Ricorreresti a un bulldozer per piantare un cespuglio di rose nel tuo giardino o (peggio) in un vaso? Scommetto di no. Eppure molti appassionati di fotografia fanno esattamente questo quando - per realizzare le proprie fotografie non certo "estreme" - ricorrono a fotocamere superprofessionali e di altissime prestazioni. Mi dirai: e perché no? Se uno può permetterselo, perché non farlo? E' vero: puoi piantare le tue rose con un bulldozer, ma potresti utilizzare una maggiore cura e delicatezza, concentrandoti sul gesto e non sul mezzo, ad esempio. Sto leggendo con grande soddisfazione un libro che raccoglie gli articoli pubblicati su "Vie Nuove" da Ando Gilardi (edito da Fototeca Gilardi, l'ho acquistato sostenendo il relativo Crowdfunding) tra il 1964 e il 1970, e mi diverte molto vedere come il fotografo, col suo spirito schietto e corrosivo, sosteneva la necessità di essere frugali già in quell'epoca. Insomma, i fotografi amano i bulldozer anche quando gli basterebbe una piccola pala, e non da oggi. Ma la diffusione del digitale ma soprattutto di Internet ha reso tutti dei fieri conducenti di poderosi Caterpillar e pale meccaniche, e diciamo che non c'è niente di male in questo. Più o meno. Siamo tutti - noi fotografi - appassionati di fotocamere, obiettivi e accessori. Semmai quel che mi sento di contestare è questo possente spostamento dell'attenzione sull'aspetto meramente tecnico invece che su quello creativo e comunicativo, o - per meglio dire - dalla tecnica di ripresa alla tecnica dell'oggetto utilizzato per riprendere. Che era poi quello contro cui si scagliava (temo inutilmente) il buon Gilardi. Convinto che un fotografo dovesse saper usare al meglio qualsiasi fotocamera (e pellicola, e obiettivo e quant'altro), senza pensare però che un insieme di "ferro" e vetro potesse sostituire in qualche modo il suo cervello. Figuriamoci, oggi le fotocamere hanno una "intelligenza artificiale", che spesso si dimostra anche superiore a quella dei loro acquirenti! Il rischio è che per piantare la tua rosa, tu distrugga il giardino con i cingoli del bulldozer. Fuor di metafora, questo significa che concentrandoti sullo strumento - o meglio sulla sua bellezza, tecnologia, importanza, spesso indiscutibili - tu possa decisamente esagerare. Internet in effetti è stracolmo di foto che io definisco "sovra-ingegnerizzate", e basta leggere il testo che le accompagna - in genere - per rendersene conto: non si parla quasi mai di "ispirazione" o di idee, di comunicazione o di emozione (se non in senso superficiale), ma di lenti e fotocamere, di tempi di esposizione e filtri ND, di tecniche più o meno speciali (HDR, focus stacking, ecc.) e così via.
Il risultato sono spesso immagini perfettamente realizzate ma francamente un po' vuote, in cui tale vuoto è riempito dalla "spettacolarità". Spesso, dico davvero, mi sembrano occasioni perse. Vedo così tanti giardini devastati dai cingoli di pale meccaniche! Bravi fotografi che si lasciano conquistare da una tecnica o dal numero di megapixel, come se questo potesse supplire a quello che è il male del secolo (e forse lo è sempre stato): l'insicurezza. Di cui soffriamo tutti, sia chiaro, specialmente se fotografi! NOTA - Le due foto che illustrano il post sono state realizzate con una Holga 6x6 cm "hackerata" per montare un 28 mm per il formato 135 (24x36 mm) e negativo di carta. Il soggetto è una stazione ferroviaria abbandonata. Le foto (già ovviamente circolari, visto che l'obiettivo non copre il formato nettamente più grande) sono state inserite su fondo bianco.
