Nato nel 1912 (e morto nel 2009), Arne Naess è stato uno dei maggiori filosofi (e alpinisti) norvegesi, ideatore della cosiddetta “Ecologia Profonda” (Deep Ecology) che non cerca soluzioni facili (e spesso inefficaci) ai problemi ambientali, ma ricerca un cambiamento nel pensiero e nei modi di vita che si adattino ai ritmi del pianeta, per consentirne la sopravvivenza. Per la cosiddetta “ecologia superficiale” il metro di riferimento è sempre l’essere umano: dobbiamo avere atteggiamenti meno impattanti per salvare noi stessi. Per l’ecologia profonda, invece, occorre salvare tutte le forme di vita e gli ecosistemi e questo giocoforza porta alla sopravvivenza della nostra specie. Noi non siamo il metro di tutto, la natura lo è. Per salvare il mondo non possiamo solo "fare i bravi", dobbiamo cambiare completamente approccio, e anche il sistema economico e sociale. Leggendo il libro di Naess “Siamo l’aria che respiriamo” mentre mezzo mondo andava a fuoco (e poco tempo dopo che l’altro mezzo mondo era andato sott’acqua o veniva colpito da grandinate violentissime), mi sono reso conto che il filosofo norvegese è stato un inascoltato profeta. Già negli anni in cui scriveva i suoi saggi (tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90) si sono presentate tangibili evidenze dei mutamenti che il pianeta stava subendo, a cui – allora come oggi – si opponeva una stolta fiducia nella tecnologia (eccola, l’ecologia superficiale!) che avrebbe risolto magicamente ogni problema. Le magnifiche sorti e progressive, insomma. Il messaggio di Naess era ed è chiaro: ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, fare pressioni affinché cambi profondamente l’approccio sia politico che economico alle questioni ambientali, che dovrebbero essere prioritarie su tutto, ma anche cambiare l’atteggiamento personale, che poi finisce per influenzare il “mercato”, dunque le scelte del “Capitale”. Cos'ha a che fare questo con la fotografia? Potremmo dire che come fotografi abbiamo un potenziale duplice ruolo: da un lato quello di essere testimoni delle questioni legate ai mutamenti climatici e alle questioni ecologiche in generale, dall’altro scegliere di essere più parsimoniosi e oculati nelle nostre stesse scelte di acquisto. Ora, se progettare veri e propri reportage su tematiche ambientali – ad esempio raccontando lo sciogliersi dei ghiacciai mettendo a confronto foto d'epoca e foto contemporanee, come fatto dal fotografo Fabiano Ventura - può essere considerato qualcosa di stimolante e creativo, insomma qualcosa di piacevole, evitare di cadere nella GAS (Gear Acquisition Syndrome, Sindrome dell’acquisto compulsivo) o comunque ridurre il proprio impatto ambientale come consumatori di prodotti elettronici è decisamente più complicato. Un fotografo utilizza strumenti altamente tecnologici: fotocamere digitali o analogiche (e dunque pellicole e sviluppi), obiettivi dotati di vetri per la cui realizzazione si utilizzano risorse preziose (come le terre rare) e molta energia, computer e monitor, oltre a batterie di ogni tipo. Un bel po’ di roba a notevole impatto ambientale! Chi si è mai posto il problema dell’impronta ecologica della fotografia? In verità la questione è stata già sollevata nel passato recente. In un articolo del 2020 su Jumper.it, ad esempio, Luca Pianigiani scriveva: "una politica ambientalista nella produzione fotografica potrebbe essere un approccio da prendere in considerazione: la meravigliosa luce naturale (che belle le nuove fotocamere che hanno sensori in grado di riprendere quasi al buio con risultati incredibili), meno viaggi che creano grandi emissioni di Co2, questo per esempio significa usare una bicicletta invece che un’automobile, e questo porta ad avere delle attrezzature