MARCO SCATAGLINI
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Minima Localia

25/8/2020

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Sono sempre stato affascinato dai "paesaggi intimi", come quelli realizzati dal grande fotografo americano Eliot Porter. In verità ero - e sono - affascinato dal fatto che li si consideri appunto..."paesaggi", sebbene non abbiano alcuna caratteristica che li faccia sembrare tali.

Sono infatti dettagli, particolari, campi stretti, piccoli soggetti che non hanno la vastità e l'importanza di una vero "paesaggio" come tendiamo a considerarlo normalmente. Ma in verità credo che ci siano molti equivoci su questa parola.

Perché ci sia un paesaggio, e questo è oramai accettato da tutti gli studiosi che si occupano della materia, occorre che ci sia uno spettatore. In pratica l'equazione è territorio+spettatore=paesaggio.

Ma secondo molti non basta ancora, occorre anche che lo spettatore riconosca e si riconosca in questo paesaggio, non necessariamente che lo trovi "bello" (può anzi trovarlo orribile), quanto che lo identifichi non già come "natura", "ambiente" o altro, ma come un insieme coerente di attività umane e matrice territoriale. 
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"Tutto il paesaggio da noi conosciuto come naturale è un paesaggio plasmato dall'uomo: è natura a cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza però distruggerlo in quanto natura" scriveva nel 1973 Rosario Assunto.
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D'altra parte la stessa parola "paesaggio" è relativamente moderna nella cultura occidentale.

Compare tra la fine del '400 e la prima metà del '500 in Francia per indicare un tipo di pittura, detta appunto "paysage"; poco dopo il termine entrerà nell'uso comune anche in Italia. Nei paesi di lingua tedesca si usano termini derivati dalla parola "land" (come Landscape), che è molto più antica di "paesaggio", ma che originariamente indicava solo "una porzione di territorio".

Insomma, noi europei non avevamo nemmeno un termine per definirlo, il paesaggio, figuriamoci averne la consapevolezza. Quella che ad esempio avevano Cinesi e Giapponesi, che da due millenni hanno non solo una parola, ma più parole per indicare questo concetto!
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Ma - per arrivare al punto - date queste considerazioni, un "paesaggio intimo", cioè un dettaglio di territorio, una fronda d'albero come nella foto qui sopra, o una formazione di mixomiceti su un tronco o dei legni portati dal mare (foto più in alto) può davvero essere un "paesaggio"?

Cominciamo col dire che le foto di Eliot Porter - pur magnifiche - difficilmente possono essere considerate paesaggio, se non altro perché non riprendono situazioni in cui sia evidente l'opera dell'uomo, anzi sono decisamente foto puramente "naturalistiche". Questo ovviamente se accettiamo l'idea che possa essere paesaggio solo il "paesaggio culturale", quello curato dall'uomo.

Le mie che vedi qui magari potrebbero anche essere considerate "paesaggistiche" perché i luoghi ripresi - assai meno selvaggi di quelli di Porter - hanno impresso "il segno dell'uomo", anche se apparentemente invisibile: il tronco con i mixomiceti è stato tagliato, i legnetti portati dal mare e la costa in erosione sono frutto delle attività umane, e gli alberi nella forra sono sopravvissuti a operazioni di taglio che hanno alterato il bosco circostante.
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Naturalmente il termine "paesaggio intimo" è solo un aggettivo creato per descrivere fotografie che non sono solo naturalistiche e nemmeno solo di "landscape". Ma è interessante notare quanto il termine paesaggio sia sfuggente, e spesso utilizzato a sproposito. Anche se, come osserva Assunto, in effetti è oramai impossibile - almeno in gran parte d'Europa - trovare un luogo in cui l'azione dell'uomo non sia giunta. Dunque se la longa manus della civiltà è giunta ovunque, ogni luogo è anche - per questo aspetto - un paesaggio? Forse, chissà.

Oltretutto la fotografia afferma in modo indiscutibile la presenza di uno spettatore, il fotografo stesso, ed è dunque difficile non notare che l'equazione iniziale sia perciò rispettata in pieno.

Ma non solo: se ab origine il termine "paesaggio" si riferiva a territori comunque antropizzati, oggi si tende ad accettare una definizione meno restrittiva, e infatti nei concorsi di fotografia naturalistica (come quello organizzato dalla BBC o il concorso di "Asferico"), nella categoria "paesaggio/landscape" partecipano foto di luoghi incontaminati e selvaggi (apparentemente, almeno) in cui non debbono esserci - da regolamento - evidenze della presenza umana. 

