Accanto alla porta d’ingresso della mia casetta di quando ero giovane e vivevo da solo, c’erano attaccate due piccole foto incorniciate. Non foto artistiche, foto ricordo. I ricordi sono materiale estremamente pericoloso, da maneggiare con cura. Personalmente ne ho una paura fottuta perché, quando ricordi non sai mai se le cose sono andate davvero come archiviato nella tua memoria. Sarà per questo che non amo nemmeno la funzione mnemonica che tutti legano alla fotografia. Una foto non è un ricordo, solo l'immagine - spesso falsa - di qualcosa che è apparentemente accaduto. Pura illusione... La prima foto in alto mostrava la cima di una montagna dell’Appennino. Sulla vetta, c’era una grossa croce di metallo, ai suoi piedi, accucciati e sorridenti come si conviene quando si è protagonisti di una foto del genere, c’eravamo io insieme a due amici che chiamerò Antonio e Mario, anche se non sono i loro veri nomi. Saranno stati i primi anni '90.
Mario lo avevo perso di vista poco dopo quella foto. Si era trasferito altrove, inseguendo un lavoro o forse una donna, o forse entrambe, che alla fine si unisce l’utile al dilettevole. Era un ragazzo simpatico, ex compagno di classe alle medie, ex compagno di pomeriggi sul muretto a dare voti alle ragazze, e a dire stronzate, quelle dettate dall’età e dall’incoscienza, poi cresci e le stronzate le fai, non le pensi solo. Quel giorno lì era stato bello, un giorno di inizio primavera, i faggi in basso erano color dell’erba, l’aria tersa, il sole tiepido ma non caldo. La fatica dell’arrancare in salita lungo il sentiero mentre si cazzeggia e ci si racconta dei fatti della vita è grato e salutare, come bere buon vino, o mangiare il panino ripieno, i taralli comprati alla Coop, la cioccolata dello zio militare o bere la grappa che sempre ci si concede dopo il pasto. Solo un sorso, che sennò ti sega le gambe, e hai voglia a riscendere. E allora collochi sul cavalletto la fotocamera che ti eri portato per le foto serie, componi la scena e premi l’autoscatto. Ecco. La pellicola avanza, i grani d’argento hanno mutato consistenza, un riverbero di realtà si è fissato per sempre. Non c’era ancora il digitale e il frr frr della reflex aveva qualcosa di magico, quasi scandisse gli attimi della vita. Frr frr, un altro istante è passato, frr frr guarda che panorama, frr frr che aspettate? Dobbiamo scendere, che si fa buio, frr frr un’ultima foto. Il rullo sta per finire, la giornata con lui. Antonio era un amico speciale. Era quel tipo di persona a cui tutti si rivolgerebbero trovandosi in difficoltà. Molti, in effetti, lo facevano. E lui sbrogliava la matassa con quella naturalezza e semplicità che lasciava tutti stupefatti. Ma come, era così facile? Se tutti noi siamo impiegati a tempo pieno nell’ufficio complicazione affari semplici, lui lavorava con profitto per la concorrenza. Sapeva trovare la strada per uscire da ogni impiccio, per risollevare ogni malanimo e ogni tristezza, per indicare la strada giusta anche al bivio più complesso. E lo faceva non perché avesse tutte le risposte (quelle le possiede solo Dio, se esiste), ma perché sapeva che ogni risposta era giusta, se la fornivi con l’atteggiamento necessario, con le parole adatte e il sorriso sulle labbra. Con leggerezza, quella leggerezza che è una dote così rara oggi, in cui se non sei pesante, pesantissimo, un vero elefante, nessuno t’ascolta. Lui, invece, parlava come fosse un refolo di vento mattutino e l’incanto avveniva. In quella foto, noi tre, accucciati sotto la croce, sorridevamo, com’è d’uopo nelle foto ricordo, e quel sorriso rivelava tante cose, anche se è falso. Si sorride alla fotocamera perché tutti fanno così, perché in genere certe foto le fai quando sei sereno e contento, ma in fondo non sorrideresti, se non ci fosse una foto da fare. E' anche un modo per ricordare - a noi stessi fatti più vecchi - che sorridere è importante. Anche per finta, magari. La foto subito sotto era un autoscatto. C’ero io da solo, in cima a una scogliera in Scozia, sullo sfondo il mare a perdita d’occhio. Ero lì per un reportage per una rivista. Non sorrido in quella foto, forse perché odio gli autoscatti e i selfie. Niente frr frr, tutto digitale. I tempi cambiano, le fotocamere cambiano, la tecnologia cambia, noi cambiamo. In meglio o in peggio difficile a dirsi. Guardando quelle due foto appese una sull’altra, perfettamente allineate, notai che rappresentavano un po' la mia vita. Le persone importanti, le categorie di eventi significativi. Non ci avevo mai prestato attenzione. Non avevo molte foto ricordo, non tenevo album, non ho mai amato queste cose. Non ne ho tutt'ora. Il mio passato è, dal punto di vista fotografico, quasi un buco nero. Preferisco così. Ogni qual volta mi chiedono di scattare una foto ricordo comincia a lamentarmi e sbuffare. Trovo che come supporto per i ricordi le foto facciano schifo, davvero. Ma sono io a essere strano, lo so. Però mi ero ritrovato - quel giorno di tanti anni fa - quelle due stampine e c’era un buco da riempire, lì, in quella parete. Avevo preso due cornicette economiche da Ikea e sistemato il tutto con fare distratto. Non so che fine abbiano fatto. Le ho perse di vista, così anche loro sono diventate solo un ricordo. Per questo, forse, sono così nitide nella mia mente...
