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Il sistema infallibile per fare foto migliori

19/5/2022

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Lo so cosa stai pensando (e questa azione, il pensare, è l'oggetto di questo post): ora Marco ci darà una lista dei soliti consigli da "professionista", qualche dritta più o meno intelligente per fare foto "migliori" (che poi è anche un termine equivoco: qual è il termine di paragone? Fare una foto migliore di una "schifezza", ad esempio, è facile!).

No, niente del genere. Non ti darò affatto dei consigli, me ne guardo bene. Ma un metodo infallibile per fare meglio qualsiasi cosa nella vita, e non solo le fotografie, esiste e io lo conosco bene, anche se non riesco quasi mai ad applicarlo (vabbe', nessuno è perfetto).

Il metodo consiste nello svuotare la mente. Del tutto. Completamente. Vuoto spinto, pneumatico.

Una delle principali convinzioni dei fotografi (e non solo) è che per fare una buona foto occorra essere molto concentrati, molto "mirati", pronti, con le idee chiare, con il controllo totale del proprio strumento (la fotocamera) e delle proprie capacità tecniche. Io stesso uso spesso l'hashtag #pensaescatta su Instagram, anche se il senso non è quello che appare.

Infatti, certo che occorre pensare ed avere le idee chiare: prima e dopo lo scatto, mai durante. Se "durante" lo scatto sei lì che pensi alle mille cose che riguardano quella foto (tempi? diaframmi? inquadratura? Concorso che potrei vincere? Utilità della foto?) di sicuro la perderai, nel senso che di sicuro sarà deludente. Se non di sicuro, quasi.

Ancora peggio se poi sei vittima del nemico numero uno di ogni essere umano, e del fotografo in particolare e di ogni artista): i pensieri intrusivi! Mi tremano i polsi solo a scrivere queste due parole...
Foto
I pensieri intrusivi non ci danno tregua: a volte sembrano solo di sottofondo, altre volte emergono a gran voce e ci distraggono da ogni attività stiamo facendo, al punto che, di colpo, ci rendiamo conto di non sapere quel che stiamo facendo, talmente siamo immersi nel “pensare” a qualcosa.

In generale, i pensieri intrusivi non sono pensieri nel vero senso del termine: non hanno un filo logico, non partono da un dato concreto, da un problema, e non puntano ad arrivare a una soluzione o almeno una decisione. Quando riflettiamo su un progetto che ci interessa, o studiamo mentalmente come uscire da un momento difficile, allora stiamo “pensando”: è qualcosa che comunque ci distrae, ma almeno ha un senso, uno scopo. I pensieri intrusivi non sono così: non hanno in verità altro scopo che esaurire le tue risorse interiori, sono dei mostriciattoli neurali, dei parassiti della mente, che attraggono come magneti la tua attenzione su cose inutili, o addirittura dannose. Nei casi più gravi possono portare a ossessioni e nevrosi.

Ma ci sono anche pensieri intrusivi del tutto innocui, ma non per le fotografie. Ad esempio sei impegnato a guardare nel display della fotocamera per comporre la tua foto al millimetro e intanto ti vien da pensare a cosa potresti cucinare per cena, o a qualcosa che magari hai dimenticato a casa. O anche a quali foto potresti fare se invece di stare lì in quel punto ti spostassi di qualche centinaio di metri più avanti. 

E mentre cerchi di goderti la tua passeggiata fotografica guardandoti attorno rilassato, ecco che il pensiero corre alla trama dell’ultimo film visto al cinema, e che nemmeno ti era piaciuto; o ad argomenti superficiali o, peggio, a rimpianti per occasioni perdute, a offese che avresti ricevuto, a ingiustizie di cui saresti rimasto vittima. Addirittura l'orribile canzone che hai sentito durante l'ultimo Eurofestival e il cui assurdo ritornello ti torna in mente mentre stai facendo altro. Insomma, qualsiasi cosa, purché tu non ti goda il momento presente.

I pensieri intrusivi sono degli autentici killer del presente, potremmo dire, e ti fanno continuamente ondeggiare tra il passato (in genere con ricordi spiacevoli) e il futuro (con progetti irrealizzabili o non positivi). 

Partiamo da un presupposto: tutti soffriamo di pensieri invasivi. Tutti, nessuno escluso. In genere non sono di contenuto necessariamente negativo, ma sempre distraggono, questo si.

