per conto mio, ma il problema era stato sollevato anche da alcuni iscritti ai miei corsi, che aprendo una foto in software diversi, le foto stesse apparivano diverse. Più scure o più chiare, più contrastate o meno, e così via. Ad esempio, lavorando una fotografia con Lightroom e aprendola successivamente nel browser che uso di solito (FastStone), appare con le ombre più chiare e nel complesso meno contrastata. Ho sempre pensato si trattasse delle impostazioni di fabbrica, motivo per cui le ho azzerate tutte, ma niente, la differenza resta. Magari di poco conto, ma c'è. Come vedi dalla foto qui sopra, le due curve (Photoshop e FastStone) sono molto simili, tuttavia l'area delle ombre di FastStone (a destra) è più alta, dunque più chiara, di quella di Photoshop, che infatti non sfiora il limite in alto. Anche il "cuneo" delle luci a destra è meno profondo in FastStone. Insomma, ripeto, differenze piccole, eppure si notano. L'impatto pratico potrebbe sembrare di poco conto, tuttavia alla lunga può comunque portare a degli errori o a delle delusioni se si stampano le immagini. In effetti, a quale dei due istogrammi delle curve dar retta? Comunque, mi sono chiesto, questa cosa riguarda solo i due software appena citati, oppure è più diffusa? Allora ho preso la semplice foto che vedi qui sotto, adatta perché presenta aree molto luminose accanto ad ampie zone medie (tipo il cielo) e ombre profonde. E poi l'ho aperta in diversi software. Naturalmente ho scelto una foto già in jpeg, perché il RAW viene "prelavorato" da ogni software in modo diverso. Ma, in teoria, in una foto jpeg la distribuzione delle luminosità dovrebbe oramai essere "fissata" per sempre. Avevo a disposizione, oltre a PS e FastStone, anche Lightroom e Affinity Photo. Per una prova al volo bastavano. Ebbene, nemmeno uno degli istogrammi delle curve era identico all'altro, nemmeno quelli dei due software di casa Adobe! Differenze piccole, però non del tutto trascurabili, sebbene nell'uso pratico, guardando a schermo, si notino appena. Ora, va bene che le impostazioni di ciascun software siano diverse e che dunque possano cambiare i livelli raggiunti da ogni area di pixel, e va bene che in sostanza la "forma" dell'istogramma resta molto simile, ma se si guarda quello di Affinity la differenza è davvero grande. La foto rappresentata dall'istogramma è molto più densa e scura di quella degli altri tre software, e anche con passaggi più graduali e meno netti: manca ad esempio il "muro" verso sinistra dovuto alla zona in ombra sulla destra della foto. Comunque anche negli altri tre ci sono "picchi" distribuiti diversamente e di diversa altezza.
Insomma, se la "media" è più o meno quella, ogni software ci mostra le luminosità a modo suo, a seconda di come è stato progettato e impostato. Questo non significa che l'istogramma - e le curve che servono a correggerlo - non siano utili, anzi, solo che occorre prestare attenzione e ricordare che ogni software può darci risultati almeno in parte diversi tra loro, in fondo né più né meno come accadeva un tempo cambiando bagno di sviluppo delle pellicole. Visto che di professione faccio il fotografo e non il tecnico di software non so dare una spiegazione "scientifica" del fenomeno, che a livello pratico non comporta grossi problemi, però la curiosità resta! Una delle cose più difficili che il fotografo serio e magari evoluto deve fare è quella di scegliere il tema di un proprio progetto. Sia che si tratti di pubblicare una ezine online, o di creare una piccola pubblicazione, o un libro o anche una mostra, resta il fatto che ci vuole un'idea, e dev'essere buona, altrimenti tutti gli sforzi fatti per realizzarla saranno vani. Certo, mi dirai, la cosa giusta da fare è dar fondo alla propria fantasia e soprattutto cercare di raccontare qualcosa che conosciamo bene, di personale, o che ci appassiona o almeno interessa. Ma questo è ovvio. In realtà simili scelte sono alla base di una qualsiasi "carriera" fotografica - professionale o meno - anche