Joel Meyerowitz (New York, 1938) è forse uno dei fotografi più noti e amati della scena internazionale, nonostante sia attivo da almeno sessant'anni. Risalgono infatti agli anni '60 i suoi primi esperimenti col colore, che adottò definitivamente nel 1972, in un'epoca ancora dominata dal bianco e nero: sin da allora, l'approccio di Meyerowitz si caratterizza per un'attenzione profonda e sensibile alla luce, specialmente quella che invade le strade della sua città, e che crea ombre profonde e alteluci dorate, che riprende in numerose fotografie che lo hanno consacrato come un maestro della "street photography" sebbene questa definizione non renda giustizia al suo multiforme talento. E' vero che si inserisce nella "scuola" creata da Robert Frank, Garry Winogrand, Lee Friedlander e altri maestri americani della fotografia "colta al volo", ma è anche vero che ha spesso utilizzato il banco ottico di grande formato per riprendere i luoghi e le persone, sfruttando dunque una tecnica lenta e meditata, ben distante dall'approccio che richiede la "street". Ad ogni modo quando si pensa a Joel Meyerowitz di rado di pensa a un fotografo "paesaggista" in senso classico, e dando un'occhiata alla pagina di Google "Immagini" che viene proposta cercando il nome del fotografo, di paesaggi se ne vedono davvero pochi, a parte qualche rara eccezione tratta da progetti come quello su Saint Louis e ovviamente quelli delle torri gemelle crollate a New York dopo l'attacco dell'11 settembre 2001. In fondo questa è la "condanna" che tocca a coloro che diventano famosi per determinate foto: si finisce per pensare che facciano solo quello. Un po' come certi attori che restano tutta la vita legati controvoglia a un personaggio interpretato in gioventù. Viene da dire che ci sono in giro appassionati che credono che Franco Fontana continui ancora oggi a fare i suoi colorati paesaggi tra Puglia e Basilicata, anche se da decenni si dedica ad altro. E di esempi del genere ce ne sono molti. Fatto sta che oltre a 16 libri, progetti commerciali, lavori per riviste, mostre e film, Meyerowitz ha anche realizzato un progetto di "paesaggio puro", un vero e proprio studio della luce, intitolato Bay/Sky che consiste in una serie di fotografie riprese sempre nello stesso posto (Cape Cod, in Massachussets, sull'Oceano Atlantico) in diverse stagioni e ore del giorno. Nel 1993 il lavoro è diventato anche un libro, ancora rinvenibile online sebbene a costi elevati. Il progetto era stato anticipato da una serie di fotografie divenute un libro fondamentale per gli amanti della fotografia a colori, "Cape Light", pubblicato nel 1978 e ripubblicato nel 2002. Mentre in questo caso le fotografie, che si possono vedere sul sito del fotografo, comprendono anche scene di spiaggia, persone intente ad attività balneari, architetture e così via, il progetto Bay/Sky "asciuga" il soggetto e lo trasforma in pura luce e colore. La cosa interessante è che Cape Cod è un luogo per le vacanze, del tutto privo di quegli aspetti "spettacolari" che tanto fanno impazzire i fotografi di paesaggio di oggi. In realtà somiglia più alla Versilia che alla costa selvaggia della Sardegna, per rimanere in Italia. Eppure la capacità (e sensibilità) del fotografo ne traggono ben due libri! E se "Cape Light" è un classico apprezzato soprattutto per l'uso del colore in fotografie che ricordano molta "street" dell'epoca, sebbene "in trasferta", Bay/Sky stupisce e meraviglia per l'assoluta essenzialità e semplicità dell'approccio. Apparentemente in quelle foto "non c'è nulla", solo un pezzetto di mare, di spiaggia e tanto cielo. Ma che cielo, e che luce! Per Meyerowitz Cape Cod "è uno sputo di sabbia... di colore chiaro... dove c'è sempre un'umida foschia che risale dalla superficie dell'acqua", e rimanendo su questo lembo sabbioso il fotografo riprende il variare della luce: "oggi la luce è cristallina, ma un altro giorno sarà oscura e densa, un altro giorno ancora ricorderà il petalo di un fiore, un altro l'interno di una conchiglia. Alcuni giorni pare metallo: d'acciaio, di piombo, argento, oro. Strano come le idee della densità e della durezza siano utilizzate per descrivere qualcosa di così fluido e translucido". Credo sia la dimostrazione più efficace, forte e convincente di quanto sia davvero il fotografo - e la sua sensibilità e capacità di percepire pienamente le variazioni di quel che accade intorno - a fare la differenza, in qualsiasi genere fotografico, ma nel paesaggio in modo particolare.