La vera differenza tra te e un monaco buddista è che il monaco li lascia scorrere via, non vi presta attenzione. Sa di avere questi pensieri, ma li disinnesca, fa in modo che non agiscano su di lui. Noi umani comuni, invece, specialmente se apparteniamo alla razza dei fotografi - per loro natura pronti a riflettere su ogni cosa - per quanto ci sforziamo, rimaniamo catturati dal fascino del pensiero intrusivo, specialmente quando ci troviamo in situazioni tutt’altro che positive.
Foto
Il potere del pensiero intrusivo, infatti, è proprio quello di isolarci dal contesto, di farci volare altrove, e dunque quando desidereremmo “non essere lì” diventano immediatamente i benvenuti. Non devi pensare che questo accada solo in determinate situazioni della vita, ma anche mentre fotografi. 

Ad esempio hai un gran desiderio di realizzare foto di "street" stile Meyerowitz, ma sei timido e insicuro e allora mentre ti trovi tra la folla con la fotocamera in mano, ti sgorgano nella mente mille pensieri intrusivi che non ti sono affatto utili, ma alleviano in qualche modo la sensazione di essere nel posto "sbagliato". E il risultato sono foto pessime.

Naturalmente ci sono persone a cui capita di cadere in questa "tentazione" ogni tanto, e altre a cui capita di continuo. Se ci fai caso sono quelli che inanellano "distrazioni su distrazioni", che dimenticano la chiave dell'auto in casa, che si perdono le cose, che dimenticano di svoltare in una strada e così via. In genere si scusano con un "non me ne sono accorto", ma in verità la loro mente era impegnata a portarli chissà dove. Non qui, non ora.

“Qual è la cosa più importante da fare nella vita? Quella che stiamo facendo ora. Qualunque essa sia, se non viviamo appieno questo momento si perde un’occasione che non tornerà più” scrive David Brazier  in “Terapia Zen”.

Come fotografi possiamo ben intuire quanto sia fondamentale questa concentrazione assoluta che, per assurdo, corrisponde appunto nel "non pensiero", nell'entrare in quello che gli psicologi chiamano "flusso": non si fanno le cose, le cose si fanno da sole. Non si scatta una foto, la foto si scatta da sola, e noi dobbiamo solo assecondare la sua volontà. Così la vedeva Minor White, e anche se molti lo consideravano un po' fuori di testa, che foto meravigliose ci ha lasciato!

Vivere il presente è più difficile che scalare l’Everest. Accettare il fatto che i nostri pensieri orientano la nostra stessa esistenza, che siamo esseri fatti “della stessa sostanza dei sogni” e di pura d’immaginazione, e che possiamo essere liberi, creativi, fantasiosi pur restando radicati nella realtà del momento, senza voli pindarici, è la vera sfida.

Il grande poeta visionario britannico, William Blake, lo ha espresso in modo meraviglioso: “vedere il mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico, tenere l’infinito nel palmo della mano e l’eternità in un’ora”.
Foto
Questa è la meraviglia dell’immaginazione sana: parte da ciò che viviamo ora, da ciò che abbiamo davanti a noi, per raggiungere l’astratto, il fantasioso, il sublime.

Non è vero che un fotografo possa ottenere tutto questo "pensandoci su" mentre scatta. Non a caso nei miei corsi di fotografia faccio praticare anche la "fotografia casuale" scattando, letteralmente, a casaccio: è un esercizio che serve a dimostrarci quanto, se solo smettiamo di voler controllare tutto, e accettiamo di non farci guidare dai pensieri intrusivi ma ci concentriamo solo sul "qui e ora", addirittura senza inquadrare o regolare i parametri della fotocamera possa venir fuori qualcosa di buono. Di certo almeno un'ispirazione.

Il pensiero, la progettazione, la ricerca sono fasi fondamentali ma solo prima - anche molto prima - di arrivare allo scatto. Poi occorre far si che le occasioni si incontrino con il nostro essere pronti a recepirle, non a inseguirle. Era il metodo di Cartier Bresson, per citare il più famoso. Mi sembra che per lui funzionava alla grande!

Perciò, il primo passo che dobbiamo compiere per scalare il nostro Everest personale, e dunque fare foto migliori, sia combattere i pensieri intrusivi. Per molti anni, anzi per gran parte della mia vita, ho cercato di contrastarli attraverso una lotta diretta, all’arma bianca. Col tempo ho imparato a non prestar loro troppa attenzione, o cercando di sovrapporvi pensieri se non positivi, almeno utili. Soprattutto concentrandomi sui gesti che come fotografo debbo compiere, lasciandoli fruire in modo naturale, e prestando attenzione se, mentre sto mettendo a fuoco un soggetto, mi torna in mente quel "motivetto che mi piace tanto" o la preoccupazione per le bollette da pagare.