se a volte occorre prescinderne per necessità contingenti. Ad esempio io scatto oramai solo in Bianco e Nero o quasi, ma spesso debbo lavorare a colori per gli archivi, l'editoria o quant'altro. Però quando fotografo "per me" mi piace farlo senza i colori e a volte in analogico. Fatta questa necessaria premessa, di sicuro possiamo dire che a volte la scelta del tema da affrontare con le nostre fotografie è dettato anche da nostre necessità diciamo "interiori". Insomma: vogliamo vincere qualche concorso, avere successo sui Social, essere apprezzati, trovare un editore che accetti le nostre foto, e così via. Legittimo. Sappiamo pure che realizzare una serie sul cortile di casa nostra, sebbene magari fonte di foto straordinarie, difficilmente ci darebbe quella visibilità a cui tanto aspiriamo. Dunque la domanda sorge spontanea: è possibile realizzare un progetto fotografico con dietro un'idea "popolare" senza tradire le nostre convinzioni e necessità? Ti dico: non lo so. Anch'io mi pongo la domanda un giorno si e l'altro pure. Anche perché di questo ci ci vivo! Comunque qualche anno fa mi è stato d'aiuto un post di Riccardo Scandellari (Skande), un eccellente blogger, esperto di comunicazione online, personal branding e marketing. Nel suo campo un vero genio. Il suo campo, ovviamente, c'entra poco con la fotografia, ma in quell'occasione (luglio 2018) ho notato che i consigli che dava su come creare "contenuti coinvolgenti" (si riferiva a come scrivere un post) si potevano adattare anche alle nostre esigenze. Dunque li riporto qui con i necessari adattamenti, sperando di non offendere l'autore. Nulla di nuovo - "Al contrario di quello che si pensa, le grandi storie aggiungono solo un piccolo tassello a quello che le persone conoscono già. I contenuti di maggiore successo concordano con quello che le persone credono facendole sentire più sicure e intelligenti. La gente, anche se non lo ammette, non ama le novità in quanto tali, amano le novità che confermano le loro credenze", scrive Scandellari. Ecco, questo aspetto è fondamentale. Naturalmente non può valere sempre o per tutti i progetti fotografici, ma di sicuro se vuoi che il tuo lavoro sia apprezzato da molte persone (e non è affatto detto che tu lo voglia) devi offrire loro certo una visione fresca e innovativa, ma che non le faccia sentire impreparate. Tanti lavori fotografici di oggi vanno in direzione opposta, e io per primo guardandoli mi sono sentito incapace di comprendere. Ammetto di averli subito odiati! Il lettore non è stupido - "Tra chi crea contenuti c’è il mito del lettore sprovveduto che crede a qualsiasi cosa raccontata bene e con un buon titolo acchiappa clic". Ora questo vale soprattutto per i post e in generale per il materiale scritto, ma quante volte ti sono capitati davanti progetti fotografici in cui lo sforzo maggiore è stato quello di trovare un bel titolo e magari un intrigante "Artist Statement" mentre le foto - per usare un termine tecnico - "facevano cagare"? Il lettore non è stupido, nemmeno chi guarda le foto però! Se non è attendibile non funziona - "È fondamentale l’autorevolezza di chi pubblica, in alternativa il contenuto deve essere supportato dai dati che vengono enunciati". Come non concordare? Questo in fotografia riguarda in particolare chi sceglie di dedicarsi al reportage. Insomma, se non sei Paolo Pellegrin è difficile che sulla base delle tue foto tu possa essere "creduto". Se denunci una situazione o esplori una realtà (dalle manifestazioni no-vax alla distruzione del tuo quartiere a opera di speculatori) la forza delle tue foto (sperando siano ben fatte) non basta, devi anche dimostrare di essere una persona seria, che non bara, un fotografo con un minimo di background, o almeno portare delle prove a supporto di quello che hai sapientemente illustrato con la fotocamera. Ti ricordi le foto degli "assembramenti" a Milano e a Roma fatte con il teleobiettivo per "comprimere" la folla? Ecco, Pellegrin una cosa del genere mica l'avrebbe fatta... I