Questo è un post che affronta un tema enorme. Ovviamente senza nemmeno scalfirlo un po': diciamo che nasce come memento, ora che questo annus horribilis sta per finire. Siamo tutti molto concentrati sul Covid-19 e sulle conseguenze personali, sociali, sanitarie ed economiche che sta avendo sulla nostra vita. E io credo che sia giusto dedicare a questo tema l'attenzione che merita. Trovo invece sorprendete che vi si dedichi tutta l'attenzione, al 100%, dimenticando da un lato le altre malattie, dall'altro i mille problemi che attanagliano il nostro pianeta, a cominciare dai mutamenti climatici. A confronto con questi ultimi, il Covid è acqua fresca. Me ne sono reso conto due giorni fa mentre ero in giro per realizzare delle foto per il mio progetto sul paesaggio (che uscirà nel 2022, se ce la faccio). Dopo le piogge dei mesi scorsi, le colline coltivate troppo intensamente e senza sosta (bei tempi quelli del set-aside!) e dunque nude dinanzi all'acqua scrosciante e sempre più concentrata in brevi periodi a causa dei citati mutamenti climatici, apparivano rigate da micro-erosioni, segno del dilavamento che porta a valle la terra, facendola spesso confluire nei torrenti, che infatti sempre più spesso appaiono gonfi di acqua color caffellatte. In diversi punti, si vedeva la carne viva della Terra, la roccia tufacea di cui è costituita la Tuscia. Mentre scattavo una lunga serie di foto avevo quasi le lacrime agli occhi. Nella "ferita" in primo piano si vede la roccia nuda (rigata dalle macchine agricole che oramai "arano" il tufo) e le giovani piantine di grano germogliano su 10-20 cm di terra. Il fenomeno è diffuso, è ovunque. Non più trattenuta dagli alberi, tagliati in maniera selvaggia, e sempre più esposta alle intemperie perché le coltivazioni si susseguono senza soluzione di continuità, la fertilità va persa. Stiamo pian piano desertificando il pianeta.
Per mantenere i ritmi produttivi, siamo costretti a utilizzare sempre più concimi chimici, inquinando le acque per produrli e spargerli ovunque. La Tuscia non è certamente l'area più critica da questo punto di vista, eppure sta accadendo anche qui, sebbene in situazioni ancora circoscritte. Eppure, chiunque cammini su dei terreni agricoli, si può facilmente rendere conto di quanto il suolo sia impoverito, sempre più dipendente dagli interventi umani, sempre meno vitale. La nostra vita, e la vita di chi verrà dopo di noi dipende da quel sottile strato di terra poggiato sulla dura e sterile roccia. Dovremmo ricordarcelo sempre, e spero che la mia foto sia da questo punto di vista significativa. Io mi preoccupo (il giusto) per le conseguenze della pandemia, ma sono letteralmente terrorizzato per quello che stiamo facendo a Madre Terra. E' tutto maledettamente stupido, chissà se prima o poi ce ne renderemo conto...