Ricercare ostinatamente un luogo "spettacolare" da riprendere sposta l'attenzione dalle sensazioni, emozioni e idee dell'operatore alla bellezza del luogo, che può certo avere un ruolo, ma resta il fatto indiscutibile che se la fotocamera è gestita da una mente sopraffina e da un occhio sensibile, non c'è davvero soggetto al mondo che non possa fornire fotografie straordinarie, come quelle che illustrano questo post. Nel progetto ci sono foto in cui la luce gloriosa di un'alba o quella potente e angosciante di un temporale in arrivo appare spettacolare, ma ci sono anche foto in cui la luce è piatta, priva di elementi che risaltino in modo particolare. Eppure, in ognuna, si coglie la meraviglia di quel fenomeno incredibile che ci tiene tutti in vita, quell'ambiente che inquiniamo e sfruttiamo senza renderci conto di quanto sia delicato: l'atmosfera del pianeta Terra.
2 Commenti
Sono convinto (sebbene siano in pochi a essere d'accordo con me, lo so) che i luoghi possano narrare storie più efficacemente dei volti e delle espressioni, proprio perché sanno essere eterni e grandiosi e al contempo drammatici e tristi, possono evocare sensazioni e idee, commuoverci e ferirci più di quanto sappia fare un volto. Perché il volto è e sarà sempre limitato nel tempo e nello spazio, mentre un paesaggio, per sua natura, è ampio, a volte illimitato, potenzialmente eterno come la nostra incapacità, a volte, dinanzi alle tragedie che avvengono a un passo da noi, di provare la necessaria empatia. E che il paesaggio sia quello della Campania, di Lampedusa, Nizza o Calais davvero poco importa. ll lavoro realizzato da Joel Sternfeld tra il 1993 e il 1996 è di fatto un'esplorazione dell'America, con le sue contraddizioni, che ricorda almeno in parte quella di Walker Evans, che è un po' il "padre" della fotografia "narrativa" americana e mondiale. Ma a parte questo "On this site" è un progetto che ci permette di riflettere anche sul potere - e la necessità - della didascalia, o almeno del titolo. Il progetto di Sternfeld consiste in una serie di fotografie in cui sono rappresentati luoghi più o meno anonimi, anche se a volte famosi, teatro di "eventi significativi" della storia americana: non per forza eventi storici, anzi, quasi mai di tale portata. Si tratta invece di eventi tragici, fatti di cronaca, suicidi, luoghi legati a inquinamento (ad esempio nucleare) o a ingiustizie, e così via. La cosa davvero interessante è che guardando le foto, in nessun caso potremmo intuire tutta la storia: senza didascalia, il progetto sarebbe, per così dire, "muto" e profondamente incomprensibile. E questo a prescindere dal valore delle fotografie. Il testo che accompagna la foto sopra è il seguente: "Nel 1868 il Governo Federale cedette milioni di acri di terra delle Black Hills nel South Dakota alla Nazione Sioux. Anni dopo, quando l'oro venne scoperto nella zona, il Congresso ruppe l'accordo e si riprese quelle terre. Nel 1920, lo Stato del South Dakota, nel tentativo di attirare il turismo, commissionò a uno scultore [Gutzon Borglum] di modellare enormi busti sul monte Rushmore. I Sioux considerano ancora le Black Hills come la loro terra sacra. Nel 1980 la Suprema Corte decretò un risarcimento di 17 milioni di dollari più un interesse calcolato a partire dal 1877 come compensazione. Il premio è ora valutato in 300 milioni di dollari, ma i Sioux continuano ancora a rifiutare sia i soldi che la cessione della terra". Una storia di sopraffazione, che ci racconta molto dell'atteggiamento "coloniale" tenuto dagli americani bianchi nei confronti dei popoli indigeni. La foto è particolarmente riuscita perché ci mostra un aspetto particolare di un luogo stra-fotografato. Ma questi due aspetti difficilmente avrebbero potuto incontrarsi senza la lunga e circostanziata didascalia sopra. In effetti capita di frequente che, quando il fotografo decide di riprendere dei luoghi significativi, ci siano poche possibilità di trasmettere direttamente, col solo linguaggio delle immagini, il concetto di fondo. In effetti le fotografie hanno una capacità narrativa poco efficace, se prese da sole. E' invece incredibile quanto - una volta affiancate da accorte parole - possano sbocciare e dirci un'infinità di cose, emozionarci e renderci la comprensione di eventi anche complicati se non facile, di sicuro più agevole. La domanda che resta è: si tratta di un tradimento della fotografia? Sono sincero: non so rispondere. Ma a me sembra di no. Anche un dipinto o una scultura possiamo ammirarli per come sono, ma non li comprenderemo davvero senza saperne un po' di più, senza un titolo esplicativo, senza un "didascalia", e questo vale ancor più per