grandi contenuti non ti dicono cosa pensare - "La narrazione più potente ti induce a ragionare e, nel caso, ad arrivare da solo alle conclusioni. Se chiudi con il tuo pensiero o l’enunciazione dello scopo che ti ha portato a raccontare la storia molta parte della credibilità crolla". Questo fa il paio con il consiglio precedente. Hemingway definiva questo fenomeno "effetto Iceberg" per cui il romanzo deve offrire al lettore solo 1/8 della storia, il resto (quel che è sottinteso e non detto) ne rappresenta la gran parte, sommersa, che dev'essere percepita ma non detta. In tal modo il lettore ci mette del proprio e si sente partecipe. Quello che non si vede è più importante di quel che si vede, e lo diceva pure Luigi Ghirri, per non parlare di Minor White con la sua teoria delle foto come "specchi", in cui lo spettatore possa riflettersi. Insomma, devi offrire la possibilità a chi guarderà il tuo progetto di sentirsi coinvolto, non un passivo "recettore" di emozioni o idee. Non è facile ed è anche il motivo per cui i grandi fotografi sono rari. I contenuti non sono rivolti a tutti - "Le persone sposano una visione del mondo e uno stile. Devi assumere una posizione coerente e stabile per ottenere un pubblico simile a te che ti supporti". Ci sono stati fotografi che disperatamente hanno cercato di piacere a tutti, con risultati disastrosi. La verità è che ci sarà sempre chi ti apprezza e chi non lo farà nonostante i tuoi sforzi. La coerenza ha un costo, e io lo so. Però è un valore fondamentale. Ci sono così tante persone nel mondo che hai comunque la possibilità di crearti un tuo pubblico, che ti apprezza e trova il tuo lavoro degno di considerazione. Ricorda che i fotografi di successo sono anche vincolati a riproporre sempre il proprio modo di lavorare, pena l'uscire dal circuito "giusto". Finché sono protetti da una rete di critici e sostenitori (leggi collezionisti e finanziatori) ben dotati economicamente, nessuno li criticherà. Odieranno i loro lavori, magari, ma in pubblico li loderanno sempre! Conosco tanta gente che odia Duchamp, ma di rado ho letto critiche sul suo modo di trasformare un orinatoio in una scultura. Insomma, il fatto che alcuni artisti o fotografi sembrano "piacere a tutti" è solo una distorsione prospettica.
Il tono di voce - "Il contenuto di successo è confezionato ad arte, ogni parola è soppesata, ogni elemento appare nel giusto tempo. Lo stile è esso stesso contenuto. Va calibrato in base alle persone che vuoi raggiungere e al luogo in cui lo pubblichi". Ora, questo è un consiglio valido soprattutto per i comunicatori che utilizzano le parole. Ma lo sai che anche le fotografie possono "urlare" o invece parlare sottovoce? Oggi vanno le fotografie urlate: colori saturi, nitidezza massima, scena violente, sangue, qualcosa anche di sgradevole, che colpisca allo stomaco. Specie i reporter si difendono dicendo che la è la gente che vuole conoscere la realtà nella sua crudezza. Davvero? Eppure Robert Capa o Margareth Bourke-White non lo facevano mai, raccontavano quel che vedevano mettendo avanti la propria umanità, non il proprio conto in banca. Dunque scegli il tuo tono di voce fotografica, e che sia la tua voce, non quella che credi il pubblico voglia. Di sicuro così non sbaglierai. Bene, è tutto. Ringrazio Skande per avermi ispirato questo post (il che dimostra ancora una volta che sa fare bene il suo mestiere!) e te per la pazienza. Soprattutto spero che questi consigli ti siano utili. Un tempo la fotografia non riusciva a rendere in modo adeguato i cieli. Insomma, o si rendeva leggibile il paesaggio, oppure il cielo. Per avere entrambi occorreva lavorare in camera oscura con arditi montaggi di due negativi. I cieli erano sempre bianchi. Privi di dettaglio. Solo se c'erano nuvoloni scuri qualcosa si vedeva, altrimenti nisba, come dimostra questo arioso paesaggio ottocentesco di Matthew Brady. Ora, io debbo confessare che i cieli bianchi mi son sempre piaciuti. Mi sembravano - e mi sembrano ancora - uno sfondo