MARCO SCATAGLINI
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Le Action Cam e la fotografia "seria"

30/6/2021

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Generalmente le "Action Cam" sono considerate strumenti per pazzi che si gettano dagli aerei col paracadute o che fanno acrobazie sulla neve, buone per fare video, magari anche di alta qualità, ma comunque di un certo tipo. Probabilmente sono pochi i fotografi che le utilizzano come fotocamere "serie", insomma da inserire tra i propri strumenti di lavoro.
Beh, io sono uno di loro: mi piace un sacco avere questa microscopica fotocamerina (pardon: videocamerina...) con cui realizzare immagini ultragrandangolari (tutte le Action Cam sono dotate di obiettivi estremi, in genere fisheye), magari anche in condizioni difficili, in acqua, o sotto la pioggia.

Ovviamente, per ottenere buoni risultati, occorre che la Action Cam sia di buona qualità e permetta di salvare i file in RAW...
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In tal modo è possibile ottenere fotografia di qualità sorprendente, considerando le dimensioni della fotocamera e soprattutto del sensore. Ad ogni modo, ho deciso di registrare questo breve video in cui faccio il punto su questi "oggetti", e su come utilizzarli appunto come vere e proprie fotocamere, sebbene nulla vieti di utilizzarle all'occorrenza per divertirsi in vacanza o durante una gita in barca.
Non ci sono, sul mercato, molti modelli di Action Cam che salvino il file nel formato RAW (in genere .dng, Digital Negative, anche se modificato, come nelle GoPro). Diciamo che spesso questa caratteristica (che evidentemente non è utile per il marketing) nemmeno viene citata, perciò si resta col dubbio. Personalmente, ho verificato che di sicuro ci sono almeno due modelli della SJcam, tra cui la mia (SJ8 Pro), e diversi della GoPro.
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In particolare, le Action Cam che montano il sensore Sony IMX spesso hanno al possibilità di avere il RAW: ad esempio la SJ8 Pro e la Sj8 Plus, mentre non ha il RAW la SJ8 AIr, che è la versione economica della gamma. La Sj8 Plus consente di avere un'ottima Action Cam con meno di 200 €, il che non è affatto male, considerando anche la qualità dell'ottica.
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Nella gamma GoPro hanno il RAW, generalmente, i modelli indicati come "black" come si evince anche dal sito del produttore. Certamente costano di più delle SJcam, ma hanno anche un amarcia in più. Comunque con (molto) meno di 400 € si può avere una fotocamera di alto livello che permette anche di acquisire filmati 4k professionali e che ha una protezione dall'acqua anche senza la custodia impermeabile, cosa assai comoda.
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Forse tra tutte le GoPro quella che ha il miglior rapporto costo/prestazioni è la Hero 8 Black, ma ognuno potrà studiarsi le caratteristiche e in caso decidere di conseguenza.

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Niente di antico sotto il sole

24/6/2021

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Quando viaggio, faccio due tipi di fotografie, quelle solite, che fanno tutti, e che in fin dei conti mi interessano poco o niente, e poi le altre, quelle a cui veramente tengo, le sole che considero "mie" davvero (Luigi Ghirri, 1973)

Questa frase mi sembra molto adatta alla stagione estiva, quando tanti - anche appassionati di fotografia - si metteranno di nuovo in viaggio, stante il rallentamento della pandemia. E credo che per molti, che si reputino fotografi esperti o principianti assoluti, l'idea di distinguere queste due categorie di foto sia un fatto a cui magari si pensa di rado, tuttavia assolutamente necessario.
Potremmo dire che in fondo quel che ci interessa davvero sia identificare cosa renda alcune fotografie delle semplici immagini ricordo di una vacanza, e cosa invece possa farci distinguere "le altre", quelle che sentiamo davvero nostre.
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Ecco, io credo che il libro di Ghirri, "Niente di antico sotto il sole", ripubblicato due mesi fa da Quidlibet, serva soprattutto a identificare un possibile percorso di consapevolezza, che pian piano ci aiuti a rendere tangibile la distinzione di cui ho appena parlato che, a pensarci bene, non è poi così immediata.
​
Infatti, il fotografo consapevole e coinvolto in progetti magari abbastanza strutturati, sa bene che non basta di certo che una foto sia molto curata per essere diversa da una normale foto di documentazione o per l'album dei ricordi. Io, ad esempio, curo molto sia le foto che scatto come documentazione delle mie uscite, sia quelle che penso di utilizzare nei miei progetti e che reputo quelle "giuste". All'apparenza, dunque, non sono poi così diverse. E aggiungo: a volte una foto può passare da una categoria all'altra, se un moto interiore (diciamo così) lo richiede. ​Perciò come distinguerle?
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Ghirri, che ha costruito una carriera di successo che lo ha fatto entrare di diritto nell'empireo dei "maestri" grazie a fotografie all'apparenza assolutamente "normali", si interroga spesso, e con insistenza, sulla natura della fotografia, su cosa sia davvero una fotografia creativa e cosa invece non lo sia. E lo fa sia in generale, con appassionate riflessioni diciamo filosofiche, ma anche ripensando al proprio lavoro, a dove portarlo, cosa "farne".