Un bell'impiccio, su cui tornerò sopra. Intanto continuerò a usare il termine "paesaggio intimo" (Intimate Landscape) per immagini come quella delle foglie di farfaraccio riprese all'infrarosso (foto qui sopra), scattata "entrando" nella micro-foresta creata da queste piante. Davvero mi sembrava di aggirarmi in una sorta di Amazzonia in miniatura: se fossi stato una formica, di certo l'avrei trovata incombente come un per noi un bosco di sequoie!

Se sei interessato ai temi della fotografia di paesaggio, ti ricordo il mio blog dedicato a questa tematica, Locus In Fabula!
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Navigare nell'archivio digitale

17/8/2020

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I profeti di sventura hanno previsto da tempo la fine dei CD e dei DVD: non nel senso che usciranno dal mercato (questo è già praticamente successo) quanto per il fatto che i dati in essi immagazzinati andranno perduti, perché il disco tende inevitabilmente a degradarsi.
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Quattro, cinque anni, massimo dieci, così ho letto in varie riviste e siti. Dopo di che il DVD diventa un grazioso dischetto argentato utile solo come specchietto spaventapasseri nell'orto.

Perciò, puoi ben comprendere, mi sono accostato ai vecchi DVD di dodici, tredici, addirittura quattordici o quindici anni fa con una notevole apprensione. Su di loro, infatti, avevo contato per traghettare nel futuro i miei file RAW e ora mi serviva utilizzarli, per un progetto che dura da allora. Fino ad oggi pensavo di utilizzare i file già lavorati, ma poi mi son reso conto che potevo svilupparli digitalmente molto meglio, e volevo ripartire da zero. D'altra parte non è per questo che conserviamo i file RAW?
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Con calma, ho collocato nel lettore (si, ho un PC con ancora quel buffo affare che legge i "dischi") una quindicina di DVD con centinaia di file RAW archiviati, temendo di veder comparire sul monitor un messaggio stile "amico, non si legge una cippa", ma ovviamente più brutale.

E invece... miracolo! Tutti i DVD, anche i più vecchi, hanno funzionato alla perfezione. Ero salvo. Allora ho osato di più, andando per curiosità a riprendere i dischetti del 2003-2004, in pratica i primi che ho registrato quando sono passato al digitale.

Idem, funzionano ancora tutti. Magari sono stato fortunato, ma mi sembra una buona notizia anche per chi sta trasferendo tutti i dati archiviati nei DVD su hard disk esterni. Che poi, a dirla tutta, anche questi ultimi, secondo la vulgata, non sono certo eterni e il rischi di "crash" è sempre dietro l'angolo.
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Noi fotografi viviamo con angoscia 'sta faccenda dell'archiviazione e dell'obsolescenza (più o meno programmata) dei macchinari, dei files e anche dei softwares.

In effetti pensiamo sempre di dover affidare all'eternità le nostre opere, anche se spesso - confessiamolo - non ne varrebbe la pena. Non parlo delle foto ricordo (per definizione queste dovrebbero servire a sfidare i secoli, almeno nelle nostre aspettative), parlo delle fotografie creative o comunque più personali. La verità è che oggi la mole di fotografie prodotte è tale che difficilmente ce ne saranno molte che potranno sopravvivere. Col tempo anche la "nuvola" sarà sovraccarica e arriverà il momento in cui una gran quantità di foto dovrà andare al macero.Non è detto che sia un male, sebbene questo provochi una certa sofferenza, a pensarci bene.E in effetti è sempre successo, anche se con numeri assai più ridotti.

Comunque sia, sistemate le foto digitali recuperate dai DVD, ho avuto anche necessità di riprendere in mano alcune foto analogiche. Anche molto (ma molto) più vecchie dei file digitali.
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Beh, tutta un'altra storia: con i negativi problemi non ce ne sono e a meno di gravi errori nel fissaggio e nel lavaggio, sono praticamente eterni (beh, quasi). Oltretutto trasportandoli in digitale possono essere utilizzati sempre con la tecnologia più recente, pur rimanendo un supporto di archiviazione piuttosto stabile, sebbene ingombrante.
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Anche nel caso di negativi e diapositive si sostiene che la loro durata sia limitata da mille fattori ambientali e casuali, ma per esperienza direi che sono comunque più duraturi di qualsiasi altro supporto l'uomo abbia sinora inventato, anche se quelli più recenti, come i DVD per l'appunto, non sono stati ancora testati oltre i vent'anni o giù di lì. Insomma, vedremo.