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Come sai - e in effetti è ovvio - in una foto BN ci sono i due estremi (il bianco e il nero, Zona 0 e Zona X per dirla con Ansel Adams) e nel mezzo una gamma di tonalità intermedie di grigio, virtualmente infinite. Se mettiamo molti grigi nel mezzo, otteniamo una foto morbida, se ne mettiamo pochi avremo una foto contrastata. Insomma, è intuitivo. Ma attenzione: il bianco e il nero,intesi come ombre e luci con dettaglio, magari minimo, debbono esserci, a meno di non volere foto "d'effetto". Ovviamente ci sono situazioni specifiche in cui la mancanza di ombre o di luci è normale, basti pensare a una giornata di nebbia compatta. Ma per semplicità pensiamo a fotografie diciamo "normali". Una foto morbida, con una buona gamma tonale, ma senza alteluci e ombre, apparirà grigiastra e piatta, cosa che accade spesso soprattutto a chi inizia con il BN, perché i toni medi sono quelli che appaiono più "naturali", e anche perché lo stesso sistema esposimetrico della fotocamera è calibrato su di essi. Dunque, quasi tutti fanno delle foto "piatte" e grigiastre,all'inizio, perché le trovano appunto più naturali. Ma il BN è sempre un'interpretazione, e secondo la mia opinione è meglio evitare di fare una cosa del genere, se non necessario per i citati scopi creativi. Per evitare di essere "piatti" alcuni esagerano con il contrasto, ottenendo foto grafiche che inevitabilmente colpiscono molto, ma è bene sapere che solo pochi soggetti sono adatti a un simile trattamento, ottenibile ad esempio con una "Curva ad S", realizzabile su qualsiasi software (una "S inversa" porta invece a foto grigiastre). Nell'esempio qui sotto vedi bene come una curva a S standard porta a una foto con forti neri, bianchi puliti e una gamma di grigi ridotta. Come si fa a valutare - e anche a decidere come modificare - la gamma tonale di una foto? Non è semplice, ed è poi un aspetto molto legato alle scelte che il fotografo fa: in fondo qui sta il bello del Bianco e Nero. Un maestro dei toni medi è stato ad esempio Paul Strand - che pure aveva cominciato con foto contrastate - mentre è ben noto che fotografi come Bill Brandt o Mario Giacomelli non amavano molto i grigi! L'idea comunque è di valutare la foto cercando di separarne - idealmente - le singole componenti. Ti faccio un piccolo esempio pratico e spero chiarificatore. Ecco la foto che ho già utilizzato precedentemente. Si tratta di una foto di archeologia industriale, con luce diffusa e un'ampia gamma di grigi, specialmente sul lato "chiaro": i macchinari erano infatti ricoperti di una patina bianca, visto che appartengono a una cartiera abbandonata. Questa è dunque una versione più o meno standard della scena, e a me piaceva così. Con una curva a "S", lo abbiamo visto, possiamo dare molto più contrasto e modificare la resa della foto. Viceversa, potremmo anche decidere di ammorbidirla ancora, o di renderla più chiara. L'importante è imparare a "vedere" l'estensione dei toni medi, delle luci e delle ombre. Ecco, ad esempio, le ombre. Ho eliminato toni medi e alteluci e lasciato solo queste ultime. Ora facciamo il contrario, togliendo i toni medi e le ombre (che ho trasformato in nero assoluto) e lasciando solo le alteluci. Come puoi notare entrambe le "versioni" hanno un certo impatto visivo, diciamo che sembrano degli High o Low Key. Comunque questi sono i due estremi. Ora vediamo quanti toni medi (di varia intensità, ma riconducibili a questa categoria) ci sono nella foto. La foto sembra così quasi posterizzata, ma comunque ci possiamo rendere conto con facilità che l'immagine possiede dei toni medi caratterizzati da grigi abbastanza chiari: altre tipologie di foto potrebbero avere una gamma più equilibrata. Fatto sta che allargando o restringendo questa gamma, possiamo influenzare - e di parecchio - la resa della nostra fotografia. Ovviamente dei ragionamenti del genere si potrebbero fare anche con il colore, dove però le possibilità di intervento sono minori, in quanto una foto a colori ad alto contrasto tende ad apparire strana, poco piacevole; va meglio utilizzando una gamma più morbida (Ghirri insegna) ma di certo siamo lontani dalla libertà creativa del bianco e nero, soprattutto in digitale. Ecco qui sopra una foto riassuntiva con i tre "livelli" sovrapposti. Credo che imparare a comprendere come i diversi componenti di luminosità agiscano sulla foto possa aiutarci molto a migliorare le nostre fotografie, evitando di avere neri catramosi e senza dettaglio e bianchi sfondati privi di interesse... sempre se non è esattamente così che li vogliamo. Ma dev'essere una scelta, non un "incidente" di percorso!
