MARCO SCATAGLINI
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Fotografia e memoria

22/1/2021

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Oramai quasi cinque anni fa avveniva il tragico terremoto che ha sconvolto buona parte dell'Italia centrale, distruggendo alcuni dei borghi più belli che io ricordassi, e cambiando per sempre la vita a migliaia di persone.

Sono zone di una bellezza disarmante e da appassionato di montagna le ho frequentate a lungo, riportando a casa ricordi che resteranno indelebili: i monti della Laga con la Valle delle Cento Fonti, il monte Gorzano, la cascata delle Barche; i Sibillini con le loro gole fluviali e gli eremi dispersi tra boschi e pareti rocciose,  il lago di Pilato, la vetta maestosa del Vettore dove con gli amici beccammo un temporale da ricordare.

er fortuna questi ambienti naturali non sono cambiati, ma per accedervi occorre comunque passare per quei paesini, un tempo deliziosi, che oggi sono ridotti a cumuli di macerie. Anzi, oramai non ci sono nemmeno quelle: c'è solo un senso di vuoto. Riguardando le vecchie foto di Amatrice o di Arquata del Tronto mi si stringe il cuore. Eppure il ruolo della fotografia è anche questo, serbare memoria.

​Ma a volte più che le foto realizzate per essere opere più o meno creative, è utile - per fare un esercizio di memoria - la fredda fotografia tecnica, come quella satellitare.
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Questa sopra è un'immagine di Amatrice presa da Google Maps, e molto aggiornata. I nomi dei negozi, del museo, dei luoghi significativi son rimasti quelli di prima e suonano addirittura ironici: il "temporaneamente chiuso" dell'era Covid diventa davvero insopportabile quando si sovrappone a un vuoto calcinato di macerie.

Amatrice era uno dei miei borghi montani preferiti. Avevo realizzato ben due servizi fotografici sul paese, per le riviste "Plein Air" e "I Viaggi di Repubblica", parecchi anni fa. Con l'occasione, avevo esplorato tutto il borgo ed effettuato lunghe escursioni nei dintorni. Difficile non innamorarsene.

E vedere ora questa distruzione è davvero doloroso. Soprattutto se ripenso al borgo di allora. Mi sono accorto che se Maps ha aggiornato le riprese satellitari, non l'ha fatto con "Street View": le viste delle strade risalgono invece al 2011, dieci anni fa. Corso Umberto è la strada centrale di Amatrice, lo vedi bene nella foto sopra, con i suoi negozi fatti oramai di nulla. Ma se prendi il "pupazzetto" di Street View e lo butti lì, in mezzo alle macerie, ecco che torna il borgo di allora, con le persone, le auto parcheggiate, la banca, la vita quotidiana...
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Spero che per tanto tempo ancora Google non aggiorni queste immagini - dubito che lo farà, data la situazione - perché di rado mi è sembrata così potente la capacità della fotografia di incarnarsi come memoria, di essere autentico viaggio nel tempo, nella memoria, nel ricordo, anche nella malinconia.

​Il tempo passa, non sempre invano, ma di certo ci cambia. E pur se si tratta di foto fatte solo per scopi informativi, mi commuovono più di un meraviglioso scatto di Koudelka o Bresson...
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Di ombre, riflessi e aloni. E Monet.

14/1/2021

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Credo che quasi tutti sappiano che i pittori Impressionisti amavano e utilizzavano la fotografia come "taccuino d'appunti" per i propri dipinti. 
​Claude Monet non faceva certo eccezione. E anzi a volte finiva per realizzare fotografie che in qualche modo erano opere in sé, magari non sempre in modo del tutto consapevole.
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 In questa foto - un autoritratto scattato nel suo giardino nel 1905 - vediamo il soggetto prediletto dall'artista, le ninfee (a cui dedicò ben 250 quadri!), e nella parte in basso l'ombra dell'autore, col suo cappello dalle larghe falde.

Una foto "sbagliata" si direbbe, ma non lo è affatto se dobbiamo credere all'intenzionalità di mettere qualcosa di se stesso all'interno dell'inquadratura. In fondo, l'ombra che proiettiamo tenendo il sole alle spalle (una regola nata nei tempi d'oro della fotografia!), è il modo più semplice e diretto di inserirci nella ripresa, senza arrivare all'autoscatto o peggio al selfie.