Però, chi è che in casa non ha negativi vintage? Io ne ho alcuni degli anni '20 del secolo scorso. Certo, si graffiano, possono prendere fuoco, strapparsi, fondersi, autodistruggersi, ma ho l'impressione che un grumo di pixel sia molto più instabile e delicato di un bello strato di grani d'argento su acetato.

​Ma magari mi illudo, chissà.
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Lo Zen e l'arte di costruire fotocamere

9/8/2020

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Va bene, faccio un po' di "outing": io a costruire "cose" sono una frana (e a ripararle sono anche peggio). Dunque sembrerei proprio la persona sbagliata per realizzare un "instructable" in cui spiego per filo e per segno come costruire una fotocamera, stenopeica in questo caso. Figuriamoci.
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Non che non ci provi a far le cose per bene, sia chiaro. Anzi, sono intriso di spirito Zen e mi metto lì con calma, deciso a realizzare qualcosa di cui l'Universo stesso andrebbe fiero. Il tempo è annullato, così anche fretta. Ma niente, alla fine è sempre un disastro: almeno a vedersi, perché poi, per fortuna, queste fotocamere orrende funzionano e detto tra noi è una bella consolazione.

Tanto fotografo il più delle volte in luoghi solitari, dunque nessuno vedrà i miei sgorbi!

Ad ogni modo, stavolta avevo deciso di fare le cose "ancora più bene". Purtroppo non sono molto attrezzato: ad esempio non ho una sega elettrica, che permetterebbe di tagliare il legno con precisione. Debbo arrangiarmi con cutter e traforo, il che esclude legni spessi e pregiati come il "compensato marino", ideale per costruire fotocamere stenopeiche perché - oltre a essere molto bello - non si "imbarca", cioè risulta stabile a livello dimensionale. Per lo stesso motivo, ma anche per ragioni di ecosostenibilità, è bene dimenticarsi legni tropicali o particolarmente costosi come il noce.
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Confesso che quando intendo costruirmi una fotocamera stenopeica di grande formato, il più delle volte ricorro al cartoncino rigido, facile da tagliare e incollare, anche se non proprio solidissimo. Ma stavolta no, volevo qualcosa di meglio.

Il progetto prevedeva di realizzare una fotocamera 9x13 cm, in modo da utilizzare la metà di un foglio di carta fotografica BN del formato 13x18 cm. Dunque ci voleva un compensato abbastanza sottile, tipo 5 mm, visto che l'insieme era piuttosto compatto. Ma poi come lo avrei tagliato con precisione? Già prefiguravo disastri.

Un giorno però, mi capita tra le mani una cassetta di legno, di quelle in cui nei supermercati vengono venduti mandarini o albicocche "al chilo". In verità stavo per buttarla, quando ho notato che il compensato di cui era fatta - sottile e grezzo, davvero bruttissimo - era decisamente morbido e facile da tagliare. Eureka! Ecco il legno, oltretutto riciclato, facile da tagliare e da montare, che mi serviva!
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Con mio dispiacere ho scoperto poi che il legno era non solo pieno di fibre e piuttosto restio ad essere tagliato con il cutter, ma anche insufficiente alle mie necessità, motivo per cui la mia 9x13 cm è diventata una 8x12 cm, che è pure 2:3, dunque meglio (bisogna sempre far buon viso a cattivo gioco).

Sudando e sbraitando - ma in modalità Zen, s'intende - alla fine ottengo tutti i miei pezzi, assolutamente precisi... ehm, insomma, abbastanza precisi. Con la colla vinilica e alcune spille riesco a montare i due gusci, uno rientrante nell'altro, con la parte anteriore leggermente più larga per creare il battente a tenuta di luce. Inserendo il foglio nel guscio più grande, quando si chiude la fotocamera il guscio più piccolo fa da "pressapellicola" e tiene fermo il foglio, come nella Ilford "Obscura", una fotocamera pinhole che però costa quasi cento euro. La mia invece costa... niente.
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Scopro presto che il legno è talmente diafano che lascia passare la luce per trasparenza, così oltre a dipingere di nero opaco l'interno, rivesto l'esterno con nastro telato, anche per nascondere le scritte stampate sulla cassetta della frutta, sebbene facessero un interessante effetto "kitsch".