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La Land Art mi ha sempre affascinato, lo confesso. Forse perché alla fine la sento affine ai miei interessi, alle mie passioni, almeno quella più ecologicamente orientata, che dunque non cerca di creare installazioni “pesanti” e a volte impattanti come “Spiral Jetty”, il “molo a spirale” di Robert Smithson, realizzato nel 1970 sul Grande Lago Salato, negli USA. Sebbene l’intento fosse anche quello di lanciare un messaggio ambientalista, di fatto l’opera venne realizzata a colpi di Caterpillar e movimento terra: non proprio il massimo dal punto di vista naturalistico. Inoltre l’opera è tutt’altro che provvisoria: dopo oltre cinquant’anni è ancora ben visibile e anzi c’è un’area parcheggio proprio davanti per poterla ammirare. Tra tutti gli artisti della Land Art, il mio preferito è invece Richard Long, che ha fatto del camminare la sua arte. Per questo artista la semplice azione di camminare nel paesaggio è “un mezzo ideale per esplorare la relazione tra tempo, distanza, geografia e misurazione”, quindi per instaurare una relazione diretta col mondo. In genere, camminando, Long getta ogni tanto un sasso, ad esempio nei torrenti che attraversa, come “testimonianza” tangibile del proprio passaggio. La prima camminata concepita come opera è Ben Nevis Hitch Hike del 1967, un viaggio di sei giorni, andata e ritorno, che ha portato l’artista da Londra alla sommità del Ben Nevis in Scozia. Sempre del 1967 è l'opera forse più famosa: "A line made by walking". L'opera di Long consisteva in una linea creata semplicemente camminando più volte su un prato, sino a rendere visibile una traccia. In verità, quel che noi conosciamo davvero è solo la fotografia, realizzata dallo stesso Long, di tale traccia. D'altra parte la gran parte delle creazioni di Land Art sono appunto effimere, e solo in tal modo è possibile diffonderle e farle conoscere, comunque conservarne il ricordo. Quasi tutti gli artisti della “Land Art” giocoforza utilizzavano la fotografia per documentare le loro opere, sebbene con ricorrenti crisi di identità artistica. Rosalind Krauss ha sottolineato come, soprattutto negli anni settanta, anni dominati “dall’onnipresenza della fotografia come modalità di rappresentazione”, il medium fotografico sia stato utilizzato da numerosi artisti per tutti quei lavori che avevano necessità di un supplemento documentario. Il problema era però che il pubblico finiva per fruire l’opera soprattutto attraverso le fotografie. Per questo molti artisti della Land Art decisero di scattare personalmente le immagini dei propri lavori, alimentando la confusione tra fotografi artisti e artisti fotografi, o di ricorrere a fotografi non solo specializzati, ma anche dotati di una precisa sensibilità. Ad ogni modo durante l'estate scorsa, mentre stavo effettuando una "camminata fotografica" nel lago di Bolsena, nell'acqua bassa, mi sono reso conto che il mio passaggio sollevava nuvole di finissimo limo, abbastanza persistenti - ma in rapida evoluzione - che decisi di fotografare proprio pensando all'opera di Long. Dopo alcuni secondi, il limo inizia a depositarsi e della "nuvola" resta a malapena una labile traccia. Tuttavia, è la mia riflessione, in qualche modo il lago non è più lo stesso, almeno in quel punto. Lo spostamento delle particelle di limo è definitivo. In effetti, il limo si sposta di continuo, ma in questo caso la "responsabilità" era mia. Questo mi ha fatto pensare che quelle foto rendevano - come "A line" - l'idea stessa dell'impatto che le attività umane, anche innocenti, comportano verso l'ambiente. Le nuvole, poi, sono anche un simbolo dei mutamenti climatici in atto su questo pianeta. Allora ho iniziato a creare delle nuvole e a fotografarle, lavorando alla mia - effimera - opera di Land Art fotografica. Prelevando sabbia e limo dal fondale e gettando queste "palle" sulla superficie (un po' come amavo fare da bambino quando andavo al mare) si creano forme affascinanti, simili alla scia fumosa di un meteorite (quello che molti invocano per metter fine alle nefandezze umane) o a una strana nube temporalesca, scura e incombente, attraversata a volte da sottili raggi di sole diffusi dall'acqua. E' nato così il progetto "Clouds Made By Walking (in water)". E' nato così questo progetto, che probabilmente mi porterà altrove, verso altri corsi d'acqua o laghi, verso altre "verifiche" e installazioni effimere, poi - chissà - alla creazione di un libro. Per ora ho pensato di selezionare alcune foto per una piccola "zine" cartacea a tiratura limitata, che sarà disponibile durante gli eventi a cui parteciperò, e per una "eZine" digitale gratuita che, se lo desideri, puoi scaricare dal sito PayHip o anche dal link qui sotto. Oppure sfogliare virtualmente su ISSUU.