​"E' bene ritenere insignificanti tante cose e significante tutto" scrive " e così oggi il mio rispetto per le cose irrilevanti sta assumendo proporzioni gigantesche". Alla fine il ruolo del fotografo è quello epifanico, di rivelazione dell'esistente, soprattutto di ciò che è banale, quotidiano. Dunque solo le foto che rivelano qualcosa della realtà sono foto valide.
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Per Ghirri "la fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell'occhio che ferma il mondo fisico, ma un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un'infinità di mondi immaginari". Così - e oggi questo è di eccezionale attualità - la vera fotografia che genera meraviglia, che racconta mondi di fiaba non è quella colorata e perfetta che vediamo spesso sulle riviste oppure online, ma per assurdo quella che rivela forme nuove e mai viste anche solo guardando una strada di campagna nell'assolata pianura Padana.

Così "deve essere qualcosa di strano se una casa con le stalle di fianco e un albero davanti ricompongono e risvegliano una visione di sopite inquietudini, se le finestre chiuse delle case di qualche borgata rimandano a chissà quali segreti e fantasmi dispersi" e questo avviene perché alla fine "i luoghi, gli oggetti, le case o i volti incontrati in questi paesaggi aspettano semplicemente che qualcuno li guardi, li riconosca, e non li disprezzi relegandoli negli scaffali dello sterminato supermarket dell'esterno".
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La cosa strana di questo libro di Ghirri - che ho divorato in poco tempo nemmeno fosse un romanzo - è che davvero a volte fa l'effetto di entrare nella testa del fotografo: si inizia a "vedere" e percepire il mondo con i suoi occhi, con i suoi sensi. E' un po' come nel film del 1999 "Essere John Malkovich" - che forse qualcuno ricorderà - in cui il protagonista si ritrovava nella testa del noto attore, appunto percependo la realtà da dentro qualcun 'altro!
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Se la prima parte del libro è magari un pochino più lenta, visto che sono scritti del periodo più "impegnato" del fotografo, man mano i testi si sciolgono, e non solo si percepisce appunto il modo in cui viveva la fotografia Luigi Ghirri, ma si può anche comprendere più a fondo la vicenda culturale e in parte sociale di una certa fotografia di paesaggio, che proprio grazie a Ghirri e ai suoi amici ha svecchiato il panorama nazionale creando i presupposti per un approccio meno retorico e polveroso a questo genere fotografico.

Insomma, un libro per appassionati che credo sia interessante anche per chi non apprezza in modo particolare il fotografo emiliano, perché si tratta comunque di un sostanzioso sguardo su un'era culturale che da lì a non molto avrebbe iniziato a dissolversi, sino all'avvento "catartico" del digitale.

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La "nuova" fotografia di Paesaggio