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Sono sempre stato incline al "famolo strano" (in campo fotografico, che hai capito? E a proposito, auguri a Verdone per i suoi 70 anni!), nel senso che mi piace sperimentare e vedere "che succede" quando si utilizzano tecniche non proprio usuali. In tal senso, mi hanno sempre attirato le foto circolari, tonde insomma. Secondo me sono la perfezione assoluta: non hanno orizzontale o verticale come il formato quadrato, ma sono decisamente più "armoniche". Ma soprattutto sfruttano al 100% il "circolo di illuminazione" (detto anche cerchio d'immagine o cerchio di copertura). Insomma, noi non ce ne rendiamo mai conto, ma gli obiettivi restituiscono sempre un'immagine tonda, all'interno della quale si ritaglia il formato definitivo, rettangolare o quadrato. In fase progettuale si fa in modo che sia questa l'area di maggiore qualità, mentre avvicinandosi ai bordi del cerchio questa decade rapidamente. Dunque tutte le foto che scattiamo sono, in verità, dei "crop" di una fotografia rotonda. Non a caso, per avere un angolo di campo più ampio, la Kodak n°1 del 1889, quella del famoso claim "you press the button, we do the rest", scattava foto circolari, e anche di qualità discreta. I fotografi moderni non utilizzano da tempo questo formato, se non in rare occasioni. Ho ad esempio conosciuto Roberto Salbitani, e lui utilizza spesso questo formato, ottenendolo in camera oscura. Ma forse il fotografo che più mi ha colpito è stato Vittore Fossati: in un suo libro ho visto alcune foto circolari, chiaramente realizzate montando un obiettivo per il formato inferiore su un banco ottico di formato maggiore. Ed è questo aspetto che mi attirava molto. Riprendere le foto già direttamente tonde, non ritagliarle dopo (cosa facilissima da fare oggi, con qualsiasi software). In analogico esistono varie possibilità (come quella utilizzata da Fossati), ma in digitale molte meno. Anche montando, ad esempio, un obiettivo APS-C su una fotocamera Full Frame, si ottiene al massimo una forte vignettatura, non una foto circolare. Allora ho messo le mani su un obiettivo per cinepresa 8mm, che copre davvero un formato piccolo e sulla mia mirrorless fornisce l'agognata fotografia circolare. Da notare come la resa sia complessivamente buona, fino al margine estremo del cerchio, ovviamente a diaframmi molto chiusi. Un vero spreco, quando si lavora sul formato originario! Così, sono andato a farmi un giro per verificare che l'assemblaggio precario creato per tenere il piccolo obiettivo in posizione funzioni adeguatamente e debbo dire che il "cambio di formato" così radicale apre prospettive fotografiche interessanti e per certi versi nuove. Insomma, intendo dire che il modo in cui un fotografo inquadra il mondo influisce molto sull'approccio al soggetto. Fotografare un gruppo di alberi inquadrandolo in formato orizzontale non è la stessa cosa che farlo in un formato rotondo. E credo sia questo che attiri fotografi importanti come Salbitani o Fossati. Questo per dire che ora mi ci dedicherò un po', esplorandone le potenzialità. Intanto condivido qui alcune delle foto realizzate: si tratta di semplici appunti visivi, però a me non dispiacciono affatto!
Ci ho messo trent'anni ad arrivare a sviluppare una ragionevole certezza su ciò che mi interessa fotografare e su come farlo. Senza le pressioni dei clienti editoriali che volevano foto "di un certo tipo" e senza la necessità di dover a tutti i costi apparire originale-creativo-innovativo-unico, mi sembrava di aver raggiunto la pace dei sensi (si fa per dire). Perciò negli ultimi anni a chi mi chiedeva cosa facessi, rispondevo: il fotografo. Vabbe', ma che tipo di fotografo? Il fotografo di paesaggio (con diverse declinazioni) in bianco e nero.E pure analogico, spesso, anche se non sempre.E molte volte all'infrarosso. Chiaro, abbastanza circoscritto, senza troppe incertezze. a prima botta è arrivata approfondendo la figura di Luigi Ghirri che, in quanto fotografo di paesaggio, sentivo già affine. All'inizio le sue fotografie mi creavano disagio. Buone, per carità, ma così... diverse, ecco. Non bastasse, ho approfondito anche Robert Adams e i New Topographics. Bamm,una vera tramvata, come dicono a Roma. Si sa che se ti scontri (a piedi) con un tram sei tu a farti male, mica lui. E infatti, dinanzi a tutti questi stimoli, sono andato in corto circuito. Dapprima mi sono scoperto a fare, con la fotocamera stenopeica, fotografie "alla Becher" (intesi