E ce lo dimostrano parecchi autori, come Lewis Hine che nella foto sotto riprende non solo la propria ombra, ma anche quella dell'ingombrante fotocamera utilizzata per una ripresa quasi di "street" ("Self Portrait with Newsboy", 1908) in cui ci mostra "anche" un ragazzino che distribuisce giornali.Il che rende la foto una sorta di "backstage".
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Le ombre dicono molto di noi, e non solo quelle proiettate dal nostro corpo. Gli "skiagrafi" (da skia = ombra) si differenziano molto dai "fotografi", potremmo dire: i primi (e io penso di potermi ascrivere alla categoria) prediligono luoghi ombrosi e nelle foto fanno prevalere le ombre, i secondi invece preferiscono scene luminose e solari, con solo le ombre indispensabili.

Il fatto è che le ombre hanno il potere di evocare senza rivelare, suggerire senza mostrare.

​Come sostiene Jean-Christophe Bailly nel suo saggio "L'istante e la sua ombra" (in cui analizza il fenomeno delle ombre partendo da una foto di Fox Tabot, "Il covone") il regime d'esistenza delle ombre "è fisico e materiale - sono come un respiro della luce - ma questa esistenza fisica è senza peso".
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Le ombre hanno qualcosa di magico, di incorporeo eppure di connesso alla corporeità dell'oggetto che si frappone tra la luce e la superficie di appoggio. Un fenomeno semplice, quotidiano, banale addirittura, a cui prestiamo troppo poca attenzione. Per un fotografo (specie se di tendenza skiagrafica!) è poi particolarmente grave non osservare che una foto è dipinta dalla luce, ma assume valore, senso e rilievo solo grazie alle ombre.

Il fascino che personalmente provo verso le ombre - che, ora che ci penso, possono anche diventare protagoniste di spettacoli, pensiamo alle "Ombre Cinesi", ad esempio - è per la loro indefinitezza. Sebbene a volte, come nel "covone" di Talbot, possano essere molto nette, tuttavia hanno sempre una sorta di alone, una sfumatura. E qui mi piace tornare al nostro Monet, da cui abbiamo iniziato.

Oramai piuttosto anziano, mentre dipingeva oramai solo ninfee e scattava foto con la propria ombra, si rese conto di vedere i soggetti molto sfumati e stranamente dotati di aura. Per i medici il motivo era piuttosto chiaro: cataratta. La faccenda allora come oggi si poteva risolvere con un'operazione, che Monet rifiutò sempre. Amava quell'aura intorno alle cose, preferiva vedere la realtà poco nitida e imprecisa.
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La poetessa tedesca naturalizzata americana Liesel Mueller (1924), venuta a mancare proprio nell'anno appena passato, scrisse addirittura una poesia su questa vicenda, intitolata appunto "Monet refuses the Operation" che inizia con questi versi (traduzione mia): "Dottore, lei dice che non ci sono aloni / attorno ai lampioni di Parigi / e che quel che vedo è un'aberrazione / dovuta alla mia età, un malanno./ Vorrei dirle che c'è voluta la mia intera vita / per arrivare a vedere i lampioni come fossero angeli / per ammorbidire e sfocare e infine eliminare / i contorni che lei sostiene io non possa vedere,/ per imparare che la linea che io chiamo orizzonte / non esiste e che il cielo e l'acqua / così a lungo separati, appartengono allo stesso stato dell'essere./ Cinquantaquattro anni son passati prima che io potessi vedere / che la cattedrale di Rouen è fatta / di sciabolate parallele di sole, / e ora lei vorrebbe farmi tornare /ai miei errori di gioventù...".

Inevitabilmente mi vien da pensare alle tecniche "Lo-Fi" che utilizzo normalmente, quella bassa qualità di fotocamere e obiettivi che diventa un modo per concentrare l'attenzione più sull'emozione che su quel che viene mostrato.

Questa poesia - e l'esperienza di Monet - mi ha rivelato davvero come la nitidezza sia un concetto borghese, per dirla con Cartier-Bresson. L'indefinito, lo sfumato, il mosso, l'impreciso, l'ombra, sono tutti modi che servono a vedere angeli al posto dei lampioni di città.

​Lascio volentieri ai fissati delle linee per millimetro la possibilità di fotografare lampioni: io preferisco gli angeli.
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Fotoricettario

7/1/2021

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Realizzare una fotografia è un po' come cucinare un buon piatto?
​
In effetti a volte sembra essere davvero così. E allora, i primi "tutorial" possiamo immaginare siano state le ricette, che da almeno due secoli si trovano pubblicate in libri e riviste (e persino calendari). L'appassionato gastronomo le segue pedissequamente: tot grammi di farina, due uova, un pizzico di sale, acqua, olio... E il risultato, a meno di gravi errori, è una pietanza ben riuscita, quasi identica a quella del "maestro" che ci ha guidati. Ma, diciamocelo, la vera differenza sta in quel "quasi".
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Infatti i grandi "chef", i cuochi fantasiosi e creativi, non seguono le ricette - anche se magari lo hanno fatto all'inizio della loro carriera, per imparare: oramai le ricette le scrivono, semmai - e applicano una libera creatività, guidati dalla propria esperienza.
Direi che molti fotoamatori sembrano apprendisti cuochi intenti tutta la vita a seguire delle ricette, leggendo libri con consigli tecnici precisissimi (non a caso detti "cookbook" in inglese, anche se parlano di Photoshop), mentre per diventare un Autore con la "A" maiuscola occorre metterci un pizzico di creatività e fantasia, mixando dolce e salato, piccante e speziato.