l'arte contemporanea. Eppure nessuno accusa Picasso di aver dipinto qualcosa di inesplicabile nel momento in cui ha concepito "Guernica", il cui tema è oggi chiaro solo grazie al titolo e alle spiegazioni dei critici d'arte. Così, sapresti dirmi cosa racconta la foto sopra? Si vede un grande albero immerso nella luce dell'alba e dietro una strada. Ci saranno milioni di località così. Eppure questa è la prima foto che Sternfeld ha realizzato per il suo progetto: si tratta di un melo a Central Park (New York) sotto cui venne rinvenuto, il 26 agosto del 1986, il corpo senza vita di Jennifer Levin. Un omicidio, dunque. Sternfeld passava di là di mattina presto e rimase colpito dalla bellezza della luce, dalla serenità della scena a contrasto con la memoria dell'evento delittuoso. Scommetto che anche tu - com'è capitato a me - ora "vedi" e percepisci queste sensazioni, ora che sai "tutto". Ma senza queste note, sarebbe davvero stato difficile arrivare a comprendere pienamente la foto, non trovi? Altro esempio. Tra gli anni '20 e gli anni '50 l'esercito americano e la Hooker Chemical Corporation scaricarono nel Love Canal, a Niagara Falls (New York), almeno 200 diverse tipologie di sostanze chimiche altamente tossiche, molte delle quali contenevano diossina, che ben conosciamo anche in Italia. Nel 1953 la Hooker ricoprì la discarica chimica e vendette il terreno, tra l'altro anche al Niagara Falls Board of Education (corrispondente a un nostro Provveditorato agli Studi) che vi costruì una scuola. L'azienda fece sottoscrivere ai compratori un contratto in cui si specificava che non sarebbe stata ritenuta responsabile per qualsiasi danno fosse accorso negli anni a seguire. Negli anni '70 si verificarono innumerevoli casi di bambini nati deformi e una quantità abnorme di tumori in tutta la zona. Alla fine lo stato di New York acquistò oltre 500 case prossima all'area inquinata e trasferì tutti i residenti in zone più sicure. Nella foto vediamo appunto una delle casette che da allora giacciono abbandonate nella "terra dei fuochi" americana. Storia davvero triste, ma guardando alla foto avresti mai potuto comprenderla? Ovviamente no. Ma se leggi le righe qui sopra e guardi alla foto, la magia avviene. Il testo e la foto dialogano, ognuno giustifica l'altro, lo motiva, lo rafforza. Naturalmente questo significa che un simile progetto va concepito avendo bene in mente il "canale" con cui verrà diffuso. Una mostra è certo meno adatta di un libro, perché difficilmente le persone leggono testi lunghi mentre visitano una galleria o un museo. Ma il libro fotografico è in tal senso assolutamente perfetto. Mi permette di guardare le foto e leggere con calma la lunga didascalia e finalmente comprenderle. Trovo che sia come una sorta di "illuminazione", qualcosa di molto "Zen" (foto del libro tratte da Internet). Ci sono ancora molti che ritengono che le foto dovrebbero parlare da sé, che scrivono S.T. (Senza Titolo) accanto alle proprie opere, che si ostinano a evitare qualsiasi didascalia, che creano libri con sole foto e testi quasi assenti.
Rispetto tutte le opinioni, e credo che solo l'Autore possa decidere, e sia dunque libero di scegliere una strada piuttosto che l'altra. Dal punto di vista dello spettatore, però, io credo che poter comprendere in modo chiaro il "messaggio" sia di certo preferibile! Quel che si dice normalmente, e cioè che il file RAW ("grezzo" in inglese) sia un po' una sorta di "negativo digitale", è vero soltanto a metà. In effetti, il grumo di pixel che fuoriesce dalla fotocamera, preso così com'è, è inutilizzabile. Se non lo si elabora in qualche modo, non possiamo condividerlo o farci altro, esattamente come un negativo dei bei tempi se non lo stampavamo in camera oscura (o non lo scansoniamo come si fa il più delle volte oggi) serviva davvero a poco. Non è un caso che Adobe, quando ha creato quello che sarebbe dovuto essere il formato digitale universale, che avrebbe dovuto sostituire i vari NEF, CR2 & Co., diversi da marca a marca di fotocamera, decise di chiamarlo Digital Negative (.dng). Ma in realtà le similitudini finiscono qui. Innanzitutto il negativo digitale non è affatto un negativo, ma un positivo: aprendolo in un qualsiasi software apparirà semmai più simile a una diapositiva che - appunto - a un negativo. Poi le sue caratteristiche possono essere modificate in un modo che nemmeno il mago più esperto degli sviluppi chimici avrebbe saputo fare con un negativo e nemmeno con la relativa stampa analogica. Di fatto, il file RAW contiene solo informazioni, non ha nessuna concretezza fisica (e in questo il negativo analogico vince alla grande) e dunque occorre passare per