leggere, semplici, facilmente trasportabili senza casse e valigione. E, per estremizzare, significa scattare meno: ogni immagine occupa spazio, sui computer, poi sui server, che hanno bisogno sempre di più di alimentazione, ma il tema è ancora più profondo: dobbiamo comprendere (possiamo farlo, se ci impegniamo) che “tanto è peggio di poco”, che meno si produce (anche se “virtuale” perché non c’è nulla di virtuale: i dati sono reali, occupano spazio, hanno bisogno di reti per essere trasmessi, “pesano”… smettiamola di credere che siano privi di una “fisicità”) e meglio sarà il prodotto che offriremo: vince il minimalismo, non l’abbondanza, la selezione e non l’eccesso, la sintesi e non l’essere prolissi". Ecco, in queste considerazioni c'è già un po' tutta quella che potrebbe essere la nuova modalità di intendere la fotografia professionale (perché di quella si occupano Pianigiani e Jumper), sebbene la stessa logica si possa applicare a quella amatoriale. D’altra parte occorre anche osservare che il mercato della fotografia sta cambiando molto e in verità il settore delle fotocamere è in netta crisi: c’è stato un calo delle vendite del 40% e oggi solo Canon e Sony (che da soli rappresentano il 70% del mercato) riescono a rendere più o meno redditizio il loro impegno nel settore. Nikon, che un tempo era il numero uno, oggi naviga in bruttissime acque con appena il 14% del mercato. Tutta questa fuga dal settore fotografico è andata a vantaggio dell’industria degli smartphone, che oramai sono lo strumento fotografico ampiamente predominante. Gli smartphone, a differenza delle fotocamere, vengono sostituiti molto più spesso (la media negli USA è di 26 mesi!) e sono un problema ambientale enorme: la loro produzione è fonte di squilibri geopolitici (soprattutto per l’estrazione di terre rare e del Coltan in particolare), di sfruttamento delle popolazioni, origina guerre e inquinamento delle acque e dell’aria. Come scrive il sito Green.it, "l’estrazione dei metalli preziosi – un cellulare attualmente contiene circa 60 materiali diversi – oltre che essere molto spesso inquinante per l’ambiente circostante, è caratterizzata talvolta da condizioni di lavoro disumane. Oltre a questo, poi, il controllo delle miniere è uno dei motivi principali dei continui conflitti armati che sconvolgono luoghi come la Repubblica Democratica del Congo. Ma non è tutto qui: anche gli stadi successivi della produzione degli smartphone nascondono delle minacce per la salute umana, con l’esposizione degli operai a pericolosi agenti chimici". Eppure non esitiamo un attimo a passare da un modello recente a uno ancora più nuovo, e questo non perché quello che abbiamo sia davvero obsoleto (cioè non più in grado di fare quel che ci serve) ma solo per il desiderio di avere la “novità elettronica”. Un desiderio che prende la forma evanescente del “bisogno”, che è un inganno bello e buono, spesso indotto. Tutti ci siamo cascati, volenti o nolenti. Mandiamo in malora il pianeta per qualche megapixel in più - dato che come fotografi è questa la caratteristica che ci attira maggiormente - sebbene serviranno comunque a fare le stesse foto scadenti (e non per colpa dello smartphone) di prima. E’ vero che stanno partendo progetti di recupero e riciclaggio, ma è anche vero che occorre cercare soprattutto di ridurre l’impronta ecologica di tutte le merci, e dunque anche dei nostri amati “device”. Ovviamente gli “sviluppisti” utilizzeranno la classica leva del ricatto occupazionale: se non si acquistano nuove auto, nuove case, nuovi smartphone, nuove fotocamere ci saranno posti di lavoro in meno, le industrie chiuderanno, le famiglie finiranno a fare la fame, eccetera eccetera. Ma se teniamo conto che non fare nulla potrebbe invece portare a una crisi ambientale senza precedenti, è del tutto ovvio che la questione occupazionale deve venire dopo e può comunque essere affrontata attraverso serie politiche di conversione ecologica, ma reale, in cui si produca ciò che serve, non ciò che è utile a far arricchire gli “investitori”! In un capitolo del suo libro Arne Naess fornisce alcuni consigli su come riorientare in senso ecologico profondo la propria vita. Non li riporto tutti, solo quelli che possono essere utili al fotografo, con un mio commento. 