In cucina come in fotografia quel che conta è sempre la fantasia! E stranamente tanti giovani (e meno giovani) interessati alla fotografia sembrano dimenticarsene. Le regole servono ad avere una base tecnica fondamentale e un quadro di riferimento necessario a non andare a casaccio. Ma poi è quanto si riesce a deviare dalla "diritta via" che davvero importa.
​

Ricordo che da bambino mi piaceva "cucinare" o, per meglio dire, mischiare più o meno a casaccio quelli che sembravano ingredienti perfettamente commestibili al solo scopo di ottenere qualcosa di immangiabile, ovviamente dopo aver sporcato fornelli, tavolo e mille posate, per la gioia dei miei genitori.E' vero, mi divertivo tanto (loro un po' meno), ma di fatto non imparavo nulla e di certo non producevo qualcosa di utile.
Foto
Ecco, chi fotografa senza avere almeno un po' di competenze tecniche mi ricorda me stesso da bambino, coperto di farina, nella cucina del vecchio appartamento al secondo piano. Ero tutto contento, ma non sono diventato un cuoco, anzi a cucinare resto scarsino - anche se lo faccio regolarmente e continuo a "inventare" piatti, magari osando un po' meno di un tempo.
Con la fotografia, per fortuna, ho fatto l'opposto: ho studiato ogni possibile libro che trovavo, fatto tutti gli esperimenti possibili, letto ogni rivista su cui mettevo le mani, mi sono costruito - con le mie mani e tanta fatica - una base tecnica su cui innestare la mia tendenza all'anarchia più totale dal punto di vista creativo. E anche se poi per motivi professionali ho dovuto contenere la mia istintiva esuberanza, sono un fotografo e non - come detto - un cuoco. Vorrà pur dire qualcosa!
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Gestire la luce al buio

2/1/2021

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Detta così, come nel titolo, la faccenda sembra un po' troppo grossa. Solo in condizioni controllate, in studio, possiamo davvero "gestire" la luce, ma all'aria aperta è già un lusso se possiamo almeno riuscire a gestire bene l'esposizione. 
Foto
Ci pensavo proprio qualche giorno fa durante l'uscita fotografica del 2020, effettuata in un insediamento rupestre qui, nei dintorni della mia città. In casi come questo è vero che siamo "all'aria aperta" (in senso lato), però di fatto possiamo gestire l'intera situazione come fossimo in studio. Siamo delle "divinità della luce", novelli stregoni possiamo gestirla come vogliamo. 

Come puoi intuire, la situazione ripresa presentava una gamma piuttosto ampia di illuminazioni, dal quasi buio dei due ambienti affiancati sino alle alte luci delle pareti che affacciano verso l'ingresso all'ipogeo, sulla destra.Analizzare la scena quasi punto per punto, anche strumentalmente con un esposimetro "spot", per comprendere per bene la gamma di luminosità del nostro soggetto è ovviamente importantissimo, anche senza scomodare il Sistema Zonale di Ansel Adams.

Con tutta la buona volontà, non era facile evitare di "pelare" le alte luci e nel contempo mantenere leggibili le aree in ombra. Questo perché il tempo necessario a illuminare per bene le aree buie (con un faretto led) faceva a pugni con i tempi di esposizione richiesti dall'area del tramezzo centrale, illuminato dalla luce proveniente dall'esterno.

Oltre a ridurre il contrasto col citato faretto, ho accuratamente calcolato l'esposizione, spingendo le alteluci al limite, senza che le ombre si chiudessero al punto che, in postproduzione, diventasse impossibile aprirle un po'. Grazie al formato RAW la possibilità di recuperarle entrambe. Come vedi, ha funzionato. Insomma abbiamo il controllo, ma non totale.

In altre situazioni sono ricorso alla tecnica di combinare due scatti, uno per le luci e uno per le ombre (ovviamente tenendo la fotocamera sul treppiedi) ma stavolta non è stato necessario. Mi piaceva condividere questa esperienza perché nel tempo vorrei postare appunto degli esempi di "analisi esposimetrica" non ipotetici, ma reali.