22/6/2021

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In quanto fotografo paesaggista, sono ovviamente un attento osservatore delle dinamiche in corso nella fotografia naturalistica in generale, e di landscape in particolare. Leggo, mi informo, rifletto. E rimango sempre meno convinto delle strade che la fotografia sta percorrendo, e di cui hanno parlato molti commentatori, ultimo in ordine di tempo il bravo Stefano Unterthiner. Il cahier de doléances è ben noto: saturazione eccessiva, effettacci più o meno spettacolari, foto vivide ma prive di idee. 
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Mi torna sempre in mente la frase (profetica) di Ansel Adams: "non c'è niente di peggio dell'immagine nitida di un'idea sfocata". Oggi più che mai l'attenzione viene posta sull'aspetto prettamente tecnico dell'immagine, ed è un proliferare di luci incredibili - indiscutibilmente belle - ma che per questo oramai divengono banali. Infatti, il vademecum del perfetto fotografo di paesaggio sembra essere questo:
  • acquista una EOS 5D o una D850 o una Sony A7 con zoom supergrandangolare ultraluminoso;
  • acquista filtri digradanti ND 1,2,3, soft e hard grad, meglio se della LEE (spesa complessiva intorno ai 500 €) o al limite Cokin ma serie Z;
  • scegli la location più remota, spettacolare, incredibile che conosci, prendendo spunto dagli altri fotografi, ovviamente (leggo che negli USA ci sono location dove se non arrivi in tempo, non hai fisicamente lo spazio per collocare il cavalletto: ma si sa, un bel posto merita qualche sgomitata e, in Italia, qualche "ma vaffa..."). A questo proposito mi chiedo se non converrebbe al governo islandese mettere una tassa sui blocchi di ghiaccio della laguna di Joculsarlon, rigorosamente fotografati sullo sfondo tempestoso (che non manca mai) e le acque agitate (ho smesso di contare le foto identiche con lo stesso soggetto, sono centinaia): e di esempi ce ne sono molti altri (qui vicino a me: le colline del Chianti con nebbia e casale sul vertice...);
  • arriva sul posto prima dell'alba o poco prima del crepuscolo, attendi la luce giusta (molto colorata, ma se non lo è tanto, puoi usare il "metodo LAB" con Photoshop) e scatta.
Buona parte delle foto vincitrici del concorso Landscape Photographer of the Year (che illustrano questo post) sono fatte così, ad esempio.
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Sono appena emerso dalla lettura di una rivista (esiste solo in versione elettronica) dedicata alla fotografia di paesaggio. Molto ben fatta, molto curata: non a caso la compro con una certa regolarità. Però, al termine della lettura, resto sempre un po' confuso. All'inizio non capivo, poi mi sono reso conto che tutte le foto (e dico tutte tutte) sono cromaticamente esagerate e realizzate con uno scopo ben preciso: attrarre quel wow factor che è diventato il vero premio di ogni fotografo (ma non vale su facebook: lì basta la foto sfocata del tuo gatto a farti degli ammiratori...). 

Chiunque frequenti la natura sa bene quale spettacolo siano le albe e i tramonti su questo pianeta, specialmente con le nuvole in cielo e qualche fenomeno interessante (temporali, nevicate, o altro). Ma io la natura così colorata non l'ho mai vista. Mai. Se non nella mia fantasia: e va bene che il fotografo dev'essere anche uno che sa immaginare, ma con moderazione! Soprattutto, con dolore, debbo annunciare che esiste la luce morta.
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Cos'è la luce morta? Tutta la luce (cioè la maggioranza di quella disponibile) che non sia l'alba e il tramonto. Interi racconti di esperienze fotografiche iniziano con il "risveglio all'alba in una tenda, per catturare quell'attimo magico" e terminano con lunghe attese per il tramonto "più infuocato che abbia mai visto". E nel mezzo il nulla.

Senza nuvolette rosa, gialle o indaco, senza raggi solari che splendono dietro nuvole color cobalto, senza la tavolozza incredibile che la natura sa stendere sulla sua tela, la fotografia non si può fare. Cieli grigi e luci piatte, soli estivi che allo zenit proiettano ombre più dure della pietra, e tutte le altre luci "banali" non servono a fotografare.

Nemmeno una buona, onesta luce del giorno in inverno, che pure non è niente male, incuriosisce il fotografo. Finita l'alba, si fa colazione, ci si riappisola, si attende freneticamente la sera. Al più, si fa qualche macrofotografia, o si scelgono le location per gli scatti serali. Oramai "la luce è brutta". Ma la natura offre almeno 7-8 ore di luce (in certi periodi anche 12...), e mi chiedo se sia possibile raccontarla limitandosi a quelle due orette mattutine e serali. Ve l'immaginate un fotografo di reportage che chiede ai combattenti di una delle mille guerre in giro per il mondo di attendere la sera, in modo da avere la luce migliore, prima di continuare a spararsi? E se volete fare "street photography", dubito che l'alba sia un buon momento, e anche il tramonto raramente lo è.

Così chi ci accusa, a noi naturalisti/paesaggisti, di essere distaccati dalla realtà e di non raccontarla davvero, ahimé, qualche volta ci azzecca. 
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L'infedeltà cromatica

13/6/2021

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Una delle cose belle di lavorare in Bianco e Nero - come faccio oramai nella maggior parte dei casi - è di non dover star troppo lì a pensare alla fedeltà cromatica delle proprie immagini. Una faccenda che toglie il sonno a numerosi professionisti, che debbono garantire al cliente una resa cromatica fedele e stabile nei vari passaggi che un file subisce (fotocamera, computer del fotografo, computer della tipografia, con molti passaggi nel mezzo). 