1 – “Utilizzo di mezzi semplici. Evitare strumenti complicati, non necessari e simili”. Quanti di noi hanno fotocamere che sono ben superiori alle proprie necessità? Pensaci: avere fotocamere che producono file pesanti significa dover acquistare computer più potenti, Hard Disk più capienti, obiettivi e accessori più complessi. Come scrive Pianigiani su Jamper, è una pia illusione credere che una foto digitale non sia "corporea" e non consumi risorse. Come è un'illusione credere che Internet stesso (meta finale di gran parte delle fotografie scattate) non assorba enormi risorse energetiche: la sola gestione dei Bitcoin (nemmeno l'unica struttura a utilizzare le blockchain) richiede 80 Terawatt/ora, con un consumo annuale di energia pari a quella di una nazione come il Cile o La Nuova Zelanda! La Rete Internet è la quarta "nazione" al mondo per consumo energetico, assorbe il 7% di quella prodotta a livello globale, introducendo in atmosfera quasi 11 miliardi di tonnellate di Co2. Da solo lo streaming video immette 300 milioni di tonnellate di gas serra, e la fotografia non è distante da queste cifre. Condividere meno fotografie online, utilizzare più accortamente i Social, porterebbe a una riduzione delle emissioni "avvertibile", insomma significativa. Ma non è solo questo: anche evitare continui "upgrade" delle fotocamere è importante. Se pensi che l’intero settore della fotografia analogica oggi vive ricorrendo all’usato, visto che non si producono più fotocamere a pellicola, ti renderai conto che alla fine rimettere sul mercato fotocamere non più in uso rappresenta una scelta in grado di sostenere le esigenze di molti fotografi e ridurre - e di molto - l'inquinamento complessivo. Dirai: ma le fotocamere digitali si sviluppano molto più in fretta! Vero, ma a te cosa serve davvero? Io utilizzo ancora fotocamere di 13-14 anni fa, e quando me ne serve una particolare, vado sempre sull'usato. Possiedo una sola fotocamera acquistata nuova, il resto – obiettivi compresi – l'ho preso come usato. Ci sono milioni di fotocamere ferme nelle case delle persone, che potrebbero tornare sul mercato e trovare nuova vita, e lo stesso vale per gli smartphone. Ci sono siti, come ReBuy, che garantiscono l’usato e ne specificano il risparmio ambientale. Dal punto di vista tecnologico, le fotocamere anche di dieci anni fa hanno prestazioni ampiamente sufficienti per la stragrande maggioranza degli utilizzi! 2 – “Anticonsumismo”. Credo di aver esplicitato questo aspetto abbastanza ampiamente nel punto precedente. Si tratta di un atteggiamento che deve prevalere in ogni aspetto della nostra vita. Smettiamola di essere “consumatori”, cerchiamo di essere parte attiva della catena decisionale, a cominciare da ciò che acquistiamo. Già lo diceva Erich Fromm in “Avere o Essere”. Non siamo le cose che possediamo, siamo quel che abbiamo consapevolezza di essere. Un bravo fotografo è tale non certo grazie alla fotocamera che sceglie! 