Sono sempre stato incline al "famolo strano" (in campo fotografico, che hai capito? E a proposito, auguri a Verdone per i suoi 70 anni!), nel senso che mi piace sperimentare e vedere "che succede" quando si utilizzano tecniche non proprio usuali. In tal senso, mi hanno sempre attirato le foto circolari, tonde insomma. Secondo me sono la perfezione assoluta: non hanno orizzontale o verticale come il formato quadrato, ma sono decisamente più "armoniche". Ma soprattutto sfruttano al 100% il "circolo di illuminazione" (detto anche cerchio d'immagine o cerchio di copertura). Insomma, noi non ce ne rendiamo mai conto, ma gli obiettivi restituiscono sempre un'immagine tonda, all'interno della quale si ritaglia il formato definitivo, rettangolare o quadrato. In fase progettuale si fa in modo che sia questa l'area di maggiore qualità, mentre avvicinandosi ai bordi del cerchio questa decade rapidamente. Dunque tutte le foto che scattiamo sono, in verità, dei "crop" di una fotografia rotonda. Non a caso, per avere un angolo di campo più ampio, la Kodak n°1 del 1889, quella del famoso claim "you press the button, we do the rest", scattava foto circolari, e anche di qualità discreta. I fotografi moderni non utilizzano da tempo questo formato, se non in rare occasioni. Ho ad esempio conosciuto Roberto Salbitani, e lui utilizza spesso questo formato, ottenendolo in camera oscura. Ma forse il fotografo che più mi ha colpito è stato Vittore Fossati: in un suo libro ho visto alcune foto circolari, chiaramente realizzate montando un obiettivo per il formato inferiore su un banco ottico di formato maggiore. Ed è questo aspetto che mi attirava molto. Riprendere le foto già direttamente tonde, non ritagliarle dopo (cosa facilissima da fare oggi, con qualsiasi software). In analogico esistono varie possibilità (come quella utilizzata da Fossati), ma in digitale molte meno. Anche montando, ad esempio, un obiettivo APS-C su una fotocamera Full Frame, si ottiene al massimo una forte vignettatura, non una foto circolare. Allora ho messo le mani su un obiettivo per cinepresa 8mm, che copre davvero un formato piccolo e sulla mia mirrorless fornisce l'agognata fotografia circolare. Da notare come la resa sia complessivamente buona, fino al margine estremo del cerchio, ovviamente a diaframmi molto chiusi. Un vero spreco, quando si lavora sul formato originario! Così, sono andato a farmi un giro per verificare che l'assemblaggio precario creato per tenere il piccolo obiettivo in posizione funzioni adeguatamente e debbo dire che il "cambio di formato" così radicale apre prospettive fotografiche interessanti e per certi versi nuove. Insomma, intendo dire che il modo in cui un fotografo inquadra il mondo influisce molto sull'approccio al soggetto. Fotografare un gruppo di alberi inquadrandolo in formato orizzontale non è la stessa cosa che farlo in un formato rotondo. E credo sia questo che attiri fotografi importanti come Salbitani o Fossati. Questo per dire che ora mi ci dedicherò un po', esplorandone le potenzialità. Intanto condivido qui alcune delle foto realizzate: si tratta di semplici appunti visivi, però a me non dispiacciono affatto!