C'è da dire che poi ci sono altri professionisti che grazie alle proprie competenze hanno costruito carriere "gloriose" e business importanti, basti citare Marianna Santoni, definita "divinità di Photoshop" e della gestione digitale del colore. Ma insomma, questa cosa della fedeltà cromatica è davvero una faccenda importante, e lo è in effetti da prima del digitale: semplicemente, un tempo, non si poteva ottenere una fedeltà davvero assoluta - se non a costo di lavorazioni estremamente complesse - e dunque ci si faceva meno caso. Ma oggi, che invece si può, la si pretende.
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Per ottenerla, appunto, i più ricorrono a dei colorimetri appositi, detti anche Spyder da quando la Datacolor (azienda leader nel settore) ha così chiamato i propri prodotti. In pratica li si fissa al monitor, si lancia l'apposito programma e il sistema crea un "profilo" colore da caricare e utilizzare sempre in modo da avere tonalità neutre e luminosità e contrasto corretti. Il profilo si può esportare e inviare insieme alle foto in modo tale che chi le guarderà su un altro monitor le vedrà più o meno uguali.

Ora, detto così sembra facile, in pratica si tratta solo di spendere dei soldi per acquistare lo "spyder" (ce ne sono modelli che vanno da circa 80,00 € in su)... e invece no, perché poi ci sono molte "macchine" coinvolte nell'intera procedura, così esistono profili per la stampante e addirittura profili per i diversi tipi di carta. Per non parlare dei profili dello scanner. Tuttavia, se non si è maniaci della tecnologia e "nerd" della precisione cromatica, diciamo che grossomodo potremmo anche esserci.

Io, a dire il vero, alla questione ho sempre dedicato poco tempo: ogni tanto (ma tanto, mannaggia) tiro fuori il mio "ColorVision" (sempre Datacolor) ed effettuo la calibrazione, poi me ne dimentico. Sempre fatto così e mai avuto problemi. Poi oggi ci sono monitor che arrivano già calibrati, ti installano automaticamente il profilo e alcuni hanno anche un sistema di autocalibrazione, sebbene siano ovviamente modelli abbastanza costosi, come gli Eizo ColorVision.
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Francamente il mio Benq (un modello fatto apposta per grafici e fotografi) - che pure costa (molto) meno dell'Eizo - se la cava comunque alla grande. Ma insomma, non è che in questo post voglia discettare di come effettuare la calibrazione o suggerirvi trucchi e trucchetti: online trovate molti consigli (soprattutto per farvi spendere un sacco di soldi) dati da gente ben più esperta di me in questo campo: io computer e monitor li uso e basta, ma restano grandi misteri insondabili.

Inoltre, lavorando principalmente in Bianco e Nero posso anche essere meno accorto alla precisione cromatica (ma non a luminosità e contrasto, s'intende)

Quel che mi piaceva sottolineare è invece un aspetto su cui ho trovato davvero poco online - per non dire niente - il che mi pare strano in quanto il fenomeno è evidente e anche altri amici e colleghi me ne hanno parlato. E cioé il fatto che la stessa foto, se "vista" all'interno di software diversi, appaia appunto diversa. Magari con colori leggermente diversi, o anche con contrasto diverso. E parliamo di foto che sono all'interno dello stesso computer e osservate sullo stesso monitor.
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Guarda lo screenshot qui sopra: si tratta della stessa foto aperta nel normale "viewer" di Microsoft (a sinistra) o in NX studio di Nikon (a destra). Puoi notare chiaramente che la foto a sinistra è meno contrastata e con neri più slavati di quella di destra!

Ora: dobbiamo pensare che ogni software abbia anche un proprio profilo colore? No, credo che sia principalmente una questione di impostazioni, solo che non tutti i software - specialmente quelli generici - permettono di modificarle.

Innanzitutto occorre prestare attenzione anche al CMS, Sistema Gestione Colore presente in diversi software (ma il visualizzatore di Microsoft ad esempio non lo fa modificare) e fare in modo che sia coerente con quello del "sistema fotografico".

In fotografia in genere usiamo lo spazio colore Adobe RGB (1998), mentre diversi software utilizzano sRGB, e questo può già cambiare qualcosa. Per il resto, francamente, non so darmi una spiegazione completa del fenomeno, che comunque mi fa abbastanza impazzire, perché la foto cambia a seconda di come la apro, riempiendomi di dubbi.