3 – “Assenza o basso grado di novofilia – amare ciò che è nuovo semplicemente perché è nuovo”. E anche qui Naess ribadisce il concetto del punto uno. La nuova fotocamera è davvero (davvero davvero) necessaria, ci dà accesso a qualcosa che sinora non siamo riusciti a utilizzare? Oppure è solo più “figa” di quella che abbiamo (o potremmo acquistare usata online)? Come scrive Naess “da un punto di vista ecosofico, quale sia il meglio per qualcuno dipende dalla sua visione del mondo. Quando, per esempio, diciamo che una certa macchina fotografica è migliore della vostra, non è detto che invece non sia un modello molto meno adatto a voi. Comprarlo potrebbe rivelarsi una scelta poco sensata, e quindi non si vede perché un ecosofo dovrebbe sentirne la mancanza”! 4 – “Evitare un tenore di vita troppo diverso – e troppo superiore a – quello degli indigenti (solidarietà globale dello stile di vita)”. E qui entra in gioco la consapevolezza di essere parte di una famiglia che deve contenere anche i popoli meno “fortunati”. Non so te, ma io penso spesso che con quello che spendiamo per una fotocamera ultimo modello, una famiglia in certe zone del mondo potrebbe camparci per un anno o più! Significa per forza dover fare una vita di rinunce? Magari no, ma evitare gli sprechi assurdi forse si, ricordandoci che l’1% della popolazione mondiale detiene una ricchezza pari al doppio di quella posseduta dal 90% della restante popolazione… 5 – “Preferire la profondità e la ricchezza dell’esperienza piuttosto che l’intensità”. E questo secondo me ha anche un riferimento alle scelte tecniche che si fanno. Riuscire a realizzare le foto notturne con tutte le stelle in cielo, o certe immagini complicatissime, richiede un grosso investimento economico in fotocamere performanti e ottiche di alta qualità. Non a caso nelle pubblicità è su questo che si insiste molto. Ma davvero sono fotografie utili, interessanti e buone? Davvero vale la pena utilizzare risorse importanti (e parlo dell'impatto complessivo, compresa la messa in rete sui Social) per l'ennesima fotografia "spettacolare" dell'islanda o delle Dolomiti di Brenta? Davvero in quel momento non è l’impegno tecnico a prevalere piuttosto che quello meramente esperienziale? Personalmente, nel corso del tempo, mi sono reso sempre più conto di quanta importanza abbia invece la fotografia semplice, senza fronzoli, che nel momento in cui la si realizza consente di concentrarsi solo sull’esperienza che si sta facendo, che non metta in mezzo vincoli tecnici di chissà quale complessità. E’ la fotografia che ha dominato la nostra arte per oltre un secolo, e che oggi sembra venir dimenticata. Per questo chi guarda a una foto di Guido Guidi o Luigi Ghirri le trova “banali” e poco interessanti, quando invece sono la prova di quanto quel che conta davvero sia lo sguardo, non la tecnologia fine a se stessa. 6 – “Sforzarsi di condurre una vita complessa – non complicata: cerca di realizzare quanti più aspetti possibili di esperienze positive in ciascun intervallo di tempo”. La fotografia deve essere un amplificatore delle esperienze nel momento in cui sono vissute, non essere l’esperienza in quanto tale, quasi a prescindere da ciò che si sta fotografando. Occorre partire dal vedere davvero il soggetto, fotografarlo nel modo più semplice possibile e lasciarsi coinvolgere da tutta l’esperienza, nel suo compiersi. Vedo sin troppi fotografi che pensano solo alle giuste regolazioni della propria fotocamera invece di perdersi a guardare come suggeriva Jodice. Una foto deve cambiare il tuo modo di percepire il mondo – anche se di pochissimo – altrimenti è inutile. 