neutro e non distraente, qualcosa che dà un'idea di arioso, di ampio, anche di luminosità. Alla fine, se proprio proprio il cielo non è spettacolare e dunque protagonista della foto, non è così importante che si possano conoscere i dettagli meteorologici della giornata. Ammetto che in parte questa mia predilezione nasce dal fatto che amo scattare in giornate nuvolose e grigie, quando insomma il cielo è già di suo monocolore. Però alla fine anche in certe giornate limpide non è che l'azzurro del cielo sia così interessante. Comunque visto che "ai bei tempi" si utilizzavano pellicole ortocromatiche, non sensibile al rosso, il risultato era di avere i rossi trasformati in masse scure e i cieli in sfondi bianchi o quasi. C'è da dire che per i fotografi creativi, questa cosa dei cieli bianchi ha continuato a essere di grande interesse, perché lavorando in modalità "superchiara" (come da Ghirri in poi tanti amano fare), il cielo per forza si "slava". Che poi molti di questi fotografi di paesaggio contemporaneo preferiscono scattare in giorni estivi (al limite primaverili) con luce dura e cieli comunque ciano chiaro e la faccenda dunque diventa relativamente facile e, a mio parere, efficace. Così la particolare luminosità delle foto di Versailles fatte da Luigi Ghirri (sopra) ben si ritrovano nelle foto di Massimo Siragusa (sotto), ad esempio. Ma di molti altri. Questo modo di scattare a me sembra particolarmente intrigante. Non è che uno debba farlo sempre (nemmeno Siragusa lo fa, e nemmeno Ghirri lo faceva) però è un modo assai personale di caratterizzare le riprese, che evoca cieli mediterranei e la luce pura e quasi sacrale di un giorno si sole o quella malinconica di un giorno nebbioso o di nuvolaglia bassa. Insomma, voglio dire, non è che sono io a essere strano scegliendo cieli slavati, di certo sono in buona e prestigiosa compagnia. Però mi sono accorto di un fenomeno davvero singolare. E cioè che mentre noi fotografi paesaggisti andiamo alla ricerca di tonalità o scale di grigi morbide, soffuse, luminose, la massa dei fotografi - il 99% del totale - si è buttata a capofitto nella direzione opposta. Oramai i cieli bianchi sono quasi un ricordo, una faccenda di nicchia. Qualcosa da amarcord, di nostalgico, di demodé. Se ti fai un giro online, o vedi i libri fotografici in una libreria, ti renderai conto che i cieli spettacolari sono decisamente il mainstream. Se il cielo non è colorato, tempestoso, radioso, incredibile (ecco, soprattutto incredibile, cioé innaturale) non c'è verso che la foto abbia successo sui Social, compreso Instagram. Ho visto personalmente amatori cazziare dei colleghi perché avevano postato foto "col cielo bianco". Il cielo senza dettaglio è oramai derubricato a errore, sbaglio, qualcosa da evitare se non si vuol fare la figura del pirla. Fiutata la faccenda, le grandi Software House di fotografia hanno iniziato a produrre programmi in grado di sostituire con un "click" un cielo slavato: ad aprire le danze è stata Skylum, ma oramai anche Adobe col suo Photoshop si è adeguata. E la pubblicità si simili software è in buona parte basata su questo aspetto del "cielo sempre perfetto". Scatti la tua foto in qualsiasi momento della giornata, vai nella lista dei cieli disponibili, ne scegli uno e magicamente il software lo sostituisce al tuo (che fa schifo, secondo loro), adeguando anche luminosità, tonalità, dominanti.
A mettere a punto per primi gli adeguati algoritmi in verità erano state le app degli smartphone, ampiamente utilizzate dagli "influencer" per far credere ai propri fan di essere andati in spiaggia all'alba per scattare una foto fighissima, quando invece c'erano andati a mezzogiorno e avevano trasformato il tutto grazie alle meraviglie del digitale. Davvero per noi amanti dei cieli bianchi son tempi duri. Intanto, per reazione, ho fatto un falò di tutti i miei filtri graduati grigi (orrore!) che prima dei software ti permettevano di scurire i cieli! |
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