Con due piccoli magneti e un pezzetto di latta creo l'otturatore. Il foro stenopeico lo realizzo da me (0,20 mm circa). Visto che la scatoletta è spessa 37 mm, il diaframma è circa f/180.

​C'è da dire che dato il formato del negativo, la mia fotocamera è molto grandangolare (corrisponde a circa un 16 mm sul 135) e, come scopro portandola sul campo, è anche mooolto nitida, nei limiti di una pinhole. Brutta è brutta, lo so, ma io già l'adoro, manco fosse una Hasselblad!
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Per chi si chiedesse a cosa servono i due elastici, è il modo in cui si riducono i "light leaks", le infiltrazioni di luce. Ho fissato una sottile guarnizione gommosa sul bordo e quando gli elastici premono i due gusci uno contro l'altro la tenuta è perfetta. Con un pezzetto di nastro biadesivo ho anche fissato una livella a bolla sulla parte superiore, mentre per montare sul treppiedi la fotocamera utilizzo un comodo morsetto di quelli per smartphone, acquistato per 5 € su ebay.

Anche se è ovvio, ti ricordo che le foto che illustrano l'articolo (a parte quelle della fotocamera stessa) sono state scattate con il mio gioiellino (ehm...).
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Giocando con lo scanner (Scanography e dintorni)

4/8/2020

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A dire il vero avevo pensato a questo post durante il "lockdown", per motivi che a breve ti sembreranno ovvi, ma poi il tempo è passato e dunque ne parlo ora. In effetti è valido anche come "gioco" (serio) estivo.

Si tratta infatti di un "divertissement" fotografico che permette di creare immagini "cameraless" in modalità digitale. Le tecniche "senza fotocamera" come il Lumenprinting, infatti, in genere vengono realizzate grazie a superfici sensibili analogiche, quali la carta fotografica Bianco e Nero. Ma se non vogliamo sbatterci troppo, in nostro aiuto viene lo scanner
, proprio quello piano, utilizzato per digitalizzare documenti e primo accesso al mondo digitale dei fotografi di vent’anni fa, quando già esistevano i computer casalinghi ma non le fotocamere digitali. Anch’io le prime foto “digitali” che ho “postprodotto” le ho ottenute scannerizzando delle semplici stampine 10x15 cm da negativi a colori.
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Bene, lo scanner – acquistabile oltretutto a prezzi davvero convenienti – può essere la nostra superficie sensibile virtuale, con cui realizzare “fotogrammi” di altissima risoluzione e dalla caratteristica resa, secondo la tecnica detta Scanografia.

Il sistema più semplice e ovvio è collocare un soggetto sul vetro dello scanner e avviare la scansione. Visto che la “profondità di campo” dello scanner è molto ridotta (in fondo deve riprodurre soggetti piatti!) le immagini così ottenute sono perfettamente a fuoco nelle parti che aderiscono al vetro e via via più sfumate nelle parti più distanti; lo stesso avviene con la luce, che ricorda quella dei flash anulari, con una rapida caduta della luce nelle parti più lontane dal vetro. Tutto questo contribuisce a creare un’iconografia tipica, che può essere sfruttata in senso creativo.
​

Ci sono molti fotografi – soprattutto di fiori e di piante – che hanno fatto dello scanner il proprio strumento fotografico d’elezione, a volte esclusivo, con risultati molto pittorici e decorativi. Ellen Hoverkamp è ad esempio una fotografa specializzata nel creare illustrazioni botaniche per l’editoria, tutte realizzate grazie allo scanner.
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Ma vediamo insieme come fare. La prima cosa da osservare è che, visto che si deve tenere aperto lo scanner, è importante collocare un cartoncino nero (o bianco) al di sopra del soggetto, per uniformare lo sfondo. Fai in modo di tenere a una certa distanza il cartoncino (o anche un pezzo di stoffa, o altro). La soluzione più pratica è ricorrere a una scatola delle dimensioni dello scanner, dipinta all’interno di nero opaco.