Roger Fenton (Heywood, 28 marzo 1819 – Londra, 8 agosto 1869) è stato uno dei più grandi fotografi ottocenteschi, un vero pioniere in molti campi e soprattutto in quello della fotografia di paesaggio e di architettura. Ma i suoi interessi erano piuttosto vari. Si trovò così ad essere anche il primo "fotoreporter" di guerra della storia, in un periodo in cui per realizzare le fotografie occorreva portare con sé una pletora di attrezzature pesanti e ingombranti (36 casse in totale) e un'intera camera oscura ospitata in un carro trainato da cavalli. Si imbarcò così, con il sostegno del Ministero della Guerra britannico e la promessa di un editore di pubblicare le sue foto in un portfolio, per la Crimea dove Regno Unito, Francia, Regno di Sardegna e Impero Ottomano combattevano contro la Russia zarista. Fenton rimase in Crimea dal marzo al giugno 1855 come fotografo "embedded" - diremmo oggi - tra le truppe britanniche. Ovviamente, anche a causa dei limiti tecnici della fotografia dell'epoca, ma soprattutto per disposizione dei militari, poteva fotografare solo le retrovie, dedicandosi di fatto a comporre bei ritratti di soldati e dei loro comandanti. Ma il 23 aprile 1855 gli capitò di scattare finalmente la foto che lo avrebbe reso famoso e spesso indicata come la prima foto di guerra della storia: "Valley of the Shadow of Death" (La valle delle ombre della morte). Il titolo deriva da un Salmo della Bibbia. Questa foto è di stretta attualità per vari motivi. Il primo è il luogo dove venne scattata: la Crimea, da sempre una di quelle terre "sfigate" che per la loro posizione strategica sono destinate a essere contese e dunque instabili, come i fatti di questi ultimi anni ci dimostrano. Se vogliamo, dimostra anche che da sempre la Russia la ritiene fondamentalmente "proprietà privata" e dunque che di certo non era disposta a lasciarla in mano ucraina. Già allora costò ai russi pesanti perdite (256.000 vittime, di cui 128.000 direttamente per i combattimenti) e una dolorosa sconfitta. Inoltre rende chiaro come - anche storicamente - "sebbene ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti", per dirla con De André, visto che in Crimea di fatto i piemontesi andarono per gettare le basi delle future alleanze che permisero nel 1859 al Regno di Sardegna di iniziare la campagna per l'indipendenza italiana. Un pochino, insomma, c'entriamo anche noi. Ma dimostra anche, e direi soprattutto, che non serve mostrare morti, sangue e distruzione per evocare le "ombre della morte" e lo spettro orribile della guerra: basta una distesa di palle di cannone in un paesaggio desolato. La foto è così efficace che da quasi due secoli viene tirata fuori ogni volta che una nuova guerra è in corso, anche per dimostrare che niente, non impariamo mai. Non avremo più le palle di cannone ma missili e aerei potenti, ma davvero la logica è sempre quella della clava. La barbarie che portiamo dentro e di cui non riusciamo a liberarci. Oltretutto la foto è stata, molto probabilmente, costruita ad hoc, un po' come si sostiene della foto del "Miliziano morente" di Robert Capa. Ne esistono infatti versioni diverse, una senza le palle di cannone - effettivamente disposte in modo troppo regolare - sulla strada. E' del tutto ovvio che Fenton volesse "saturare" con i proiettili la scena per renderla più efficace. Una pratica che non è mai cessata da allora, ancora oggi ci sono reporter che chiedono di spostare i cadaveri per rendere la scena "più forte" come anche pratiche di propaganda che spacciano foto fatte altrove o organizzate ad hoc come riprese recenti fatte "sul posto".
