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Ancora folding e stampe stile "ottocentesco"

28/10/2021

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Hai presente quei ritratti ottocenteschi che appaiono imperfetti e sicuramente "strani"? Oggi diversi fotografi cercano di riprodurre quel "mood" antico ricorrendo a tecniche come ad esempio il collodio umido.

Il punto è che queste emulsioni sensibili antiche erano tutte ortocromatiche, non sensibili al rosso, e a questo si deve l'aspetto particolare delle foto, specialmente in caso di ritratti. Ovviamente c'era anche il fatto che si utilizzavano banchi ottici e dunque si notava la comparsa di un "bokeh" molto accentuato. A me questa cosa ha sempre affascinato ma, senza arrivare al Collodio Umido - tecnica intrigante ma complessa e costosa, visto che l'emulsione va stesa (al buio) direttamente sul campo e la foto va scattata prima che la stessa si asciughi e immediatamente sviluppata - ho sempre preferito ricorrere - semplicemente - alla carta fotografica bianco e nero che, com'è noto, è anch'essa ortocromatica. Certo, senza un banco ottico, è difficile ottenere quella certa resa...
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Beh, per farla breve non mi sono di certo comprato un banco ottico: sono filosoficamente contrario alle fotocamere ingombranti e pesanti, per me la fotografia è un fatto di leggerezza. Però mi è venuto in mente che negli anni '20 e '30 si ricorreva spesso a delle folding nel formato 9x12, in grado di soddisfare le mie esigenze. Una volta ripiegata, una fotocamera di questo tipo è compatta e facilmente trasportabile, una volta aperta è come un banco ottico in miniatura, con anche la possibilità di decentrare l'ottica, ovviamente non sostituibile.

Data la mia passione per le folding, di cui ho già parlato... come resistere? Mi sono messo su eBay alla ricerca di un esemplare a prezzo stracciato (o quasi) ma in buone condizioni, soprattutto funzionante e alla fine ecco tra le mie mani un gioiellino tedesco di una marca che non conoscevo, ma con una discreta ottica 135 mm, soprattutto perfettamente utilizzabile. A parte ho comprato tre chassis necessari per montare la "pellicola" cioè - nel mio caso - la carta fotografica bianco e nero.
Foto
Debbo dire che fotografare con una folding vecchia di 100 anni è per me particolarmente emozionante. Ancora non ho fatto nessuna uscita con la mia nuova compagna d'avventure, ma intanto ho sottoposto mia moglie Simonetta alla inevitabile tortura di fare da modella per i test. E' vero, sono un paesaggista e d'altra parte ricorrendo alla carta fotografica, che ha una sensibilità di soli 6 Iso, la scelta è quasi obbligata dati i tempi di scatto sempre generosi, ma comunque volevo provare.

Le foto non sono nitidissime (Simo non riusciva a stare assolutamente immobile per tre secondi e il vetro opalino non è così limpido per una messa a fuoco precisa), però l'atmosfera e il look sono proprio "quelli". Mi sembra di essere la Cameron reincarnata!

La gestualità è qualcosa di impagabile: comporre la foto sul vetro smerigliato, poi inserire lo chassis, estrarre il volet e scattare è qualcosa che non si può descrivere. Anche se poi si commettono errori da "principiante" (rispetto al mezzo) e mi son ritrovato dei "light leaks" dovuti alla non perfetta chiusura del volet dopo lo scatto. Poco male: farò pratica sul campo e poi ti dirò.
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Intanto posso dire che questi aloni, macchie e imperfezioni son proprio quelle cose che mi fanno apprezzare la mia nuova folding e scalpitare per portarla sul campo.
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La mostra di Salgado al MAXXI di Roma mi è piaciuta, ma...