7 – “Tentare di vivere nella natura piuttosto che limitarsi a visitare posti belli”. Anche in questo caso la questione è spinosa: per troppi fotografi il gesto di scattare una foto è legato al viaggio, se non al turismo. Invece frequentare la natura più prossima o comunque i luoghi in cui viviamo è di fondamentale importanza per realizzare fotografie davvero significative. Il turismo poi – specialmente quello realizzato con aerei e navi da crociera – rappresenta un potente attacco all’ambiente e agli ecosistemi. Forse non ci si pensa mai abbastanza. Ci sono luoghi che hanno subito un pesante impatto ambientale solo per la voglia dei fotografi di fare - per l'ennesima volta - quella foto così bella! Questo video lo mostra in modo chiaro e francamente imbarazzante (da fotografo). E' folle inseguire luoghi sempre più lontani per fare foto che crediamo valide, quando a due passi da casa abbiamo un mondo di soggetti a cui noi - come autori - possiamo dar valore! So che molti dei miei lettori troveranno questo post esageratamente apocalittico o pretenzioso. Tuttavia sentivo il bisogno di esprimere queste idee, e proprio in questo momento storico, in cui il tempo stringe. Potete anche definirmi un "Gretino": ne vado fiero. Da sempre ho cercato di avere un atteggiamento “a basso impatto ambientale”, a cominciare dalla scelta vegetariana fatta quarant'anni fa (più che per motivi filosofici proprio per ridurre l’impatto ambientale, altissimo nella produzione della carne e derivati). Ovviamente con le mie incoerenze, e anche qualche ipocrisia, che Naess stesso riteneva inevitabili visto che siamo umani e viviamo in una società che ti spinge sempre nella direzione del consumo.
Ma credo anche che sia proprio nell’avere la mente pronta a valutare la portata delle nostre azioni – accettando gli inevitabili errori – che sta il valore dell’ecologia profonda. Senza inutili sensi di colpa e autoflagellazioni, porsi sempre nella condizione di attribuire le giuste priorità nella nostra vita, questo è importante. A cominciare appunto dalla nostra amata fotografia.
5 Commenti
Con il post che uscirà tra qualche giorno inizierò una nuova stagione del mio blog, che sarà sempre più dedicato (anche se non in modo esclusivo) a tematiche fotografico-ambientali, non tanto perché parlerò di fotografia naturalistica o simili, quanto perché approfondirò quelle tematiche che permettano di ridurre il nostro impatto "fotografico" sul pianeta, in ogni senso. Magari sembrerà strano pensare che acquistare una determinata fotocamera piuttosto che un'altra abbia conseguenze a livello planetario, eppure è così. Ricordo ancora le polemiche nate a seguito di un mio articolo sulla rivista dell'AFNI (Associazione fotografi naturalisti italiani) "Asferico" in cui lamentavo la sponsorizzazione che la Nikon fa (o faceva allora, almeno) dei tornei di caccia ai predatori o "predator derby" (lupi e coyote in particolare), negli USA, in cui vinceva chi ne uccideva di più. E pensare che un marchio di prodotti fotografici (ma anche di mirini per fucili di precisione) potesse sponsorizzare simili nefandezze era davvero una cosa ributtante. Ma potremmo anche parlare di come molti marchi del settore fotografico siano impegnati anche in quello militare (da sistemi di guida di missili a puntatori laser e via elencando), o abbiano comportamenti poco etici nei confronti dei lavoratori, o collaborino con regimi che opprimono i popoli, e così via. Non intendo di sicuro fare post di tipo "giornalistico" o simili: era solo per sottolineare che quando utilizziamo una fotocamera non dovremmo essere all'oscuro delle implicazioni che questo comporta, e semmai dovremmo sfruttare la nostra arte e capacità di narrare fotograficamente proprio per sottolineare determinate storture. Infatti, se le attrezzature fotografiche possono anche avere un impatto pesante sull'ambiente, e non solo, è anche vero che il loro utilizzo può servire a rendere efficaci - e auspicabilmente vincenti - certe battaglie per la salvaguardia della Terra. Per questo intendo anche proporre il lavoro di fotografi che su questo si stanno impegnando molto, o lo hanno fatto in passato.