Per la cronaca, quando stampo le foto - anche nei libri - mi fido di più di Lightroom, che non mi ha mai tradito, ma credo che ognuno - col vecchio, classico sistema, che adoro, dei tentativi ed errori - troverà il proprio sistema per ottenere una fedeltà sufficiente. Sempre ricordando che se la foto è buona, cosa importa se il nero non è assoluto o il cielo è leggermente magenta?
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Perché non mi sono innamorato delle foto di Koudelka

8/6/2021

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Nello scrivere questo post sto violando perecchie delle regole assegnate "a questa parte di universo", almeno dell'universo fotografico. La prima, generale, è: "ma chi te lo fa fare?" a cui segue quella che dice con chiarezza di esaltare sempre i nostri "padri nobili" (specie se viventi), e Koudelka - diciamolo - più che un fotografo è un monumento. Dunque giocoforza i suoi lavori sono monumentali, poi anche straordinari, efficaci, stimolanti, sorprendenti. Niente di meno, per carità, e secondo me è proprio così. Quasi sempre. Poi c'è la regola che dice di evitare di ficcarsi in questioni che possano generare polemiche online a causa della violazione della regola appena citata, per non venir sommersi dai commenti di persone che ti scrivono stupite chiedendoti come sia possibile che la mostra di Koudelka non ti sia piaciuta "da uno a cento, almeno duecento".

"Ma chi ti credi di essere per criticare Koudelka?" è un classico, a cui rispondo sempre che non ho bisogno di idoli e nessun fotografo mi piace sempre e comunque al 100%. Tuttavia mi sentirei ipocrita a non scrivere quel che penso su una mostra importante e nel complesso godibile (mi sto parando per quel che dirò a breve) come "Radici", ospitata presso il Museo dell'Ara Pacis a Roma.
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Ricordo di aver fatto alcune osservazioni sulla mostra "Genesis" di Salgado (che nel complesso però ho amato molto) e ancora qualcuno me lo rinfaccia. Dunque speriamo bene.

La faccenda è questa: chi mi conosce sa che lavoro molto su temi assai affini a quelli della mostra. Fotografo insomma tanti luoghi archeologici e tanti paesaggi. Potrei, anche solo per questo, aver acquisito una certa prevenzione nei confronti di chi "pascola" nel mio stesso campo, fosse pure Koudelka. Ma ho approcciato (oddio che brutta parola) la mostra con il massimo delle buone intenzioni. Le foto viste online mi sembravano promettenti, ma ammetto che lo sono anche i trailer dei film che poi ti deludono.

​Sta di fatto che se guardi ad esempio la foto qui sopra, con quelle due figurine emergenti sulla sinistra, non puoi non pensare che sia una gran bella foto. E guarda anche questa qui sotto: non male, vero?
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Si vede un approccio particolare, "autoriale" che lascia sperare per il meglio. Insomma: è Koudelka!
Pagato il biglietto - ero praticamente solo, ieri mattina - ho cominciato la mia avventura. Ora, noi fotografi abbiamo un viziaccio (tutti, anche quelli che non lo dicono): iniziamo a leggere le foto ficcando il naso a due centimetri dalla stampa. Diamine, una Leica Serie S prodotta appositamente per il fotografo con il sensore nel formato panoramico e per di più con un obiettivo Leitz!

​Ma c'è già qui qualcosa che non quadra: se si decide di stampare le foto in formato enorme (credo 100x300 o giù di lì) dovrebbero essere assai nitide, e molte non lo sono, specie ai bordi. Alcune sono palesemente micromosse, se non mosse e questo - guardando il video proiettato nella mostra - scommetto che è dovuto alla veneranda età dell'autore (nato nel 1938) che non usa il treppiedi ma si fida delle proprie mani tremolanti. Magari - come osservato da alcuni critici e commentatori osannanti - è solo una scelta iconografica, come gli orizzonti storti e le prospettive deformate che aumentano la dinamicità della scena altrimenti troppo statica. Insomma, diamine: è Koudelka!
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Ora, qui debbo ammettere che a me gli orizzonti storti e le linee cadenti in genere mi fanno star male e dunque non faccio testo, ma in alcuni casi trovo una simile scelta comunque opinabile. Tuttavia non è questo o la citata mancanza di nitidezza ad aver rovinato la mia esperienza con la mostra: in effetti stampe di queste dimensioni si guardano stando almeno a uno o due metri di distanza (ma anche di più, se vuoi vederle per intero in uno sguardo), e i difetti si notano poco. Inoltre è ovvio che solo una parte delle ben 150 stampe ne sia afflitta.