come coniugi e deus ex machina della Scuola di Dusseldorf). Poco grave, succede. Più significativo è stato iniziare a ragionare sul fatto che cercavo sempre di togliere dalle mie foto tutti quei cavolo di elementi di disturbo, che oggi come oggi sono tanti: pali elettrici, tralicci dell'alta tensione, cavi di vario genere, rifiuti, edifici orrendi, cemento sparso, asfalto, scie degli aerei, automobili parcheggiate e così via. E invece, improvvisamente fare questo gesto che compio da trent'anni (eliminare dall'inquadratura ciò che è estraneo all'ordine da imporre alla scena) m'è sembrato, come dire?, disonesto. Improvvisamente, il progetto a cui sto lavorando mi sembrava inadeguato a rappresentare il mondo come è, come lo abbiamo ridotto. Certo, ci sono i miei amati ruderi, ma son sempre "belli", in fondo mi piacciono per questo. Ci volevano i New Topographics con i loro "man-altered landscapes" a farmi riflettere. Non è che se nascondi la polvere sotto il tappeto, la tua stanza è più pulita: semplificando al massimo il messaggio è questo. Acc! Tanto per provare, ho iniziato a non rifuggire più ciò che mi da fastidio, ma ad affrontarlo, fotograficamente intendo. E sai una cosa? Mi piace! Non che non preferisca passeggiare per forre e boschi e riprendere il rudere di una mola coperto dal muschio magari in una nebbiolina autunnale, ma ho cominciato ad aprire di più gli occhi, ad allargare l'angolo di campo. La lezione di Robert Adams (di cui ho parlato la settimana scorsa) in tal senso è preziosa: è la luce, è la forma, è l'ispirazione che dona bellezza alle cose; la bellezza va riconosciuta, non solo scoperta. E quando la troviamo oppressa e violentata, dobbiamo scavare nel nostro soggetto per trovarla di nuovo, e attraverso di essa denunciare (nel nostro piccolo) le colpe di una società come la nostra incapace di andare oltre il piccolo interesse personale, oltre l'immediato e il contingente, senza vedere il quadro generale. Quando Robert Adams realizza i suoi progetti per mostrare la distruzione dei territori dell'Ovest americano (il mitico "West" di tanti film e romanzi) o la scomparsa delle foreste primarie, assume di sé una responsabilità che né i politici né molte delle persone intendono prendersi. Non sono certo di voler modificare la mia "visione" - e di quanto - ma so per certo che il confronto con i fotografi che prime di me, che prima di noi, hanno percorso certe strade, ha davvero molto, molto da insegnare.
Alla fine, penso sia questo il vero significato di "maestro", qualifica che spesso diamo ai vari Berengo Gardin o Scianna, Salgado o Ghirri, Weston o Friedlander. Non è soltanto un riconoscimento della qualità del loro lavoro (anche) ma soprattutto del fatto che hanno aperto nuove strade, permesso - a tutti noi - di far evolvere almeno un po'la nostra visione. Non è poco, non credi? Ho acquistato "Lungo i fiumi" di Robert Adams, e me lo sto "gustando" un po' alla volta, con calma. E', dal mio punto di vista, uno di quei libri che può mettere in crisi le proprie convinzioni, nel caso specifico quelle legate alla fotografia di paesaggio. Insomma, chi non pensa che gran parte del fascino di una fotografia di paesaggio consista nella scelta di un soggetto adeguato, almeno "interessante", se non spettacolare? Non è quello che ci ha insegnato l'Adams più famoso, Ansel? Poi ti arriva l'altro Adams, Robert, è scompiglia le cose sostenendo che non intende "eliminare l'evidenza del nostro abuso del territorio e degli altri verso gli altri", e nemmeno "voltare le spalle a ciò che gli artisti hanno sempre tradizionalmente esaltato nella vita: la bellezza. Che io intendo come forma". Tuttavia, quel che vediamo nelle sue foto è proprio l'opposto di quello che noi consideriamo "bello". Magari le foto sono ben fatte e ben realizzate, ma di certo il soggetto non può essere considerato un esempio di armonia e bellezza. Proprio no. Robert Adams è d'altra parte il "cantore" della distruzione del "West" americano, di quella frontiera tanto esaltata a parole, eppure massacrata di fatto dalla speculazione edilizia, fatta di miriadi di casette tutte uguali, parcheggi e centri commerciali. Un vero tradimento, come lo considera il fotografo. Con uno sguardo netto, tagliente, impietoso ha indagato questi "ghetti" urbani dove una piccola borghesia di impiegati e operai crede di aver realizzato il proprio "sogno americano" e dove il concetto stesso di paesaggio è oramai annichilito e dimenticato. Guardando