21/10/2021

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Foto
Diciamolo: il problema di Salgado è che fa foto troppo belle. Davvero. Può diventare un problema, anche dal punto di vista dell'allestimento. Pian piano ci si ritrova a sovraccaricare lo spettatore, anche un po' a ripetersi, a ribadire più volte lo stesso concetto. Potremmo affermare che al dunque - come in Genesis - l'impressione che ho avuto visitando la mostra, a parte una grande gioia per lo sguardo, è un editing molto "lasco" e un eccesso di stimoli. Complice la disposizione delle foto, in breve si perde anche l'ordine con cui sono disposte (e numerate), perciò si finisce per guardarle in modo sparso e casuale: poco male, ma comunque il senso dell'editing si perde.

Ma appunto la riflessione che più volte mi è venuta guardando la parte visivamente preponderante della mostra "Amazonia" (al MAXXI di Roma sino al 13 febbraio) è: se hai già due o tre foto efficacissime (belle, possiamo anche dirlo), a che serve aggiungerne altrettante, simili ma chiaramente di livello inferiore? O addirittura tener dentro delle foto con orizzonti storti o poco nitide?
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Inoltre la presenza costante della musica di Jean-Michel Jarre un po' mi disturbava, ma davvero qui siamo nei gusti personali. 
Foto
Debbo a questo punto fare necessariamente riferimento alla mostra di Koudelka sulle aree archeologiche del Mediterraneo, che mi ha anche attirato qualche strale dagli amanti del fotografo ceco "a prescindere": essere un grande fotografo non significa saper fare tutto allo stesso modo, allo stesso livello. Ora, io credo che un fotografo di "people" (per usare un termine generico) non necessariamente sia in grado di realizzare foto di paesaggio efficaci. E viceversa.

Quello che rende unico e grande Salgado (ma anche Koudelka) non è solo la sua capacità strettamente fotografica (indiscutibile, sebbene tecnicamente non ineccepibile, ma chi se ne frega), bensì un dono raro, anzi rarissimo: l'empatia. Salgado diventa parte dei popoli e dei gruppi umani che fotografa e come racconta nel documentario "Il sale della Terra", questo lo ha spesso devastato.

Non è un fotografo distaccato come certi reporter d'assalto, nemmeno è un fotografo "embedded" come si dice oggi: è un uomo che si unisce ad altri uomini diventando parte di una comunità e racconta la loro storia. Per questo le sue foto dell'Africa, delle guerre, delle lotte per la terra, del lavoro umiliante sono così potenti: non perché sono "belle" (la critica che torna ripetutamente quando si parla di lui e che io reputo ingiusta) ma perché ti avvolgono, ti "portano dentro", ti scuotono dal tuo torpore. Pochissimi fotografi hanno saputo farlo con la sua potenza, nemmeno il primo McCurry (stendiamo un velo pietoso sui lavori recenti) ha saputo raggiungere simili livelli.

Questo fa di Salgado il maestro che indiscutibilmente è.
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Possiamo pensare a fotografi che abbiano avuto un approccio simile con il paesaggio? Certamente, ce ne sono tanti, a cominciare da solito Ansel Adams, o a Weston e così via. Ma la capacità di entrare in comunicazione e in empatia con i luoghi, con il paesaggio, di rado corrisponde a una simile capacità verso le persone, e non a caso si pensa a loro come "paesaggisti", sebbene abbiano anche fotografato persone.

Mi viene in mente un solo caso di fotografo altrettanto abile sia con il paesaggio sia con la gente: Walker Evans, ma comunque è una rarità. Lo stesso Ghirri, che a Evans si ispirava, riusciva a tirar fuori l'anima dai luoghi, ma non certo a essere così empatico quando si trattava della "gente". 

Che cosa voglio dire? Beh, che Salgado con il paesaggio riesce a essere un bravo fotografo, ma sinceramente "non è Salgado". Le foto aeree (forse troppe) appaiono giocoforza particolari e spettacolari, tuttavia è evidente che un bravo paesaggista saprebbe fare altrettanto, in quelle condizioni e con quei mezzi.

Chi ha avuto modo di vedere il documentario della BBC "Earth", nella puntata in cui si mostravano i "tepui" amazzonici con le loro cascate, avrà visto scene simili e altrettanto spettacolari, se non di più.