Noi fotografi dobbiamo saperci adattare alle situazioni che incontriamo, e visto che l'esposizione è una delle armi a nostra disposizione per tornare a casa con una foto ben fatta, approfondire questo aspetto credo possa essere interessante.
Foto
Visto che mi trovavo nell'ipogeo anche per realizzare delle foto analogiche, ho dovuto affrontare un simile problema esposimetrico anche con la fotocamera che avevo con me, decisamente atipica: una toy camera di plastica (anche la lente singola dell'obiettivo è di plastica) la Snapsights - che utilizza pellicole 35mm -  a cui ho eliminato l'otturatore - che permetteva di scattare con un singolo tempo,  veloce - per sostituirlo con una semplice levetta di metallo che permette di aprire e chiudere l'obiettivo, in modo da avere sempre e solo la "posa B". 

La qualità è ovviamente relativa (d'altra parte la utilizzo per questo), ma qui è aumentata dal fatto che - come la foto digitale precedente- è una panoramica di tre scatti montati digitalmente con la tecnica dello "stitching".

Il tempo di scatto, in queste situazioni, con la pellicola Fomapan 100, è difficile da stabilire visto l'errore di non reciprocità e l'illuminazione artificiale che aggiungo, ma in genere tengo aperto l'otturatore per circa 30 secondi, che utilizzo per "pennellare" la scena con la mia torcia led. 

Ora, questo non era certamente un "test", ma comunque è evidente che il digitale - pur avendo formalmente una latitudine più ristretta della pellicola, almeno nel formato APS-C - grazie alle tecniche di ripresa e alla possibilità di vedere immediatamente il risultato e dunque di porre rimedio a eventuali errori, al dunque si comporta meglio della pellicola, in queste situazioni.
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La sottigliezza della vita

24/12/2020

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Questo è un post che affronta un tema enorme. Ovviamente senza nemmeno scalfirlo un po': diciamo che nasce come memento, ora che questo annus horribilis sta per finire.

Siamo tutti molto concentrati sul Covid-19 e sulle conseguenze personali, sociali, sanitarie ed economiche che sta avendo sulla nostra vita. E io credo che sia giusto dedicare a questo tema l'attenzione che merita. Trovo invece sorprendete che vi si dedichi tutta l'attenzione, al 100%, dimenticando da un lato le altre malattie, dall'altro i mille problemi che attanagliano il nostro pianeta, a cominciare dai mutamenti climatici. A confronto con questi ultimi, il Covid è acqua fresca. 
Foto
​Me ne sono reso conto due giorni fa mentre ero in giro per realizzare delle foto per il mio progetto sul paesaggio (che uscirà nel 2022, se ce la faccio). Dopo le piogge dei mesi scorsi, le colline coltivate troppo intensamente e senza sosta (bei tempi quelli del set-aside!) e dunque nude dinanzi all'acqua scrosciante e sempre più concentrata in brevi periodi a causa dei citati mutamenti climatici, apparivano rigate da micro-erosioni, segno del dilavamento che porta a valle la terra, facendola spesso confluire nei torrenti, che infatti sempre più spesso appaiono gonfi di acqua color caffellatte.

​In diversi punti, si vedeva la carne viva della Terra, la roccia tufacea di cui è costituita la Tuscia.
Foto
Mentre scattavo una lunga serie di foto avevo quasi le lacrime agli occhi. Nella "ferita" in primo piano si vede la roccia nuda (rigata dalle macchine agricole che oramai "arano" il tufo) e le giovani piantine di grano germogliano su 10-20 cm di terra. Il fenomeno è diffuso, è ovunque. Non più trattenuta dagli alberi, tagliati in maniera selvaggia, e sempre più esposta alle intemperie perché le coltivazioni si susseguono senza soluzione di continuità, la fertilità va persa. Stiamo pian piano desertificando il pianeta. 

Per mantenere i ritmi produttivi, siamo costretti a utilizzare sempre più concimi chimici, inquinando le acque per produrli e spargerli ovunque. La Tuscia non è certamente l'area più critica da questo punto di vista, eppure sta accadendo anche qui, sebbene in situazioni ancora circoscritte.

Eppure, chiunque cammini su dei terreni agricoli, si può facilmente rendere conto di quanto il suolo sia impoverito, sempre più dipendente dagli interventi umani, sempre meno vitale.

La nostra vita, e la vita di chi verrà dopo di noi dipende da quel sottile strato di terra poggiato sulla dura e sterile roccia. Dovremmo ricordarcelo sempre, e spero che la mia foto sia da questo punto di vista significativa. Io mi preoccupo (il giusto) per le conseguenze della pandemia, ma sono letteralmente terrorizzato per quello che stiamo facendo a Madre Terra. E' tutto maledettamente stupido, chissà se prima o poi ce ne renderemo conto...
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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