So che magari alcuni argomenti non saranno popolari - di certo non come spiegare per la milionesima volta cos'è la profondità di campo o come si realizza un HDR - ma in fondo di blog che spiegano come si fanno "belle foto" ne puoi trovare quanti ne vuoi, perciò preferisco concentrarmi su come realizzare fotografie "buone". Buone da ogni punto di vista! Sono sempre stato affascinato dai "paesaggi intimi", come quelli realizzati dal grande fotografo americano Eliot Porter. In verità ero - e sono - affascinato dal fatto che li si consideri appunto..."paesaggi", sebbene non abbiano alcuna caratteristica che li faccia sembrare tali. Sono infatti dettagli, particolari, campi stretti, piccoli soggetti che non hanno la vastità e l'importanza di una vero "paesaggio" come tendiamo a considerarlo normalmente. Ma in verità credo che ci siano molti equivoci su questa parola. Perché ci sia un paesaggio, e questo è oramai accettato da tutti gli studiosi che si occupano della materia, occorre che ci sia uno spettatore. In pratica l'equazione è territorio+spettatore=paesaggio. Ma secondo molti non basta ancora, occorre anche che lo spettatore riconosca e si riconosca in questo paesaggio, non necessariamente che lo trovi "bello" (può anzi trovarlo orribile), quanto che lo identifichi non già come "natura", "ambiente" o altro, ma come un insieme coerente di attività umane e matrice territoriale. "Tutto il paesaggio da noi conosciuto come naturale è un paesaggio plasmato dall'uomo: è natura a cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza però distruggerlo in quanto natura" scriveva nel 1973 Rosario Assunto. D'altra parte la stessa parola "paesaggio" è relativamente moderna nella cultura occidentale. Compare tra la fine del '400 e la prima metà del '500 in Francia per indicare un tipo di pittura, detta appunto "paysage"; poco dopo il termine entrerà nell'uso comune anche in Italia. Nei paesi di lingua tedesca si usano termini derivati dalla parola "land" (come Landscape), che è molto più antica di "paesaggio", ma che originariamente indicava solo "una porzione di territorio". Insomma, noi europei non avevamo nemmeno un termine per definirlo, il paesaggio, figuriamoci averne la consapevolezza. Quella che ad esempio avevano Cinesi e Giapponesi, che da due millenni hanno non solo una parola, ma più parole per indicare questo concetto! Ma - per arrivare al punto - date queste considerazioni, un "paesaggio intimo", cioè un dettaglio di territorio, una fronda d'albero o dei legni portati dal mare (foto in apertura) può davvero essere un "paesaggio"? Cominciamo col dire che le foto di Eliot Porter - pur magnifiche - difficilmente possono essere considerate paesaggio, se non altro perché non riprendono situazioni in cui sia evidente l'opera dell'uomo, anzi sono decisamente foto puramente "naturalistiche". Questo ovviamente se accettiamo l'idea che possa essere paesaggio solo il "paesaggio culturale", quello curato dall'uomo. Naturalmente il termine "paesaggio intimo" è solo un aggettivo creato per descrivere fotografie che non sono solo naturalistiche e nemmeno solo di "landscape". Ma è interessante notare quanto il termine paesaggio sia sfuggente, e spesso utilizzato a sproposito. Anche se, come osserva Assunto, in effetti è oramai impossibile - almeno in gran parte d'Europa - trovare un luogo in cui l'azione dell'uomo non sia giunta. Dunque se la longa manus della civiltà è giunta ovunque, ogni luogo è anche - per questo aspetto - un paesaggio? Forse, chissà.