Non so quanti anni hai tu, ma io i commercianti di fotocamere me li ricordo bene. Prima che arrivassero Amazon e eBay, prima che tutte le catene di elettronica e fotografia aprissero i propri negozi virtuali, avevi un solo, unico modo per acquistare fotocamere, obiettivi, pellicole e accessori: andare da un negoziante, scrutare la vetrina con fare ansioso, chiedere informazioni e farti aiutare a fare la scelta giusta (e molto spesso quella sbagliata). La mia prima fotocamera seria è stata una Olympus OM 10 col suo manual adapter e lo Zuiko 50 mm. Il mio amico negoziante non mi aveva consigliato male, anzi. Se non altro non si era limitato ad andare sul tradizionale proponendo una Nikon, una Canon, una Pentax. Se non eri esperto, non avevi a disposizione i Forum, le opinioni di migliaia di "utenti", i test strumentali, le prove sul campo: o ti affidavi alle riviste di fotografia (e quanto attendevi che si decidessero a provare la fotocamera che a te interessava!), oppure guardavi negli occhi il negoziante e cercavi di capire se ti stava onestamente consigliando per il tuo bene, o solo cercando di svuotare il magazzino, offrendoti l'affare del secolo. La verità è che la scelta era molto più limitata, e la durata media dei materiali era assai più lunga.Tra "obsolescenza programmata" e superamento della tecnologia, si può ben dire che oggi la vita media di una fotocamera sia stata come minimo decimata. Sembrerebbe un'ottima occasione per i commercianti di materiale fotografico: per loro sfiga, tutto questo ha corrisposto anche con l'avvento del commercio elettronico, e i vantaggi sono presto stati superati dalla concorrenza agguerrita, e dai prezzi ribassati, di chi opera online magari standosene in un qualche paradiso fiscale. Io la prima fotocamera digitale (una Nikon D100) l'ho acquistata in un negozio, dalla mia amica commerciante. Pensavo di fare un acquisto a lungo periodo, che quell'aggeggio elettronico sarebbe durato quasi come la mia F3 o la mia F801. Ma già due anni dopo era obsoleta e col sensore graffiato (all'epoca qualcuno ancora sosteneva che i cotton fioc fossero ideali per togliere la polvere dal sensore!). Poi è addirittura morta: il suo esoscheletro mi guarda ancora dall'alto di uno scaffale, manco fossero le ceneri di mia nonna conservata in un'urna funebre. Che qualcosa stesse cambiando me ne accorsi quando la successiva fotocamera, una professionale Nikon D2x, la pagai la stessa cifra della precedente, nonostante fosse di livello decisamente più alto. Anche questa la presi a rate in un negozio: è stata l'ultima acquistata guardando in faccia un commesso, che era anche scontroso e affatto gentile. Mi sa che alla fine sono meglio i testi impersonali di Amazon o eBay. E pensare che un tempo, da ragazzino, sognavo quasi più di fare il venditore di fotocamere che il fotografo. Mi sembrava un personaggio fighissimo: poteva toccare un sacco di fotocamere, obiettivi e accessori, vedere come funzionavano, mettersi a disquisire per ore con un appassionato prima di vendergli la fotocamera su misura per lui. Ecco, il primo problema è proprio questo. Che di fatto già allora erano ben pochi i negozianti disposti a consigliarti per il tuo bene, e non per il loro soltanto, e spesso avevano poco tempo per mettersi a studiare e maneggiare ogni fotocamera che gli entrava in negozio, o impararne i dettagli. Decisamente avevo un'immagine romantica del venditore di fotocamere. Anche perché non sono uno a cui piace cambiare fotocamera. Fosse per me, mi terrei sempre la stessa a vita, come accadeva un tempo. Mio padre aveva una Rolleicord 6x6 con cui faceva i matrimoni, poi la passò a mio fratello, che la fece anche cadere in mare (senza danni!), e infine giunse tra le mie mani che, qualche anno fa, ne decretai la morte (sono stato sempre il più maldestro, in famiglia, mannaggia!). Questa storia credo di averla già raccontata, ma mi sembra significativa. Lo scorso anno mia zia mi ha regalato la sua Voigtlander, ancora