Tuttavia io preferisco vederla invece come una scelta comunicativa e artistica, visto che la foto non vuole essere una mera documentazione (dato anche il titolo) ma evocare un'atmosfera, delle sensazioni. In tal senso funziona alla grande. A rigore la si poteva anche scattare altrove, nemmeno serviva andare in Crimea, ma se vogliamo è in questo la sua grandezza. Ad ogni modo mi è tornata in mente in questi giorni proprio perché nell'infinita serie di corsi e ricorsi storici, rappresenta un tassello di quella consapevolezza che dovremmo avere tutti del fatto - puro e semplice, addirittura ovvio - che la guerra non risolve mai (mai!) i problemi. Ogni conflitto, indipendentemente da come termina, ha in sé i germi per un conflitto futuro. Quei bambini che piangono disperati e che vediamo evacuare da Mariupol e dalle altre città martiri dell'Ucraina saranno i soldati e i combattenti di domani, se non sapremo fermare questa follia, e vale per qualsiasi conflitto in ogni parte del mondo. Mi piacerebbe davvero che i vari negoziatori e mediatori che cercano di convincere la Russia a interrompere l'attacco e l'Ucraina ad accettare un compromesso, portassero sempre con sé, e avessero bene in mente, la foto di Fenton. Questa è la guerra: desolazione, solitudine, morte, devastazione, ingiustizia. Nessuna gloria, solo fottutissime palle di cannone. In questi tristi giorni di guerra in Europa (sottolineo "in Europa", perché nel resto del mondo le guerre non sono mai cessate), viene spesso evocato lo spettro delle colpe di noi Occidentali. Insomma: gli "americani" e i loro alleati (spesso noi italiani compresi) hanno invaso l'Afghanistan, l'Iraq, bombardato la Serbia. E non parliamo della guerra di Corea o di quella del Vietnam! In fondo che differenza c'è? Non è ogni guerra ingiusta e ogni potenza per sua natura imperialista? Riconosco che in questo ragionamento c'è del vero, ma come fotografo credo che la differenza la facciano proprio i fotografi. Di guerra, s'intende. Quando si parla di questo genere di reporter, il primo nome che viene in mente, giustamente, è quello del più bravo di tutti (nemmeno a provarci a discutere di questo), cioè Don McCullin. Nella foto sopra, scattata in Vietnam, vediamo due soldati americani che soccorrono un commilitone ferito: la foto è "sporca" eppure di rara efficacia. Non c'è nulla di eroico, solo la sofferenza, perché questo è la guerra: morte e dolore, nient'altro. McCullin non è "avventuroso" e spaccone come Robert "Bob" Capa (cioè Endre Ernő Friedmann), eppure è sempre in prima linea nelle guerre che si succedono nel mondo. Dichiarerà sempre di odiare la guerra e di fotografarla proprio per questo. Certo non è stato l'unico, anzi sono parecchi ad aver accettato di mettere a rischio la propria vita per mostrare agli altri cosa davvero sia la guerra, spesso combattendo la censura e la propaganda. La foto qui sopra, ad esempio, è di David Douglas Duncan ("DDD" per gli amici) e ci fa entrare nel vivo dell'azione: notare le divise dei due soldati, bagnate sino all'altezza delle ascelle: si scivola nel fango e nell'acqua, la guerra è sangue e merda anche per questo. E fa vittime innocenti - sempre - come, per venire a tempi più recenti, in Afghanistan dove l'invasione americana voleva essere "pulita" e con meno vittime possibili: un ossimoro, sbugiardato da fotografi come Giles Duley. Duley reca sul suo corpo gli effetti della guerra, avendo perso un braccio e una gamba saltando su una mina durante un reportage in Afghanistan, quasi come il bambino ferito che ha fotografato. Eppure continua a raccontare l'orrore di cui lui stesso è oramai immagine vivente. Tutto questo ha impedito che nuove guerre