Per non parlare del fatto che nella mostra ci sono anche immagini un po' scontate come certi riflessi di nuvole o palme sull'acqua ferma. Sia chiaro: sono foto molto belle, ma spero si capisca quel che intendo dire.

Quando si entra nelle strutture circolari che riproducono le capanne indigene e si ammirano le foto dei nativi (per fortuna non stampate in formato cartellone pubblicitario, ma qui parla il fotografo che odia i grandi formati!), ragazzi, allora si che scatta la sindrome di Stendhal.

Nessun fotografo al mondo, ribadisco nessuno, saprebbe riprendere gli indios come fa Salgado. Non è solo il numero uno: è il solo e unico! Lo vedi negli sguardi dei soggetti, lo vedi nelle loro pose rilassate, nella fiducia che esprimono. Si "porgono" a uno di loro, si porgono a chi gode della loro piena fiducia, che non li tradirà mai, che si batte per i loro diritti. E tu, spettatore, entri in profonda comunicazione con questa gente, ti arrabbi per le ingiustizie che hanno subito (erano 5 milioni ai tempi della conquista del Brasile, oggi sono 370.000: ne vogliamo parlare?), detesti Bolsonaro e quel che rappresenta con tutto te stesso. Per una frazione di secondo entri nella loro comunità. Straordinario. Eccezionale. L'avevo scritto anche ai tempi di Genesis che la parte migliore di quella mostra era quella con gli indios, non posso che ribadirlo e affermarlo con tutta la forza che ho: se andate a vedere la mostra (faticosa, per il gran numero di foto) iniziate dalle foto dei nativi, solo dopo guardatevi quelle dei paesaggi. Penso che dedicare attenzione prevalente al vero Salgado sia meglio, anche invertendo l'ordine imposto dall'allestimento.
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Non posso non osservare che ci sono due mostre, una dentro l'altra: presumo sia anche intenzionale. La superficie maggiore (letteralmente, date le dimensioni delle stampe) è dedicata alla descrizione dell'ambiente, al centro c'è la vita dei nativi. Buona idea. Il colpo d'occhio complessivo funziona, l'allestimento è da kolossal, ovviamente sarà costato una fortuna e anche in questo Salgado & Leila sono unici, visto che ben pochi potrebbero smuovere simili risorse economiche.

Ma mentre mi sono sforzato di trovare "difetti" (lo faccio sempre è un mio limite) nelle foto degli Indios senza riuscirci nemmeno un po', ne ho trovate diverse in quelle di paesaggio.

Certo il fatto di stare al buio, con i faretti che illuminano alla perfezione solo la superficie delle stampe per creare un effetto "lightbox", è spettacolare, molto immersivo. Fateci caso: i faretti sono sempre tre (RGB, rosso, verde e blu) in modo che regolando i tre colori si ottiene una luce perfettamente calibrata. Alcune delle foto - come la mia preferita tra quelle di paesaggio, cioè quella qui sotto - avevano però leggere dominanti rosse, come si vede dal confronto con le foto dietro.
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Quel che davvero non mi convince - entro in un terreno minato, lo so, ma sappiate che sono solo le mie modeste opinioni - è invece la postproduzione delle foto stesse.

Innanzitutto la voglia di evidenziare sempre e comunque le nuvole e schiarire le parti in ombra porta alla comparsa di aloni sui bordi, segno di maschere non del tutto precise. Non solo: debbo presumere che Salgado, magari anche per evitare il mosso, oltre ad alzare gli ISO abbia anche sottoesposto in più di una occasione. Le foto così schiarite (e parecchio) oltre ad apparire grigiastre in alcuni punti, avevano una strana grana flocculosa, tipica del rumore cromatico, come si vede nel dettaglio di una stampa che pubblico qui sotto.