Osservo poi che anche le foto più vecchie (dalla fine dei '90 - dunque analogiche - in poi) presentano problemi simili in alcuni casi, e dunque l'attitudine del fotografo a lavorare a mano libera per essere meno vincolato li giustifica. Riconosco anche di aver sempre sostenuto che - per dirla con Cartier Bresson - la nitidezza "è un concetto borghese", e va bene, ma è pur vero che mi riferivo a fotografie di street e reportage, dove cogliere l'attimo e fondamentale, ma nel classico "waiting game" - il gioco dell'attesa - della fotografia di paesaggio, dove dunque si ha tutto il tempo di lavorare con calma, non mi sembra ci sia motivo per non usare un treppiedi, quando necessario, specialmente con macchine pesanti e ingombranti come la Leica S. Ma - sia chiaro - questa è una mia idea, non una verità assoluta.
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Dicevo: non è questo ad aver rovinato la mia esperienza con la mostra. E' stata proprio la mancanza di un approccio davvero autoriale e personale a deludermi, perché di Koudelka è proprio questo che ammiro: il bianco e nero potente, le inquadrature sempre coinvolgenti, gli sguardi, i luoghi, le realtà rese in modo anche spregiudicato. Forse perché ho sempre avuto davanti agli occhi il Koudelka reporter, narratore di storie di zingari e migranti, o anche quello della "primavera di Praga". Non si tratta di avere per forza uno "stile" personale (quello anche Ghirri lo criticava), ma da certi autori un qualcosa di molto personale - magari sarà sbagliato - uno se l'aspetta, insomma a volte quasi lo "pretendo"! E qui (sarà un mio limite) non riesco a vederlo.

Della mostra di Salgado - ad esempio - avevo apprezzato la capacità di rendere in modo egregio la vita degli Indios amazzonici e i contesti ambientali sparsi per il mondo, molto meno le foto più naturalistiche: non perché non ben fatte e curatissime, ma perché "professionali" però poco personali. Arrivo a dire "già viste", sebbene nei portfolio di altri grandi autori.

Ecco, nel caso delle foto di "Radici" trovo che l'approccio non sia particolarmente originale, che l'autore non sia andato oltre l'utilizzo del formato panoramico (nemmeno adatto a tutti i soggetti, a mio parere) e della stampa in formato "mezzo campo da tennis" (anche qui magari parla la mia idiosincrasia per le stampe molto grandi!). Mi sembra manchi anche una forte idea unificante a parte quella di riprendere al meglio i vari luoghi. Se il punto era rendere il concetto di quanto questo nostro passato sia a rischio, non si percepisce molto, non si vedono mai siti "a rischio", anche se nella realtà lo sono, e anche se alcuni poi sono effettivamente andati quasi distrutti, come Palmira in Siria.
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Mi aspettavo scelte coraggiose e innovative o almeno uno sguardo fresco e senza preconcetti, e invece accanto a qualche foto storta, trovo "solo" foto ben fatte, né rigorose come quelle, che so, di Gabriele Basilico, dunque con le linee cadenti ben corrette, ma nemmeno innovative e fuori dagli schemi come quelle, per dire, di Ghirri, Guidi o Fossati. Alla fine, il risultato è di avere una serie di foto tra loro simili - molti dei luoghi fotografati, sebbene sparsi per il bacino del Mediterraneo, sono caratterizzati da ruderi di epoca romana - con tanti mozziconi di colonne, porticati e teatri con scalinate, che inducono una certa noia visiva. Non che manchino i guizzi dell'autore, specialmente quando si concentra sui dettagli, quando lavora con luci e ombre, quando esagera le composizioni e sfrutta le prospettive. Viene da dire che un po' di selezione avrebbe aiutato, ad esempio evitando le foto collocate su delle sorte di "panche rettangolari" a mio parere poco godibili, ma so che anche questo suona blasfemo, come il resto del mio post.
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In conclusione: consiglio la mostra o no? Si, certamente. Innanzitutto a chi è appassionato di archeologia, perché avere tante foto di così tanti siti  è comunque intrigante e molto interessante, e di certo le foto sono tutte più che buone, ci mancherebbe. La consiglierei comunque anche ai fotografi perché c'è sempre molto da imparare dai grandi autori come Koudelka. Ma se sei come me, uno che si aspetta sempre di rimanere a bocca aperta dinanzi ai lavori di certi fotografi che in passato ti hanno già emozionato e meravigliato, allora avvicinati con prudenza a questa mostra: a mio parere (strettamente personale, lo sottolineo tre volte) non è il lavoro migliore del grande fotografo ceco, sebbene contenga parecchie chicche e foto notevoli.