Se sto passeggiando cerco di ragionare sulla direzione da prendere, sul respiro e sul ritmo dei passi, ed evito di concentrarmi sulle voci intrusive che, già in passato, mi hanno fatto sbagliare sentiero o perdere in un bosco. Non posso dire che la lotta sia conclusa, anzi. Forse non terminerà mai.

Hai presente il film “500”? Loro sono come i Persiani, una moltitudine, e per fermarli hai poche risorse. Ma hai dalla tua la forza della ragione e della saggezza, che tutto può vincere. 

Ti chiederai più volte a cosa dovresti pensare, allora, visto che non devi cedere ai pensieri intrusivi. La nostra società è organizzata in modo tale da convincerti che sei sano e normale solo se pensi sempre a qualcosa, se ti preoccupi, ti angusti. Pensare a niente? Impossibile. Davvero? Eppure ci sono filosofie che proprio a questo vuoto si ispirano, e lo ricercano attivamente. Svuotare la mente è un processo che si muove su due livelli: il primo è quello di combattere i pensieri intrusivi, per lasciar spazio solo ai pensieri utili e necessari; un secondo livello è spegnere anche questi ultimi, almeno in determinate circostanze. Ribadisco: ad esempio mentre fotografi. Sforzati di entrare nel flusso. Mantieni la tua mente limpida. Almeno provaci.
​
Riuscirci può regalarti fotografie che nemmeno investendo tutti i soldi del tuo conto in banca in attrezzature potresti realizzare! E comunque di certo alla fine sarai più rilassato...





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Le storie interrotte

2/5/2022

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In questo post parlerò forse poco di fotografia, ma in verità in queste considerazioni principalmente letterarie ci sono molti spunti che credo siano davvero utili a chi desideri realizzare fotografie più efficaci e che, nel mio corso "Smettere di Essere Principiante" ho definito "Effetto Iceberg", mutuandolo sempre dalla letteratura, e cioè da Emingway.

Il tema è quello di cosa mettere dentro un'inquadratura. Come sosteneva Ghirri quel che lasci fuori - la continuazione ideale del soggetto rappresentato nella foto - spesso è più importante di quel che metti dentro. Solo che quest'ultimo soggetto lo vedi, è lì davanti a te, l'altro non puoi far altro che evocarlo. E' etereo, misterioso, evanescente. Però esiste, almeno per chi guarderà la foto. E' proprio come il Monte Analogo di René Dumal.
Foto
Il monte Analogo è montagna invisibile agli occhi dell’uomo comune ma più alta dell’Everest, una montagna che non sai esattamente dove sia perché, come spiega Padre Sogol nel romanzo, è nascosta da una sorta di campo di forze che devia i raggi luminosi. Eppure esiste, in qualche parte dell’Oceano Pacifico, vi puoi accedere all’alba o al tramonto, gli unici momenti in cui le sue “porte” sono aperte, la puoi scalare e, giunto in cima, trovare la risposta alle tue domande, e cioè che non hai domande perché le domande oramai non servono in quanto le risposte sono tutte nell’essere in cima al Monte Analogo. Ma devi esserci, per saperlo. 

Dumal non finì mai il suo romanzo, che si interrompe dopo una virgola. La virgola più famosa della storia della letteratura. Che accidenti succedeva dopo quella virgola? Come proseguiva il racconto?

La prima volta che lessi “Il Monte Analogo” credetti di trovarmi davanti una copia difettata. Ma no, voltando pagina ecco la foto del manoscritto originale: qualcuno bussò alla porta dello scrittore in quel bellico 1944 e lui fece in tempo a vergare la virgola sul manoscritto per poi alzarsi e andare ad aprire. La morte lo colse prima che potesse continuare non tanto il suo libro, quanto almeno quella frase.

Rimasta così, sospesa nel vuoto, come su un burrone, un precipizio, un seracco, quell’ultima parola dietro la virgola sembrava simile allo scalatore sopravvissuto quando tutti i suoi compagni di cordata che lo seguivano sono precipitati per lo spezzarsi della corda.
Foto
In quel vuoto era precipitata la vita di Dumal, che divenne stranamente famoso un romanzo monco, storpio, a metà, così come Gadda, che non terminò mai “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, romanzo per il quale divenne invece assai noto.

Strano come siano due dei miei romanzi preferiti, che ho letto più volte. Te li consiglio, davvero. Mi sembra, leggendoli, di rischiare qualcosa. Di mettermi in una condizione di pericolo. Hai presente, no? Quando si corre verso un precipizio e ci si ferma di colpo, evitando per un soffio di precipitare. Ogni volta ci si ferma più vicini al baratro, ogni volta si rischia di più. 