queste foto mi sembra davvero che "i due Adams" siano complementari di fatto, avendo rappresentato i volti contrapposti dell'America, quella selvaggia e spettacolare e quella urbanizzata e francamente brutta. Ed è singolare che uno stesso cognome - ma nessuna parentela nemmeno lontana - porti a comporre le due facce di una stessa medaglia, a creare una sorta di "unicum" in cui lo ying e lo yiang si compenetrano e in fondo si giustificano a vicenda. Ma veniamo al libro, che è fatto di fotografie e conversazioni in quanto raccoglie diverse interviste di Robert Adams insieme a una piccola serie di fotografie dedicate ai fiumi dell'ovest americano che, come spiega lo stesso autore, non possiede grandi fiumi, ma tanti torrenti dalla portata variabile. E, in effetti, nelle fotografie il più delle volte è proprio l'acqua a mancare. Vediamo letti fluviali secchi e polverosi con tracce dei pneumatici di qualche fuoristrada, vediamo una vegetazione stentata e cieli adamantini, senza nuvole. In cosa consiste allora il fascino (peraltro indubbio) delle fotografie di Robert Adams? Forse è in quel suo "essere lì" - davvero - per riprendere il mondo circostante senza i filtri dell'estetica accademica, rinunciando ad abbellimenti e artificiosità, con una semplificazione dello sguardo che non ha sovrastrutture, rinuncia all'artisticità (secondo i principi resi noti dai New Topographics e dalla Scuola di Dusseldorf) per offrirsi nudo e crudo allo spettatore. Forse. Mi interrogo molto su questo aspetto, perché io stesso vorrei essere meno "rigido" e più libero rispetto a determinati canoni a cui quasi tutti - se non tutti - noi fotografi restiamo legati. Anche perché oggi abbiamo un potente strumento che fortifica la volontà di rimanere avvinghiati al classico e al formale: Internet. Solo ciò che corrisponde al "bello" inteso in senso - il più delle volte - superficiale, viene "premiato" con "mi piace" e visibilità, mentre le immagini che si allontanano da questi schemi generalmente languono in un angolo oscuro della Rete. Se non si sapesse che la foto sopra è di Robert Adams (e ammesso e non concesso si sappia trattarsi di un grande fotografo), di certo la stessa non verrebbe quasi degnata di uno sguardo. E stiamo parlando di una delle foto più "potabili" del libro di cui sto parlando!
Io - ovviamente - sono molto attento alle foto che vedo online, in particolare alla modalità con cui vengono proposte. Ad esempio l'enfasi che si mette sull'aspetto tecnico: attenzione, non le "scelte" tecniche (che hanno un valore) ma sul fatto, puro e semplice, che si è utilizzata una fotocamera costosa e di alto livello, un'ottica sopraffina e magari una tecnica digitale complessa. Qualcosa che incuriosisce noi fotografi, certo, ma che aggiunge poco alla valutazione della foto: preferirei sapere qual è stata l'ispirazione, la fonte di determinate scelte, quale la genesi stessa dell'immagine. Ma nulla. Al più si sottolineano le difficoltà incontrate, come le levatacce o le lunghe escursioni, per dare un'aura di eroicità alla ripresa, ma poco di più. Robert Adams fa l'opposto. Punta tutto su una ripresa diretta e senza fronzoli, evita accuratamente la spettacolarizzazione e invece eleva il banale e il quotidiano al ruolo di soggetto importante e degno di essere raccontato, inserendosi in quella linea iniziata da Walker Evans negli USA e ripresa in Italia da fotografi come Ghirri e Giacomelli. Il libro mi ha sollevato più domande che risposte, è forse è bene così, anzi in questo consiste il suo valore. Di fronte a tanti "manuali" e "guide passo passo" disponibili sul mercato, un libro come "Lungo i fiumi" offre la preziosa opportunità di diventare maestri di se stessi, indagando lo sguardo di un grande fotografo. E non è poco... Le recenti proteste del mondo dello spettacolo, dell'arte e della cultura (a cui in fondo sento di appartenere) mi hanno fatto molto riflettere. Durante questa pandemia, il ruolo della cultura è stato narrato senza il solito velo di ipocrisia. Se ci sono stati ministri che hanno potuto dichiarare che "con la cultura non si mangia" - con conseguenti polemiche - oggi vediamo che alla fine anche chi contestava quelle assurde affermazioni - in fondo, in fondo - le condivideva in gran parte. Infatti, la cultura non è vista come un settore economico (una vera e propria industria) di fondamentale importanza (e già questo è grave), ma nemmeno per quello che è davvero: la "cosa" più importante che abbiamo. Se si cerca di