​E ora potete anche insultarmi per aver osato collocare la mia voce fuori dai cori osannanti che ho letto sin qui riguardo questa mostra! ;-)
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Famolo strano: i 10 fotografi più strampalati della storia

5/6/2021

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Si, lo so che in genere quando si pensa a un artista (fotografo o meno) si pensa a una persona come minimo originale, se non del tutto fuori di testa. Quando si vuol sostenere che una persona è un poco matta si dice: "beh, sai, è un artista...", ruotando il dito indice vicino alla tempia. Ma sono luoghi comuni, soprattutto oggi che gli artisti (fotografi o meno) sono a tutti gli effetti degli imprenditori, con tanto di staff, assistenti e avvocati pronti a difendere il copyright. Nella storia della fotografia, comunque, ci sono stati fotografi diventati famosi per la loro originalità, per l'essere costantemente sopra le righe, poco allineati. Eccone un elenco, necessariamente parziale, con alcuni tra i miei preferiti.

Clarence JohnLaughlin (1905-1985) ispirandosi all’iconografia surrealista, realizzò un’intensa serie di fotografie dei monumenti in decadenza del sud degli USA, soprattutto lungo la valle del Mississippi (“Ghosts along Mississippi” del 1948 è il suo libro più noto). Nato a Lake Charles nel 1905, si trasferì successivamente a New Orleans, assorbendo dall’ambiente circostante quelle atmosfere che poi trasferirà in molte delle sue opere, e in particolare nelle foto di architettura.  Si dedicò infatti a un lungo progetto di ripresa delle antiche ville coloniali e schiaviste (quelle classiche, viste in film come “Via col vento”), che nel dopoguerra, sull’onda della modernizzazione, e della speculazione edilizia (ma forse anche dei sensi di colpa storici) venivano abbattute per far spazio a nuovi edifici. Laughlin percorse gran parte del sud statunitense per fotografarle, ricreando atmosfere davvero gotiche. Morì nel 1985 e si fece seppellire in un cimitero di Parigi, in Francia.
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Herbert Bayer (1900-1985) era un artista tedesco piuttosto eclettico: è stato tipografo, grafico pubblicitario, fotografo, pittore, scultore e architetto. Tutte le sue attività artistiche rispecchiano gli ideali del Bauhaus. Ebbe uno stile visivo essenziale e diretto, e utilizzava ampiamente, come i suoi colleghi dell'epoca, il fotomontaggio e l'unione di scritte e fotografie. Fu anche autore di diversi caratteri (font) tipografici. A causa del nazismo, nel 1938 Emigrò negli USA, dove continuò a svolgere la sua attività sino alla morte. Ben prima della nascita di Photoshop, riuscì a creare fotografie visionarie di grande impatto.
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El Lissitzky (1890-1941), pseudonimo di Lazar' (o Eliezer) Markovič Lisickij è stato un pittore, fotografo, tipografo architetto e grafico russo. Esponente dell'avanguardia russa, aderì dapprima alla corrente del suprematismo, con l'amico Kazimir Malevič. Successivamente, insieme ad Aleksandr Rodčenko, si diede alla sperimentazione, unendosi al movimento costruttivista. Adoperò le tecniche del fotomontaggio e del collage, molto spesso a scopo propagandistico. Lavorò a pubblicità e manifesti divulgativi per l'Unione Sovietica durante gli anni dei conflitti mondiali. Nel 1921 si recò a Berlino come ambasciatore della cultura dell'URSS nella Germania. Durante quel soggiorno El Lissitzky si dedicò alla grafica, a Berlino inoltre ebbe modo di frequentare diversi artisti come Kurt Schwitters, László Moholy-Nagy e Theo van Doesburg.

John Heartfield (nome d’arte del tedesco Helmut Herzfeld, 1891-1968), come aderente al movimento Dada, si dedicò al fotomontaggio, spesso con fini di propaganda politica: in fondo, anche lui era dovuto scappare dalla Germania a causa del Nazismo. «John Heartfield è uno dei più importanti artisti europei. Lavora in un campo che lui stesso ha creato, quello del fotomontaggio. Attraverso questa nuova forma d'arte esercita una critica sociale», scrisse nel 1949 Bertolt Brecht. Nel 1950 fa rientro in Germania (dell'Est). Le sue immagini sono sorprendentemente moderne, e realizzate con grande maestria: ricordiamoci sempre che siamo ancora ben lontani dall'utilizzo del computer.
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Man Ray, nato come Emmanuel Rudnitzky nel 1890 a Filadelfia, è considerato uno dei precursori della fotografia contemporanea. Assieme a Lee Miller sviluppa il metodo della solarizzazione (o meglio “pseudosolarizzazione” o effetto Sabattier); con i suoi “Rayographs” offre spunti importanti anche nella fotografia “cameraless”. Secondo la "tradizione" scoprì la pseudosolarizzazione grazie a un errore: accese la luce in camera oscura prima di aver completato lo sviluppo. Secondo alcuni fu un assistente a provocare il "fattaccio" fortunato. Man Ray fu anche pittore e scultore molto apprezzato. Morì nel 1976.