La gran parte delle foto poi ha una maschera di contrasto (nitidezza) molto evidente (sono "croccanti" come dicono i tecnici), che in alcuni casi porta (sommata con le altre correzioni) a una specie di "effetto HDR". Anche qui può essere una scelta, motivata anche dalle dimensioni delle stampe, chissà.

Sappiamo che non è il fotografo in persona a realizzare queste correzioni (ha un team di professionisti che lo fa per lui), ma credo che comunque abbia supervisionato il tutto. 

Già in altre occasioni aveva sottolineato la sua volontà di mantenere una certa uniformità tra le foto analogiche (ce ne sono diverse tra quelle degli Indios, risalenti alla fine degli anni '90) e quelle digitali, e visto che in Camera Oscura il lavoro di mascheratura non può essere perfetto, il far vedere aloni sui bordi delle aree schiarite potrebbe richiamare il processo di una volta, così come il rumore digitale evoca la grana della pellicola. Ma non mi convince lo stesso, visto che questo tipo di grana è assai diversa, e riconoscibile (almeno a un occhio un minimo esperto).
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E' grave? No, certo che no, ma se ingrandisci così tanto le foto e davanti passa un fotografo... noterà la cosa! Ma suppongo che la quasi totalità del pubblico non ci presterà la minima attenzione. Come non noterà nemmeno il fatto che l'azione di schiarire o scurire parti delle immagini porti a strani aloni che personalmente mi disturbano un po'. Lo osservo solo perché qui parliamo di fotografia tra fotografi, ma è ovvio che non si giudica da questo il valore delle foto. Sono mere note tecniche.

Come detto sono buone foto - come erano buone le foto di natura presenti in Genesis - ma non ci "vedo" Salgado, secondo me è solo questo il loro limite. Cerco il pelo nell'uovo? certo che si! Non lo farei se appunto fosse la mostra di qualsiasi altro, ma da quello che reputo uno dei dieci migliori fotografi al mondo (e forse il numero uno) mi aspetto sempre la perfezione, ma capisco che non è di questa terra. 

Ma, visto che invece la perfezione c'è nelle foto degli Indios mi chiedo perché non dare più rilevanza a quell'aspetto, invece che al paesaggio. Ma è una domanda destinata a rimanere senza risposta.

In conclusione: come sono uscito dalla mostra? Estasiato ed entusiasta. La mostra è meravigliosa e merita ogni attenzione e di certo la possiamo definire imperdibile. Le "pecche" che ho voluto sottolineare per completezza dell'informazione nulla tolgono al valore dell'insieme. L'impatto quando si entra è straordinario e le foto degli indios commuovono sino alle lacrime. Salgado è sempre Salgado. Come non amarlo?
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Due libri molto diversi eppure simili

19/10/2021

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In occasione della fiera "Tuscania Libri" presenterò entrambi i miei ultimi due libri, "Una Momentanea Eternità" e "Fotosintesi".

Sono due progetti completamente diversi, ma hanno anche molto in comune e la presentazione sarà soprattutto l'occasione per parlare del mio approccio alla fotografia. Vengo da un settore professionale ben specifico - e con delle ferree "leggi" - quello dell'editoria di viaggio e turismo. Per anni sono andato in giro a fotografare bei paesaggi, borghi, paesi, montagne, colline, spiagge e ovviamente ristoranti e alberghi, chef e personaggi vari. Il tutto andava fatto "in un certo modo" e si poteva (doveva) contare solo sulla propria professionalità e, certo, anche sulla creatività che andava però asservita e sottomessa a quelle che erano le chiare esigenze delle riviste che avrebbero pubblicato il reportage.