Oltretutto la fotografia afferma in modo indiscutibile la presenza di uno spettatore, il fotografo stesso, ed è dunque difficile non notare che l'equazione iniziale sia perciò rispettata in pieno. Ma non solo: se ab origine il termine "paesaggio" si riferiva a territori comunque antropizzati, oggi si tende ad accettare una definizione meno restrittiva, e infatti nei concorsi di fotografia naturalistica (come quello organizzato dalla BBC o il concorso di "Asferico"), nella categoria "paesaggio/landscape" partecipano foto di luoghi incontaminati e selvaggi (apparentemente, almeno) in cui non debbono esserci - da regolamento - evidenze della presenza umana. Un bell'impiccio, su cui tornerò. Intanto continuerò a usare il termine "paesaggio intimo" (Intimate Landscape) per immagini come quella delle foglie di farfaraccio riprese all'infrarosso (foto qui sopra), scattata "entrando" nella micro-foresta creata da queste piante. Davvero mi sembrava di aggirarmi in una sorta di Amazzonia in miniatura: se fossi stato una formica, di certo l'avrei trovata incombente come un per noi un bosco di sequoie!
In effetti, spesso lo è. Un'avventura, intendo. E questo perché, a differenza di quanto avveniva con la stampa analogica in Bianco e Nero, non è molto "lineare" a livello concettuale almeno. Infatti, entrano in gioco molti elementi diversi, a volte contrapposti.
Ad esempio, noi scattiamo la foto e la guardiamo su un monitor secondo la logica "additiva" RGB (la somma dei tre colori da il bianco), Rosso Verde e Blu. Questi tre colori sono in grado di creare tutti gli altri solo se guardati grazie a un apparato che emetta luce.
Ma, lo sappiamo bene, le foto stampate (che siano contenute in un libro o una rivista, o delle stampe da appendere al muro) non emettono luce, bensì la riflettono.
Dunque per la stampa si utilizza la sintesi sottrattiva CMYK (la loro somma da il nero), Ciano Magenta e Giallo, più il nero (indicato con la K finale di Black per non creare confusioni con il Blu).
C'è da dire che ognuno dei colori della tricromia è il "negativo" della quadricromia, sono cioè colori complementari (opposti), come si può vedere nello schema qui sotto in cui l'immagine di destra è la triade di sinistra invertita, al negativo.
A parte questo aspetto, poi, c'è da dire che nella stampa conta anche il problema della resa diversa tra il monitor e la stampante, legata indubbiamente alla "traduzione" che la stampante (o un software) fa della foto in RGB per trasformarla in CMYK, ma anche al fatto che giocoforza un monitor è più luminoso, e apparentemente nitido, di una stampa.
Qui entra in gioco la Gamma che, oltretutto è anche un fatto di scelte: i Mac per esempio usano una gamma 1.8 contro l'2.2 di Windows e dunque passando un file tra i due sistemi, la resa cambia molto! La cosa è ben spiegata sul sito di Benq. Tuttavia la stampa non riesce certo a esprimere questi valori di luminosità, in quanto riflette la luce, non la emette, come detto! In generale, le stampe hanno meno luminosità, contrasto e saturazione di un monitor, inoltre - a seconda della tecnologia scelta - possono avere la tendenza a chiudere le ombre. La soluzione "seria" sarebbe quella di calibrare il monitor per la stampa (cosa fattibile, con alcuni software di calibrazione), oppure crearsi dei profili "a occhio", come ad esempio faccio io. Insomma, il monitor è calibrato come monitor, ma poi ho fatto molta esperienza su come andare a modificare dei parametri per ottenere delle stampe più che ragionevoli, appunto aprendo leggermente le ombre, aumentando la staurazione e la luminosità, ovviamente senza esagerare. Con la pratica - e se non si hanno aspettative "super" - la cosa si controlla bene e senza spese aggiuntive. Un buon consiglio è lavorare le foto destinate alla stampa utilizzando un fondo bianco e non il classico grigio di molti software. Al limite, basta creare un bel bordo bianco tutt'intorno. Questo rende abbastanza bene l'idea della resa finale. Ne parlo anche nel mio ultimo Podcast, che puoi ascoltare su Anchor e su Spotify.
|
NEWSLETTERIscriviti alla mia newsletter e potrai scaricare gratis la mia "Quick Guide" PDF!
|