scoppiassero? No. Ma ha permesso a chi voleva farsi un'idea realistica di quanto accadeva di avere delle testimonianze professionali, ben fatte, nei limiti libere e oggettive. Ma delle guerre russe, della Cecenia e ora dell'Ucraina (come a suo tempo dell'invasione russa dell'Afghanistan o peggio dell'intervento in Yemen del 1967) cosa sappiamo davvero? Non ci sono reporter liberi che possano fare una seria documentazione, nemmeno "embedded" nelle truppe di invasione. Al più ci sono foto di propaganda realizzate ad hoc. Ma è in generale tutta l'informazione bellica che è profondamente cambiata e la colpa è, almeno in parte, proprio dei fotografi. Chi non ricorda la foto di Nick Ut scattata in Vietnam a una giovanissima Kim Phùk? La si vede correre e piangere dopo essere rimasta gravemente ustionata durante un bombardamento sudvietnamita con il napalm (aereo e napalm forniti dagli USA, s'intende). La foto fece vincere al fotografo il premio Pulitzer, ma soprattutto, insieme alle tante immagini che giungevano dal fronte, fece cambiare atteggiamento all'opinione pubblica americana, scatenando le proteste di massa e di fatto incidendo sul ritiro americano dalla guerra. Un "errore" che i vertici militari cercarono di evitare per il futuro, riuscendoci solo in parte perché alla fine nei paesi occidentali - pur con tutte le loro ipocrisie - vige la libertà di stampa. E i fotografi anche se inseriti all'interno delle truppe del proprio paese, riuscirono (in parte riescono ancora) sempre a fare il proprio lavoro. In Unione Sovietica prima e in Russia poi questo meccanismo non è mai esistito, mancando una stampa davvero libera. E non è l'unico paese al mondo con un simile problema lo sappiamo. Oramai, però, questo va detto, le notizie dal fronte non sono più affidate a seri professionisti, ma sempre più spesso a una masnada di "citizen reporters", di gente armata di smartphone che riprende più o meno casualmente quel che accade. Ovviamente ci sono ancora fotografi con la scritta "press" sulle spalle che documentano la situazione (la foto sopra ad esempio è dell'agenzia EPA), ma è cambiato il loro ruolo, spesso si limitano a scattare immagini "di quel che succede" non a realizzare dei reportage che in qualche modo cerchino di interpretare la realtà, di andare oltre quel che si vede.
Non dubito che nella prossima edizione del World Press Photo ci sarà qualche foto vincitrice scattata in Ucraina, ma ovviamente qui parlo del "mainstream" e soprattutto del ruolo che oramai ha l'informazione in Occidente: un flusso continuo, inarrestabile, traboccante di notizie e immagini, video professionali o amatoriali, testimonianze confuse e alla rinfusa. Un caos nient'affatto calmo. A cui si aggiunge il problema di sempre, cioè il fatto che riceviamo tutto questo sempre e solo (o quasi) da una parte, quella ucraina, esattamente come un tempo non avevamo foto e reportage dai nordvietnamiti o dai Talebani. Però almeno, un tempo, avevamo fotografi in grado di allargare lo sguardo ed evitare la mera propaganda. Oggi non più, perché i canali di diffusione di un certo tipo di immagini sono oramai prosciugati. E Internet non potrà mai sostituire un giornale strutturato e "pensato" come, che so, "L'Espresso" di una volta. E concludo, a proposito, esprimendo la mia solidarietà a Marco Damilano - che si è dimesso dalla direzione del magazine - e ovviamente a tutta la redazione de "L'Espresso". La motivazione della crisi è proprio il fatto che un giornale come questo, se non dotato di mezzi e giusto coraggio, non può svolgere la sua funzione. Perché un giornale non è solo un'impresa economica... |
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