Sono grato a quelle riviste di avermi aiutato a comprendere molte cose, che oggi mi sono quantomai utili. Forse all'editing, alla selezione delle fotografie, alla ricerca di un tema e di un'idea da sviluppare non avrei pensato se non fosse stato per gli Art Director che mi spiegavano perché avevano bisogno di certe foto e non di altre. Ma so con certezza che quel mondo - comunque oramai quasi estinto - non faceva davvero sino in fondo per me. Avevo già allora desiderio di una maggiore libertà creativa, quella che solo i "grandi nomi" potevano avere (con moderazione) sulle riviste, e non certo di viaggi, semmai di moda o di genere più culturale.
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Dopo aver realizzato diversi libri fotografici - con Geo Mondadori e con Palombi ad esempio - ho iniziato a seguire i miei progetti da solo, soprattutto perché, proprio per le esperienze fatte sino a quel momento, sentivo l'esigenza di creare qualcosa di davvero personale, che fosse al 100% (stampa a parte) realizzato da me. Dopo una piccola produzione a tiratura limitata ("Lucus", progetto dedicato agli alberi, stampato in sole 50 copie), mi sono imbarcato nel progetto "Una momentanea Eternità".

Come ho scritto nella scheda che l'accompagna, "tra le scelte fatte nel realizzare il mio progetto, fondamentale è stata quella di ricorrere esclusivamente alla fotografia analogica, e stenopeica in particolare: alla fine mi son ritrovato con oltre 400 rulli scattati e circa 8000  negativi archiviati, più un totale di almeno 2000 negativi di carta utilizzati nelle fotocamere stenopeiche autocostruite".

Non solo: sono anche ricorso esclusivamente a fotocamere vintage, di almeno 30 anni di età, il più delle volte anche più vecchie, dagli anni '70 all'indietro sino agli anni '30 e '40. Volevo vedere la realtà che indagavo (siti archeologici e non solo, comunque legati al passato, scovati a non più di 90 km da casa mia) come l'avrebbe fatto un viaggiatore di prima che la tecnologia diventasse così invasiva e pervasiva. Ma è stato anche un modo per sottolineare il tema del progetto stesso, che è quello del passato, quella terra straniera (per dirla con lo scrittore David Lowenthal) che crediamo di conoscere e in cui invece viviamo appunto come estranei.

Ci son molti modi di guardare a una testimonianza del tempo che passa: c’è il modo dello scienziato e del ricercatore, in particolare dell’archeologo, che tenta di interpretare un luogo per trarne informazioni e insegnamento; c’è il modo del poeta, che se ne serve per raccontare, attraverso quel luogo, lo spirito universale; e c’è il modo del fotografo, che lo ritrae per descrivere le proprie sensazioni, per raccontare quel luogo come simbolo, come metafora dei propri pensieri e delle proprie emozioni. E questo è stato il mio modo.
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Dopo l'esperienza di "Una Momentanea Eternità" ho deciso di pubblicare anche un progetto che nel frattempo stavo realizzando per sfruttare al meglio un periodo dell'anno che personalmente reputo inconcludente: l'Estate. Visto che il sole vi abbonda, il progetto cerca appunto di indagarne gli effetti su di noi (e su di me, s'intende, che in quanto "fototipo 1" l'ho sempre fuggito come fanno i vampiri nei film horror!), non solo direttamente, ma anche indirettamente.

Infatti, quanti si fermano a pensare che la vita sulla Terra è possibile grazie alla collaborazione tra il Sole e le piante? E infatti a quest'ultime è dedicata gran parte del libro, che comprende fotografie analogiche, soprattutto "cameraless", cioé realizzate senza ricorrere a fotocamere (anzi, sfruttando l'azione stessa del sole su superfici sensibili), e anche una sezione con fotografie digitali e tecniche come l'ICM o le esposizioni multiple.

Contrariamente al mio solito "FOTO|SINTESI" è a colori, ma per rappresentare il "verde" delle piante i colori erano indispensabili. Inoltre la cosa straordinaria di tecniche "cameraless" come il lumenprintg o la solargarfia, è che pur se le immagini sono registrare su carta fotografica Bianco e Nero, il risultato finale è a colori!

​Di questo, e di molto altro, voglio parlare durante la presentazione del 30 ottobre, durante Tuscania Libri". Se siete in zona, vi aspetto!
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Folding, folding...