un software, per dargliela in qualche modo. E la faccenda è meno intuitiva e semplice di quanto si pensi, sebbene esistano oramai parecchi "automatismi" informatici che consentono di ottenere una foto ragionevolmente buona con un paio di "click". Ma è evidente che per avere il meglio, giocoforza è necessario impegnarsi un po', e perdere del tempo per imparare a gestire curve, timbro clone, saturazione e quant'altro. Ora, lo scopo di questo post non è - nemmeno potrebbe essere - quello di spiegare passo passo come si sviluppa un file RAW, cosa tra l'altro quasi impossibile perché ogni foto richiede un trattamento personalizzato. Ed è su questo che magari mi piacerebbe porre l'accento in questa occasione. Durante i miei corsi e i miei workshop noto subito che i fotografi, specialmente se inesperti, si gettano a capofitto all'interno di Lightroom, Photoshop, Infinity, DarkTable o altri programmi allo scopo di risolvere la faccenda seguendo le indicazioni apprese in qualche tutorial online. Ora, credo che questo approccio sia altrettanto sbagliato di quello - molto simile - che si fa in ripresa. Come dinanzi a un soggetto che ci interessa e ci ispira occorre ragionare sul da farsi, valutare cosa si vuole davvero comunicare e come farlo, così quando avremo sullo schermo il nostro file RAW - che appare in genere smorto e poco attraente - dovremo prima di tutto ricordare quelle che erano le nostre intenzioni al momento dello scatto. Faccio un esempio molto semplice. Io lavoro principalmente in Bianco e Nero e il più delle volte imposto la fotocamera in modo che non mi mostri i colori sul display, anche se il file sarà comunque a colori. Quando compongo la scena e faccio le mie scelte, so già che la foto sarà non solo monocromatica, ma anche contrastata o morbida, chiara o molto scura, e così via. Una volta aperto il file nel software prescelto cerco di sviluppare la foto perché aderisca alle decisioni prese sul campo. Ecco, questo penso andrebbe fatto ogni volta. Ovviamente si può anche cambiare idea e magari una volta a casa si fanno scelte diverse: l'importante è decidere prima cosa si vuole ottenere e poi iniziare a interagire con il software. Nulla vieta di avere dei presets di nostro gradimento, o di crearne ad hoc con parametri impostati da noi. Io vi ricorro spesso perché è ovvio che ho un modo di fotografare che può ripetersi e molte delle mie foto hanno un trattamento simile o con poche varianti. Ma so anche che altrettanto spesso per ottenere quel che voglio dovrò perdere del tempo, e lavorarci su. E ci sono anche volte in cui le elaborazioni possono diventare molto complesse e laboriose. Ad esempio, io non utilizzo più l'HDR quando necessario, preferendo comporre due foto (una per le alteluci e una per le ombre) a mano, con le maschere di livello, per un risultato più naturale. Tipicamente questo è il caso di quando si ha un cielo luminoso e un primo piano più scuro. In casi del genere la postproduzione può arrivare a richiedere molto tempo, ma onor del vero non mi capitano spesso. Gli interventi che si faranno sul file sono anche "figli" delle nostre capacità: sono arciconvinto del fatto che solo smanettando continuamente si possa davvero imparare a gestire softwares a volte molto complessi. Anche frequentando corsi o leggendo manuali, alla fine se non si fa continuamente pratica non si acquisisce la necessaria competenza per lavorare in tranquillità. E' dal 2002 che lavoro in digitale (oltre che in analogico) e posso ben dire che in questi 18 anni ho postprodotto quasi quotidianamente le mie fotografie. Ma ancora tutte le procedure che non uso regolarmente tendo a dimenticarle, come credo sia normale. Dunque il consiglio che mi sento di darti è di spendere ogni giorno anche solo 10 minuti a esercitarti con il software che hai scelto. Vedrai che col tempo tutto si semplifica e le cose verranno naturali. Detto tutto questo, credo che alla fine l'80% del lavoro di sviluppo si concentri in pochi comandi (comuni a ogni software che si rispetti) che dovrai dominare senza incertezze:
Detto tra noi, una volta che la neutralità cromatica è stata aggiustata, le ombre e le luci sistemate e il contrasto calibrato a volontà, il grosso del lavoro è fatto.
Poi, certo, può essere necessario rimuovere i punti creati dalla polvere sul sensore, fare qualche intervento più deciso, ma insomma, capita solo in una piccola percentuale di fotografie. Quello che tendenzialmente bisognerebbe sempre evitare è utilizzare i software per "correggere" gli errori in ripresa. Può capitare, ma se capita spesso il problema va affrontato a monte, non a valle... |
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