salvare palestre e centri estetici, discoteche e sale giochi, non altrettanto si fa con cinema e teatri, e con tutti quei luoghi o quelle iniziative legata appunto alla cultura. In fondo, si pensa, non sono "beni indispensabili" come il benessere del corpo o il divertimento ma soprattutto l'industria, l'economia, il "consumo". Nella migliore delle ipotesi, visto che la gente deve restare a casa, la cultura diventa "un passatempo", qualcosa che serve a non annoiarsi troppo, un'alternativa (ma secondaria) ai videogiochi. Questo fa a pugni con la mia profonda convinzione che la cultura nelle sue molte sfaccettature sia invece la ragione stessa della nostra vita, quel che la rende degna di essere vissuta, il filtro attraverso cui possiamo guardare al mondo, alla bellezza della natura o alla bellezza del pensiero, con la possibilità se non di comprenderlo, almeno di accettarlo e farlo nostro. Così, mi è venuta in mente una poesia che avevo scritto qualche anno fa. In vita mia ho pubblicato una sola raccolta in versi ("Storie in punta di piedi"): si tratta di poesie che narrano di alcuni luoghi che ho visitato per il mio progetto fotografico "Una Momentanea Eternità" e che mi hanno ispirato delle storie, anzi mi hanno fatto percepire delle "presenze", quelle dell'ultima persona che è andata via dal luogo stesso e che - nella mia immaginazione - viene condannata a rimanervi come spirito. Si tratta di località della Tuscia, alcune famose altre molto meno, alcune insignificanti, come quella legata alla storia del "Giardino di Eleonora".
Durante i miei giri in bici sono spesso passato davanti al rudere che vedi nella foto in alto (una fotografia stenopeica) che, in primavera, è circondato da una folta fioritura. E mi è nata l'idea di questa bambina, che viveva col padre nel casale quando era ancora in piedi, e che aveva la passione di coltivare fiori, in un'epoca e in contesto in cui solo ciò che aveva valore economico (di sussistenza) poteva avere un significato. Nella mia mente Eleonora rappresenta la parte di noi che sa bene che senza pane si potrebbe morire di fame, ma che senza bellezza si vivrebbe invano. Mi sembra una storia appropriata, e dunque la propongo qui sotto, dedicandola a tutti coloro che vivono di cultura, che la amano, che la apprezzano, che ne riconoscono il valore, e che ora soffrono più di altri a vederla considerata così poco. Il giardino di Eleonora Nel pallore esangue di un’esausta primavera, guardavi con intensità le farfalle posarsi di corolla in corolla come fiori volanti tra i fiori del tuo giardino, Eleonora. E avevi nome da regina, sebbene il tuo regno non avesse per confini che quel piccolo quadrato di terra colmo di rose e violette, garofani e gigli candidi, dove solo le fate potevano contestare, forse, il tuo dominio. Accanto al casale arcigno coltivavi insieme ai fiori anche i tuoi sogni, ed entrambi crescevano floridi, all’ombra d’un destino incerto. E quando i contadini passavano, ti canzonavano allegramente: carciofi e non gigli, cavolfiori e non violette, pomodori e non garofani dovresti coltivare, Eleonora, che la bellezza non si mangia e la terra a questo serve, a riempire stomaci vuoti, non anime sensibili! E tu sorridevi timidamente e carezzavi i petali morbidi ben sapendo in cuor tuo che senza cibo si può morire ma senza bellezza invano si vivrebbe. Tuo padre affidava ai solchi i semi del suo rimpianto, che producono frutto, ma solo al prezzo d’una dolente solitudine. E non aveva coraggio di sottrarti quel rettangolo di colori anche se sarebbe stato necessario: vi girava attorno con la zappa, e non lo violava. Di tua madre, quello solo restava: il profumo delle rose che si spargeva tra le piante di fagiolo e le zucchine. Prosa e poesia di sere sempre uguali. Ma poi, nella stagione dei cieli grigi, arrivò il momento d’andare via. Nessuno sa perché, ma tutti sanno come, e quanta pena costa. Lui non disse una parola: custodì come cosa preziosa la tua mano bambina tra le dita ruvide da mezzadro e ti portò via. Attraverso il velo delle lacrime vedesti per l’ultima volta il tuo giardino, Eleonora: e quello che venne con te fu solo uno sfocato ricordo. Il tuo giardino abbandonato, sopravvisse solo qualche mese, prima che le fate venissero scacciate con trattori e aratri. Ma da allora, ogni anno, i fiori selvatici, il tasso barbasso e il cardo, la margherita e l’elicriso, sbocciano dov’era un tempo il tuo piccolo eden… |
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