8/10/2021

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Come sa chi mi conosce, adoro le vecchie fotocamere, specialmente quello non "lussuose", ma preferibilmente quelle in bachelite, a lente semplice, quelle utilizzate un tempo per realizzare le foto per l'album di famiglia. In fondo ho realizzato un intero progetto, e un libro, con simili apparecchi.

Ma tra tutte le tipologie esistenti - e a differenza del digitale che tende un po' ad appiattire il mercato, ai tempi della pellicola di modelli e marche, come di formati, ce n'erano a bizzeffe - quella che di gran lunga prediligo sono le folding. Insomma, le fotocamere a soffietto.

​E' vero che non si può sostituire l'obiettivo (in genere un "normale"), ma la portabilità è eccezionale, e per me questa caratteristica è fondamentale.
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Perciò ti presento la mia nuova - probabilmente inseparabile - compagna d'avventure fotografiche, la Balda Baldalux 6x9 cm (ma permette anche di scattare il 6x6 e il 6x4.5). Nella foto sopra è chiusa e così diventa un "mattoncino" compatto e facilmente trasportabile nello zaino, con l'ottica e il soffietto ben protetti. Una medio formato (6x9 poi!) è generalmente pesante e ingombrante, anche se magari non come la mia Mamiya RB67 che, proprio per questo, non uso quasi mai.

​La Baldalux (e l'altra mia folding, la Zeiss nettar, sempre 6x9) è invece facile da usare, trasportare, gestire. Una gioia!
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Premi un pulsantino e - voilà - il "mattoncino" diventa una bella fotocamera, con tempi di scatto che vanno sino a 1 secondo, più posa B, e diaframmi da f/4.5 a 22. L'obiettivo è un fantastico Schneider Kreusznach 105 mm, che sul 6x9 corrisponde sul lato lungo a un 42 mm (con riferimento al piccolo formato) e su quello corto a un 63 mm.

Buono per tutte le occasioni, anche se oggi se non hai un grandangolo che ti mostra anche le orecchie di chi scatta, o un tele che possa riprendere i crateri della luna, sembra che tu non possa vivere!

Ieri perciò, bello pimpante e sotto una pioggerella insistente, me ne sono andato con Simonetta ad Acquapendente per scattare un rullo di prova. I soggetti sono stati i murales realizzati diversi anni fa sulle facciate di alcuni edifici del centro storico. Temevo che senza un grandangolo più spinto avrei avuto difficoltà, ma invece la Balda si è comportata bene. Inoltre con un 400 ISO (Fomapan) ho potuto scattare a 1/100 a f/11 a mano libera.
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Sebbene realizzate solo per prova, delle fotografie sono davvero molto soddisfatto, specialmente se penso che la fotocamera ha più di 70 anni di vita. L'obiettivo perde appena agli angoli estremi, per il resto è nitido come uno scalpello. Appunto, una gioia da usare. Poi questo genere di fotocamere ti obbliga a una sorta di "ritualità" che è diversa dal cercare affannosamente nel menù di una digitale l'apposito voce: qui devi soprattutto ricordarti le tre-quattro cose da impostare, meglio se nell'ordine.
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Prima di tutto la lettura esposimetrica, fatta con un piccolo accessorio cinesissimo, un esposimetro digitale delle dimensioni di una scatola di fiammiferi che si può anche collocare sulla slitta del flash e che ho verificato essere abbastanza preciso. Poi con calma (i comandi sono in effetti un po' piccoli) si impostano tempi e diaframmi che sono coassiali all'obiettivo. Poi si arma l'otturatore, si inquadra con il microscopico mirino (che però ci azzecca) e si preme finalmente il pulsante di scatto. Ragazzi, che bello.
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Con l'occasione ho anche provato lo svillupo Bellini Hydrofen; 6 minuti a 20° nella diluizione 1+15. Non credo sostituirà il mio amato Rodinal (o R09 che dir si voglia), sebbene i due sviluppi siano dati come molto affini, però anche lui si è comportato abbastanza bene, direi.
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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