Ecco, leggere Gadda e Dumal dà questa stessa impressione, mi sembra che i due romanzi mi portino ogni volta sul ciglio del burrone e poi mi mollino lì, in preda alle vertigini, tremante di paura. Il cuore batte, l'adrenalina corre. Arrivi sul limitare e quando ti fermi sai di aver rischiato ma le risposte che cercavi comunque non le hai ottenute. Almeno apparentemente.

Perché poi scopri che la vera saggezza è nel come ti poni le domande, non nelle risposte che trovi. Sono romanzi simili alla vita, la cui fine non è ancora scritta. E quando sarà scritta, non ci saremo più e dunque che importa? Puoi immaginare come sarà quella fine, è vero, ma un esercizio migliore è quello di immaginare come potrebbe essere il proseguo del viaggio. E poi concretizzare le tue fantasie. Se Gadda avesse concluso il suo romanzo svelando l’assassino, se Dumal avesse completato la sua storia portando la spedizione in cima al Monte Analogo forse, e dico forse, i due romanzi avrebbero perso molto del loro fascino. Capita spesso.
Foto
Anche nei film. Inizi a vederli e sei trascinato in una storia intrigante e avventurosa. La situazione è mozzafiato. C’è un mistero da risolvere, ci sono intrighi da dipanare. Tutti i registi di film e tutti i romanzieri arrivano a questo punto: hanno condotto i propri spettatori/lettori sul vertice delle Montagne Russe, ora debbono buttarli giù, farli gridare di paura, emozionarli fin quasi a fargli prendere un infarto. In genere, falliscono.

Quante recensioni si leggono di film che creano un’alta tensione ma sono deludenti nel finale? E quanti romanzi non reggono il ritmo oltre la metà o i due terzi delle pagine? E’ che il risolversi della storia deve avere un senso logico. Puoi anche riempire la tua storia di fantasmi, vampiri e morti viventi, ma alla fine l’eroe o l’eroina debbono salvarsi e per farlo hanno bisogno 
di una soluzione, di uno strumento, di una via di fuga.

Il romanzo interrotto non si pone il problema. Che sia volontariamente interrotto, o che lo sia per intervento della morte, in ogni caso il romanzo interrotto ha un fascino eterno. Che cosa avrebbe voluto dire l’autore? Che cosa sarebbe successo ai suoi personaggi? Quale sarebbe stata la conclusione? 

Ora immagina di trasportare tutto in campo fotografico. La fotografia in cui tutto è chiaro e rivelato, che cerca disperatamente di illuminare gli angoli bui, di mostrare ogni dettaglio nel modo più preciso possibile, che è piena di elementi affinché allo spettatore nulla venga negato, sono spesso efficaci come mezzo di documentazione o divulgazione, ma emotivamente sono un disastro. Se non ti poni domande, come spettatore, finisci per annoiarti. Ammirare queste foto perfettine e ridondanti dopo un po' stanca.

La foto che funziona, ma ancor più il progetto fotografico davvero efficace non intendono dare risposte, ma porre domande; quelli di maggior successo fanno nascere in chi guarda addirittura le domande giuste. Pensa alle tante foto di guerra che circolano in questi giorni. Vogliono affermare realtà incontrovertibili, vogliono urlare, rivelare, informare. Ma quelle che restano in mente sono le poche davanti alle quali come minimo ti chiedi: perché?


I grandi fotografi di guerra hanno sempre lavorato così. Se scorri le foto del Vietnam di Don McCullin avrai la testa piena di domande, di dubbi, di perplessità e mozziconi di risposte, eppure ne saprai di più di quelli "ben informati" che ti mostrano "le cose come stanno". Perché quest'ultime si rivolgono alla testa, le altre al cuore, metaforicamente parlando. Perciò credo davvero che come fotografi dovremmo imparare la lezione di Gadda e Dumal: arrivare a un certo punto e saperci fermare prima che la nostra foto dica troppo, ma anche non prima che abbia detto abbastanza.

Per questo, d'altra parte, fare foto efficaci è maledettamente difficile!
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    Sono un fotografo e un autore di saggi sulla fotografia (e non solo). Per oltre 15 anni ho collaborato con le più importanti riviste di viaggi e turismo, pubblicando oltre 200 reportage. Oggi mi occupo di fotografia creativa, alternativa e irregolare, sia analogica che digitale, e sono un ricercatore di “cose interessanti” da raccontare, soprattutto nel campo della fotografia, dei luoghi, della natura e dei paesaggi, anche grazie alle tecniche dello Storytelling.


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