László Moholy-Nagy (1895-1946) fu tra i primi, insieme a Man Ray, a introdurre l’utilizzo in fotografia del “light-painting”, realizzati spesso con parti riflettenti in movimento. Nasce a Bácsborsód, in Ungheria. Nel 1913 studia legge all'Università di Budapest. Nel 1919, dopo aver raggiunto la laurea in legge, parte per Vienna e nel 1920 si trasferisce a Berlino, dove inizia a creare fotogrammi e collage Dada. Durante una personale dei suoi dipinti a Berlino, l'architetto Walter Gropius rimane tanto impressionato dalle sue opere esposte che lo invita a collaborare al Bauhaus di Weimar, dove si trasferisce nel 1925: vi insegnerà fino al 1928, quando torna a Berlino per concentrarsi sulla scenografia teatrale e cinematografica. Nel 1935 scappa dalla minaccia nazista trasferendosi a Londra, e nel 1937 viene nominato direttore del New Bauhaus a Chicago, che chiude dopo meno di un anno. Poco dopo Moholy Nagy fonda la propria School of Design a Chicago (1938) e nel 1940 organizza i primi corsi estivi nell'Illinois. Nel 1941 entra a far parte del gruppo degli American Abstract Artists diventando nel 1944 cittadino americano a tutti gli effetti. Muore il 24 novembre 1946 a Chicago.
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Gjon Mili, fotografo di origini albanesi, emigò negli anni ‘30 negli USA, diventando nel 1937 assistente del professor Harold Edgerton, tra i primi ad usare la fotografia stroboscopica per fermare l’istante (come la goccia di latte che crea una mini-eruzione, o la pallottola che attraversa un mazzo di carte). Gjon Mili si rese subito conto delle possibilità espressive di questa tecnica, utilizzata sino ad allora a scopi scientifici, creando foto sorprendenti, diventando in breve uno dei fotografi americani più noti al mondo, anche considerando che siamo negli anni ‘40, e il mondo ha ben altro per la testa. Nel 1949 Mili fotografò Picasso in una celeberrima serie di “pitture di luce”, in cui davvero fotografia e pittura si toccano, almeno per un istante.

Jerry Uelsmann, nato a Detroit nel 1934, racconta nelle sue foto un magico mondo di pura fantasia, sebbene solidamente radicato nel reale. Uelsmann è certamente un amante delle favole. E’ considerato il più abile manipolatore di immagini fotografiche dell’era pre-photoshop, in grado di unire diversi negativi – come facevano i Pittorialisti - ma con finalità assai diverse. Le foto di Uelsmann appaiono chiaramente “false”, ispirate alla pittura surrealista, e suggeriscono un approccio diverso alla realtà, e in tal modo fanno riflettere sul concetto stesso di “realtà” che ognuno di noi da per scontato.
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Duane Michals, nato a McKesport, in Pennsylvania nel 1932, è considerato tra gli iniziatori di una nuova tendenza nelle arti visive: l’Arte Concettuale o Narrative Art. Il suo libro più noto è Real Dreams, del 1976, in cui scrive:“quello che non posso vedere è infinitamente più importante di quello che posso vedere… i fotografi dovrebbero dirmi ciò che non so”. Per esprimere l’inesprimibile fotografico, Michals ricorre alla fotosequenza (Photo Story): molte delle sue opere sono delle sceneggiature cinematografiche in potenza, benché interrotte da buchi di memoria, da salti logici.

Gordon Matta-Clark, nato nel 1945 a New York e morto nel 1978 a soli 33 anni, ha lavorato sugli edifici. Che non riprende così come sono: li modifica, li taglia, li altera. Scegli vecchi edifici che vanno abbattuti e crea tagli, fori, spaccature, con un lavoro lungo e impegnativo. Poi fotografa il risultato. Chi guarda le sue foto pensa a dei fotomontaggi, che la foto rappresenti qualcosa che non esiste. E invece la forza delle foto di Matta-Clark è che sono incredibilmente reali! Perciò il suo foto-realismo diventa pittoricismo fotografico… 
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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