4 Commenti
Le recenti proteste del mondo dello spettacolo, dell'arte e della cultura (a cui in fondo sento di appartenere) mi hanno fatto molto riflettere. Durante questa pandemia, il ruolo della cultura è stato narrato senza il solito velo di ipocrisia. Se ci sono stati ministri che hanno potuto dichiarare che "con la cultura non si mangia" - con conseguenti polemiche - oggi vediamo che alla fine anche chi contestava quelle assurde affermazioni - in fondo, in fondo - le condivideva in gran parte. Infatti, la cultura non è vista come un settore economico (una vera e propria industria) di fondamentale importanza (e già questo è grave), ma nemmeno per quello che è davvero: la "cosa" più importante che abbiamo. Se si cerca di salvare palestre e centri estetici, discoteche e sale giochi, non altrettanto si fa con cinema e teatri, e con tutti quei luoghi o quelle iniziative legata appunto alla cultura. In fondo, si pensa, non sono "beni indispensabili" come il benessere del corpo o il divertimento ma soprattutto l'industria, l'economia, il "consumo". Nella migliore delle ipotesi, visto che la gente deve restare a casa, la cultura diventa "un passatempo", qualcosa che serve a non annoiarsi troppo, un'alternativa (ma secondaria) ai videogiochi. Questo fa a pugni con la mia profonda convinzione che la cultura nelle sue molte sfaccettature sia invece la ragione stessa della nostra vita, quel che la rende degna di essere vissuta, il filtro attraverso cui possiamo guardare al mondo, alla bellezza della natura o alla bellezza del pensiero, con la possibilità se non di comprenderlo, almeno di accettarlo e farlo nostro. Così, mi è venuta in mente una poesia che avevo scritto qualche anno fa. In vita mia ho pubblicato una sola raccolta in versi ("Storie in punta di piedi"): si tratta di poesie che narrano di alcuni luoghi che ho visitato per il mio progetto fotografico "Una Momentanea Eternità" e che mi hanno ispirato delle storie, anzi mi hanno fatto percepire delle "presenze", quelle dell'ultima persona che è andata via dal luogo stesso e che - nella mia immaginazione - viene condannata a rimanervi come spirito. Si tratta di località della Tuscia, alcune famose altre molto meno, alcune insignificanti, come quella legata alla storia del "Giardino di Eleonora".
Durante i miei giri in bici sono spesso passato davanti al rudere che vedi nella foto in alto (una fotografia stenopeica) che, in primavera, è circondato da una folta fioritura. E mi è nata l'idea di questa bambina, che viveva col padre nel casale quando era ancora in piedi, e che aveva la passione di coltivare fiori, in un'epoca e in contesto in cui solo ciò che aveva valore economico (di sussistenza) poteva avere un significato. Nella mia mente Eleonora rappresenta la parte di noi che sa bene che senza pane si potrebbe morire di fame, ma che senza bellezza si vivrebbe invano. Mi sembra una storia appropriata, e dunque la propongo qui sotto, dedicandola a tutti coloro che vivono di cultura, che la amano, che la apprezzano, che ne riconoscono il valore, e che ora soffrono più di altri a vederla considerata così poco. Il giardino di Eleonora Nel pallore esangue di un’esausta primavera, guardavi con intensità le farfalle posarsi di corolla in corolla come fiori volanti tra i fiori del tuo giardino, Eleonora. E avevi nome da regina, sebbene il tuo regno non avesse per confini che quel piccolo quadrato di terra colmo di rose e violette, garofani e gigli candidi, dove solo le fate potevano contestare, forse, il tuo dominio. Accanto al casale arcigno coltivavi insieme ai fiori anche i tuoi sogni, ed entrambi crescevano floridi, all’ombra d’un destino incerto. E quando i contadini passavano, ti canzonavano allegramente: carciofi e non gigli, cavolfiori e non violette, pomodori e non garofani dovresti coltivare, Eleonora, che la bellezza non si mangia e la terra a questo serve, a riempire stomaci vuoti, non anime sensibili! E tu sorridevi timidamente e carezzavi i petali morbidi ben sapendo in cuor tuo che senza cibo si può morire ma senza bellezza invano si vivrebbe. Tuo padre affidava ai solchi i semi del suo rimpianto, che producono frutto, ma solo al prezzo d’una dolente solitudine. E non aveva coraggio di sottrarti quel rettangolo di colori anche se sarebbe stato necessario: vi girava attorno con la zappa, e non lo violava. Di tua madre, quello solo restava: il profumo delle rose che si spargeva tra le piante di fagiolo e le zucchine. Prosa e poesia di sere sempre uguali. Ma poi, nella stagione dei cieli grigi, arrivò il momento d’andare via. Nessuno sa perché, ma tutti sanno come, e quanta pena costa. Lui non disse una parola: custodì come cosa preziosa la tua mano bambina tra le dita ruvide da mezzadro e ti portò via. Attraverso il velo delle lacrime vedesti per l’ultima volta il tuo giardino, Eleonora: e quello che venne con te fu solo uno sfocato ricordo. Il tuo giardino abbandonato, sopravvisse solo qualche mese, prima che le fate venissero scacciate con trattori e aratri. Ma da allora, ogni anno, i fiori selvatici, il tasso barbasso e il cardo, la margherita e l’elicriso, sbocciano dov’era un tempo il tuo piccolo eden… |
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