funzionante, con cui ha documentato ben più di mezzo secolo di storia familiare. Per dire. Ho anche un rapporto un po' strano con le mie fotocamere: mia moglie sostiene che accarezzi più loro che la nostra gatta, e in effetti è vero. Ogni tanto vado nella vetrinetta dove raccolgo le fotocamere vintage della mia modesta collezione e le faccio scattare. Magari sono strano io, ma mi sembra che le fotocamere abbiano un'anima (in senso lato), che siano uno strumento malleabile tra le nostre mani. Non sono simili a un martello o a una pala, semmai somigliano a un paio di pantaloni o di scarpe. Sai bene che se i pantaloni stringono sono scomodi, e se le scarpe calzano male ti verranno le vesciche. Ecco, se avessi i soldi mi farei fare una fotocamera su misura. So bene cosa mi serve, e so altrettanto bene che sinora ogni fotocamera che ho avuto è stata solo un compromesso. A volte molto buono: la mia Olympus E-PL5 è stata davvero la mia compagna fedele, poi sostituita da una Panasonic G7. Ho provato la E-PL 7 e la OM-D1 Mk3 e niente, non è scattato il feeling. Eccellenti fotocamere, magari dovrei imparare a conoscerle meglio, ma mi chiedo perché dovrei farlo, visto che la mia piccola fotocamera ancora funziona benissimo. O c'è una coazione a comprare sempre una fotocamera nuova, così, tanto per andare in giro a mostrarla agli amici, o mettere un post su Facebook annunciando il nuovo acquisto? Roba da scellerati, non da fotografi. Davvero non avrei la stoffa per fare il venditore di fotocamere.
Se mai lo fossi diventato, e avessi visto un giovane avventore venire da me per chiedere consiglio, non gli avrei chiesto - come prima cosa - il suo "budget", che è quello che fanno tutti i commercianti ("quanto puoi spendere? Eh, con questa cifra non è che puoi prendere chissà cosa...).Semmai avrei parlato con lui di fotografia. E di altro. Cos'è che ti piace di questa forma di espressione personale? Perché vuoi fotografare e quali soggetti prediligi? Vuoi solo fare un bell'album di famiglia o fare le cose sul serio? Fotografia di viaggio, naturalistica o reportage? E cos'altro ti piace, a parte la fotografia? Ti fermi mai a guardare le nuvole passare? Guardi mai l'erba nei prati, le fronde degli alberi, i volti delle persone che passano? Ti commuovi mai davanti un'alba o un tramonto? Sembrerei scemo, lo so. Davvero non sarei mai potuto diventare un gran venditore di fotocamere! Se mi chiedessero se mi considero un fotografo digitale o analogico – domanda posta ai fotografi di frequente, più di quanto si creda normalmente – direi senza alcun dubbio di essere diventato quel che sono (nel bene e nel male) grazie al digitale. Sicuramente - quindi - sono un fotografo digitale, sebbene sia nato e cresciuto in epoca analogica e ancora armeggi con pellicole e bagni di sviluppo. Ricorro spesso all’analogico, l’ho utilizzato per il mio progetto “Una Momentanea Eternità”, e debbo dire che mi appassiona moltissimo. Ma ho le mie idee in merito al ricorso alla fotografia analogica o meglio – nel mio caso – ibrida, visto che poi non stampo quasi mai i negativi in Camera Oscura ma li inserisco in un flusso digitale. Diciamo che credo esistano due tipologie fondamentali di fotografi, anche se le generalizzazioni e categorizzazioni non mi piacciono molto. Ma è per capirci. Ci sono i fotografi digitali duri e puri, che guardano all’analogico come a una cosa morta e sepolta, anacronistica e incomprensibile, date le potenzialità infinite che il digitale ci mette a disposizione. Perché trascorrere una giornata in camera Oscura quando in dieci minuti ottieni lo stesso risultato (a volte migliore) grazie a un computer? E per di più non inquini e non spendi soldi in carta da stampa alla gelatina d’argento e chimici puzzolenti. Molti di loro hanno anche provato a scattare delle foto in analogico, tanto per non essere tacciati di incompetenza, ma non sono rimasti fulminati sulla via di Damasco e continuano a preferire i pixel ai grandi d’argento. Poi