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Puoi collocare il tuo soggetto sul vetro con sopra la scatola ed eseguire la scansione, seguendo le istruzioni del tuo scanner ed utilizzando il software che viene fornito con lo stesso. Conviene eseguire un’anteprima per verificare che sia tutto a posto. E’ particolarmente importante fare in modo che sia il soggetto che il piano di vetro dello scanner siano ben puliti, in quanto la scansione evidenzia ogni pelucchio o residuo, il che ti costringerebbe poi a un lungo lavoro si “spuntinatura” via software.
Come esempio, ho scelto di eseguire una scanografia di un mazzo di fiori di lavanda. Una volta eseguita l’anteprima il risultato è più o meno questo.
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Considera che nel mio caso lo scanner è della Epson (un V37), e dunque il software potrebbe apparire differente. Ma grossomodo i comandi sono sempre gli stessi. Imposta una risoluzione alta per avere più dettaglio (a 600 dpi la foto è già di 35 megapixel!) e salvala in TIF. Purtroppo gli scanner non salvano in formato RAW, dunque il TIF è la soluzione migliore, meglio se a 16 bit (48 bit totali, sui tre canali RGB).

Salvata la foto, dovrai postprodurla per convertirla in bianco e nero (nell'esempio qui sotto ho usato Lightroom), procedendo come faresti con qualsiasi altra foto. Noterai subito che comunque l’aspetto complessivo della foto è particolare: in questo consiste in fondo l’interesse di questa tecnica. Ci sarà sicuramente da togliere qualche granello di polvere, aumentare il contrasto, scurire localmente il nero dello sfondo e schiarire il soggetto, in modo che quest’ultimo si stagli netto, sebbene illuminato da una luce morbida e avvolgente.
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Ora non ti resta che passare alla conversione. Nell’esempio qui sotto ho deciso di convertire la foto in Bianco e Nero e applicare anche un po’ di “split toning”, che credo si adatti al soggetto (seppia+ciano), ma ovviamente è questione di gusti.
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Il risultato finale , sebbene il soggetto lo abbia scelto solo per fare una dimostrazione, mi piace molto. Con un po’ di cura e attenzione è possibile ottenere delle immagini davvero valide.
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A parte piante e fiori, ideali perché generalmente colorati e sufficientemente piatti, puoi scansire praticamente qualsiasi soggetto. Con quelli molto spessi, otterrai delle illuminazioni strane, il che dovrebbe accendere la scintilla della tua creatività.
Cercando in casa ho trovato una statuetta che riproduce un’antichissima divinità della Sardegna, e mi son divertito a scansirla e poi convertire la foto in BN.
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Come vedi, la luce l’ha come “affettata” con sezioni di luminosità diverse, sottolineandone alcuni aspetti (il volto, il grande seno, le gambe) e restituendo un’immagine che non è la mera riproduzione dell’oggetto iniziale che, anzi, viene quasi trasfigurato e reso irriconoscibile. Spero che tu inizi a intravedere le possibilità creative che tutto questo può offrirti!
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Visto che lo scanner non “scatta una foto” del soggetto, ma lo scansisce riga per riga, è anche possibile muovere il nostro soggetto, creando distorsioni ed effetti interessanti. Non è facilissimo creare delle distorsioni accettabili, ma con un po’ di tentativi alla fine si inizia ad avere il controllo anche di questa tecnica.

Nell’esempio qui sotto ho fatto partire la scansione (senza la scatola dipinta di nero, ovvio) e ho spostato la statuetta mentre avanzava la scansione. Come vedi, la statuetta è irriconoscibile. Per la foto qui sotto mi sono limitato a ruotare parzialmente la statuina durante la scansione, e il risultato la fa apparire come ammorbidita, quasi più “viva”.
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Con pochi movimenti e un po’ di pazienza puoi ottenere innumerevoli versioni dello stesso soggetto. Già che c’ero – e visto che anche a me la faccenda ha preso la mano – ho collocato un’altra statuetta, del Buddha stavolta, e l’ho utilizzata per creare un’altra serie di distorsioni, come quella qui sotto.
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O come questa variante.
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Insomma, mi sembra che il concetto oramai sia chiaro. Il tuo scanner può diventare quella “superficie sensibile” con cui Man Ray, Moholy-Nagy e molti altri hanno sperimentato per anni, creando un’iconografia non solo riconoscibile, ma molto efficace nel rappresentare le loro idee e lo spirito di un’epoca. Come sempre, ti consiglio di non esagerare: il successo di simili sperimentazioni, e l’esperienza di Man Ray lo dimostra, consiste nel saper controllare l’immagine grazie al buon gusto, e magari avendo qualche idea in testa.
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Inizia “giocando”, e anche esagerando, per capire “come funziona” ma, una volta compreso il meccanismo, ti consiglio di fare in modo che le tue elaborazioni siano misurate e armonizzate al soggetto. Dunque non deformazioni “tanto per”, ma realizzate con cura e intelligenza. Buon divertimento!

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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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