ci sono i fotografi dall’altra parte della barricata (con scarse possibilità di vittoria e anzi costretti in difesa, va detto): usano solo e soltanto l’analogico, rigorosamente passando per la Camera Oscura e mostrano orgogliosi le loro stampe appena emerse dal fissaggio in fotografie fatte in digitale. D’altra parte pensano che il digitale sia utile solo per questo, a condividere i loro lavori analogici online e sui Social. Spesso, a questo scopo, ricorrono a uno smartphone, perché acquistare una fotocamera digitale gli sembra uno spreco. Con lo stesso esborso economico puoi portarti a casa una Nikon F2, vuoi mettere? Discorrono sui forum della qualità di pellicole e sviluppi, di obiettivi vintage e fotocamere di nobilissimo lignaggio, arrivando alla non sorprendente conclusione che con una Hasselblad 500, un Leica M, una Mamiya RB67 – con i rispettivi obiettivi – si abbiano risultati pari (secondo loro anche migliori) a quelli ottenibili in digitale. In effetti, una stampa in grande formato ottenuta in camera oscura da un negativo realizzato con una simile fotocamera o una stampa inkjet ottenuta da un file realizzato – che so - con una Canon EOS 5D sono spesso indistinguibili. Vorrei vedere. A questa contrapposizione non ho mai partecipato. Anche i più grandi fotografi che ammiro e studio, e che lavorano esclusivamente in analogico, come Jodice o Kenna, hanno sempre dichiarato di non avere nulla contro il digitale, anzi: semplicemente si trovano meglio a lavorare con l’analogico. La foto finale è quel che conta, in fondo, non come la si è ottenuta. E basta guardare molti lavori di Salgado, in cui si uniscono foto analogiche e digitali (come nel progetto “Genesis”), per capire che la differenza, se c’è, è del tutto ininfluente. Bene, ma questo in generale. Per quanto mi riguarda, da fotografo convintamente digitale, trovo che abbia senso il ricorso all’analogico solo se ti dà qualcosa in più o di diverso dallo scatto fatto di pixel. E ce ne sono di cose possibili e interessanti su pellicola e impossibili o inaccettabili su digitale! Le fotografie stenopeiche, ad esempio, che vengono davvero bene solo su pellicola o carta fotografica: si possono fare anche in digitale, ovviamente, ma non c’è confronto, con poche eccezioni. Tra l’altro solo in analogico puoi fare quelle anamorfiche o anche le solargrafie (ne parlo nel mio ultimo libro, dedicato alla fotografia stenopeica). Poi c’è la possibilità di ricorrere a vecchie fotocamere vintage di qualità relativa (le cosiddette “Toy Cameras”) secondo la filosofia del “Lo-Fi” (Low Fidelity, bassa fedeltà), e ottenere così foto che possono essere solo imitate in digitale, con risultati comunque inferiori. E di esempi ce ne potrebbero essere molti altri. Ma il punto è che a me interessa l’analogico – e lo uso frequentemente – solo se “si vede” che la foto è analogica, vuoi per la resa particolare, vuoi per i maltrattamenti che la pellicola può subire. Mi diverte molto (e dunque lo faccio spesso) mettere appositamente assieme tutti gli errori di sviluppo che gli amanti dell’analogico puro aborrono: utilizzo bagni per lo sviluppo della carta per le pellicole, allo scopo di ottenere un maggior contrasto e soprattutto più grana, non seguo gli schemi per l’agitazione, spesso nemmeno quelli della temperatura. D’altra parte rispettando tutte le regole si ottengono negativi buoni che poi, una volta digitalizzati e “sviluppati” digitalmente insieme a quelli scattati con la fotocamera digitale, faccio fatica a distinguere! Davvero, le foto risultano quasi identiche, solo ingrandendo il file al 100% si vedeva la tipica grana analogica. Tutta quella fatica per dover trovare la differenza con la lente d’ingrandimento? Non fa per me. Come dico sempre, abbiamo una tecnologia economica e comodissima per fare foto perfette: è per l’imperfezione che il digitale davvero non va bene. E a me l’imperfezione piace maledettamente, se è quella “giusta”, cosa oltretutto non facile da conseguire.
Col digitale puoi fare qualsiasi cosa, ma devi farla tu, e questo significa che difficilmente il caso ci mette lo zampino. Ma carica una pellicola in una fotocamera improbabile, che nemmeno si capisce bene che tempi di scatto utilizzi e che diaframmi possieda, poi sviluppa il tutto in una brodaglia inguardabile e vedi che viene fuori. Sorprendentemente solo di rado debbo buttare tutto. A volte le macchie, la grana “a palla”, i contrasti strani, i light leaks concorrono a dare alla foto quel qualcosa che nessuna fotocamera digitale saprebbe dargli. Non dico che questo sia il modo “giusto” di usare l’analogico (anzi, riconosco che è sbagliato!): dico solo che è il mio. Rappresenta una delle possibilità. La sperimentazione, sembrerà strano dirlo, è possibile più con la pellicola che con il digitale, che pure permette di fare “tutto”. Ma sono i limiti e le costrizioni a dare via libera alla fantasia e alla creatività… In effetti, è proprio così. Per l'esattezza è una scatoletta di metallo (cioé di latta) che conteneva cerotti. Piccola, proprio piccola. Trasformarla in fotocamera stenopeica ha richiesto pochi minuti e il risultato sono foto più o meno tonde (è supergrandangolare e il foro non copre il formato 8x8 cm con cui la utilizzo, ovviamente parlo di negativi di carta) dal fascino un po' misterioso. La passione che ho per la fotografia stenopeica nasce sia dai risultati che si possono ottenere (e non imitabili in digitale), sia dalla possibilità di costruirsi da solo le fotocamere, cosa che trovo estremamente divertente. Ad ogni modo, se la cosa ti incuriosisce e vuoi saperne di più, ecco in anteprima il mio manualetto sulla - appunto - fotografia stenopeica. Ovviamente vi ho messo anche delle considerazioni filosofiche (per così dire) e un po' di storia, ma la parte centrale del libro è incentrata sul "come si fa", senza inutili tecnicismi. Ci sono libri (e siti) di fotografia stenopeica che sembrano destinati a laureati in fisica nucleare, con infinità di numeri, tabelle, algoritmi. Io l'ho fatta semplice: consigli pratici, fatti da chi utilizza quasi quotidianamente la fotografia stenopeica senza star troppo lì a omaggiare lord Releigh, ma puntando al concreto. Per questo ho messo nel libricino anche molte foto esplicative. Lo puoi trovare su Amazon, ma se vuoi puoi averlo GRATIS insieme al volume "Una Momentanea Eternità", le cui foto sono in buona parte realizzate appunto col foro stenopeico. Insomma, il manuale fornisce la parte pratica, il libro fotografico un chiaro esempio di quel che si può fare con questa tecnica. Se la cosa ti interessa, però, è meglio che ti sbrighi: ho solo 9 copie disponibili. Ti basta andare nell'apposita pagina di questo sito, dove troverai anche tutte le informazioni del caso, acquistare il libro e automaticamente riceverai l'agile manualetto in regalo. Facile no?
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